Amati lettori, da martedì affronto l’analisi delle motivazioni della sentenza per il boss di mafia Francesco Tagliavia presso la seconda Corte di assise di appello di Firenze, depositata il 20 maggio. Ergastolo venne inflitto il 24 febbraio scorso a Tagliavia per la strage di via dei Georgofili del 27 maggio 1993 (in cui morirono cinque persone e 38 rimasero ferite) nel processo di appello bis. La Cassazione annullò con rinvio una prima sentenza di appello. Per quanto scritto nei giorni scorsi rimando al link a fondo pagina (dove troverete anche il collegamento a quanto scritto nel passato.)
Oggi mi concentro sul cuore della sentenza emessa che, come abbiamo visto in quanto scritto negli scorsi giorni, nonostante l’estenuante rincorsa di un equilibrio in punta di diritto e sul filo della neutralità per lasciare a Palermo la patata bollente, alla fine mette tre punti fermi che proprio Palermo sarà inevitabilmente costretta a percorrere e considerare.
Punto primo: l’esistenza della trattativa è comprovata dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi ed è proseguita con la strategia stragista.
Punto secondo: si può considerare provato che la prima fase della trattativa, avviata dopo la strage di Capaci, avvenne su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale
Punto terzo: l’arresto prima dei fratelli Graviano il 27 gennaio 1994 e poi di Vittorio Mangano il 4 aprile 1995, devono essere ritenuti allo stadio attuale delle valutazioni (e dunque ecco che ancora una volta, la patata bollente viene lanciata nelle aule del Tribunale di Palermo dove si svolge la parte vitale di questo processo) decisivi per l’interruzione di ulteriori approcci tra Stato e Cosa nostra.
I giudici fiorentini dell’appello mettono infatti nero su bianco: «Pur tuttavia si può considerare come dato storicamente e processualmente raggiunto, che la strategia stragista, strumento del tutto inconsueto per la compagine mafiosa tradizionalmente interessata più al controllo del territorio e di attività illecite lucrose, abbia rappresentato un salto di qualità strategico con l’attingimento di obiettivi diversi ed indifferenziati rispetto alla eliminazione di specifici avversari soggettivamente individuati, rispondente dunque non solo a impulsi utilitaristici di natura vendicativa, ma al raggiungimento di obiettivi di natura terroristica».
Soprattutto, però, alle pagine 119 e 120 scrivono: «Molto più complessa e non definitiva invece è la conclusione alla quale si può pervenire nei limiti del presente processo, in ordine alla esatta individuazione dei termini e dello stadio raggiunto dalla c.d. trattativa, la cui esistenza, comprovata dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi, è però logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista: il ricatto non avrebbe difatti senso alcuno se non ne fosse scaturita la percezione e la riconoscibilità degli obiettivi verso la presunta controparte. In altri termini la pressione e le retrostanti pretese alla cui soddisfazione era legata la cessazione degli attentati terroristici dovevano essere chiaramente comprese dagli interlocutori .
Si può dunque considerare provato che dopo la prima fase della c.d. trattativa, avviata dopo la strage di Capaci, peraltro su iniziativa esplorati va di provenienza istituzionale (cap.De Donno, e successivamente Mori e Ciancimino), arenatasi dopo l’attentato di via D’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura e l’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quella interruzione. Il programma delittuoso non si arrestò a maggior ragione dopo l’arresto di Riina la cui determinazione stragista fu raccolta da Bagarella. D’altra parte l’oggettivo ammorbidimento della strategia di contrasto alla mafia proprio a mezzo del mancato rinnovo di taluni provvedimenti di adozione di carcere duro ex art. 41 bis, anche per detenuti di mafia (vedi sul punto ampiamente la motivazione di 1° grado a pag. 486 dichiarazioni dell’ex direttore Dap Amato e degli ex ministri Conso e Mancino) ben poteva ingenerare la convinzione della cedevolezza delle istituzioni, anche perché nel frattempo si avvicendavano sulla scena politica nuovi interlocutori oggetto di interesse da parte dell’apparato mafioso i cui referenti furono individuati in Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri.
In tale contesto dunque trova agevole spiegazione la ragione dell’attuazione del già progettato attentato di ben maggiore micidialità ai danni dì un pullman dì carabinieri, il c.d. attentato dell’Olimpico, fortunatamente fallito, a buona ragione definibile come “colpo di grazia”, sia perché aveva quale obiettivo diretto la morte di più persone progettata con modalità tali da poter determinare notevole prevedibile costo in termini di perdite di vite umane, sia per il clamore simbolico dell’obiettivo, centrato contro un’istituzione popolare e rappresentativa dell’autorità statale, come l’Arma dei Carabinieri, sia perché infine la scelta dell’obiettivo, l’Arma, avrebbe dovuto essere eloquente per i destinatari del messaggio, visto che proprio alcuni suoi rappresentanti si erano infruttuosamente esposti sul fronte delle iniziali trattative, avviate da De Donno e Mori.
Il successivo arresto prima di Graviano nel gennaio 1994 e poi di Vittorio Mangano nel 1995, si deve, allo stadio, ritenere decisivo per l’interruzione di ulteriori approcci».
Non resta che attendere quanto accadrà a Palermo, nella speranza non solo che agguati e giochi sporchi abbiano fine, ma soprattutto che l’opinione pubblica venga informata senza pregiudizi o partigianeria (non è compito dei giornalisti emettere sentenze) o, peggio ancora, senza “telecomandi” che orientino l’informazione stessa.
3 – the end (per le precedenti puntate si leggano http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2016/06/07/trattativa-stato-mafia1-in-appello-i-giudici-fiorentini-danno-lustro-alle-conclusioni-raggiunte-in-primo-grado/
ma si leggano anche