Il processo sulla trattativa Stato-mafia? Per il giurista Fiandaca era meglio farlo in Commissione antimafia

Cari e amati lettori, da ieri interloquisco con voi (ancora una volta) sul processo sulla trattativa tra Stato e mafia in corso a Palermo.

Lo faccio perché in questi anni, in questi mesi e nelle ultime settimane, sono scesi in campo i difensori d’ufficio (non richiesti) dello schieramento pro-Procura e dello schieramento contro il processo. Non contro la Procura e i pm (almeno così, nella mia enorme ingenuità voglio credere) ma proprio contro l’opportunità di inscenare uno (o più processi) contro il più ignobile dei tradimenti alla democrazia italiana e alla Patria.

In questi anni sono scesi in campo schieramenti agguerriti e in questi ultimi mesi gli eserciti si sono rafforzati.

Io – lo sa chi mi segue da anni – non appartengo a nessun schieramento e guai se qualcuno prova a farmi passare per amico del pm Tizio, Caio o Sempronio, me ne frego di ogni cordata, me ne frego di ogni intellighenzia salottiera, di ogni movimento infoiato a supporto di Tizio o Caio, il che non mi impedisce di schierarmi e abbracciare le idee che condivido e, ma solo di conseguenza, gli uomini e le donne che le sostengono. Da qualunque parte provengano. Il che non mi impedisce, dunque, di schierarmi ed esprimere (il blog permette questo) le mie opinioni, maturate nella mia capa dopo aver letto e ascoltato tutti.

Sulla trattativa (non presunta) ho espresso più volte il mio pensiero.

Rifletto ancora, in questi giorni, insieme a voi, perché a scendere in campo sono stati da una parte i soliti Fatto Quotidiano e intellighenzia che intorno allo stesso ruota e dall’altra Il Foglio ed Emanuele Macaluso che, non ho mai capito perché (ma il difetto, sia chiaro, è tutto mio) qualcuno insiste a definire un intellettuale di sinistra.

La discesa in campo di Macaluso mi ha sorpreso moltissimo. Non per la discesa stessa ma per le argomentazioni usate che ho trovato quanto di più lontano dal mio pensiero ma, soprattutto, mi ha sorpreso perché la sua discesa in campo è stata una difesa e un lancio (editoriale) del volume di due intellettuali siciliani (uno in realtà, se non erro, è però di origine senese). Trattasi di: "La mafia non ha vinto – Il labirinto della trattativa" (Laterza), del giurista Giovanni Fiandaca e dello storico Salvatore Lupo. Il titolo, che vuole essere provocatorio, è tutto un programma, il sottotitolo è subliminale. Dei due autori ho il massimo rispetto.

Ieri avete letto (e rimando dunque a ieri con http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/04/il-processo-sulla-trattativa-stato-mafia-spiegata-da-emanuele-macaluso-pensieri-parole-opere-e-omissioni.html) la mia riflessione sull’appassionata e (per me) in larghissima parte non condivisibile riflessione di Macaluso. In sintesi, non solo penso che la trattativa ci sia stata (al di là e oltre quanto già affermato dalla Corte d’Assise di Firenze il 5 ottobre 2011 e al di là e oltre quanto potrà acclarare una verità giudiziaria, che non è l’unica verità sulla faccia della terra) ma che sia stata (e sia) il peggior tradimento che sia stato (e sia) possibile in uno Stato di diritto. Altro che reato! E l’opinione di un “mafiologo da strapazzo” che, però, per maturare compiutamente il proprio pensiero legge le riflessioni altrui, attende di capire come si svilupperà il processo, come si concluderà in primo grado, come si riapriranno i corsi giudiziari di altri processi (Mori-Obinu in appello), quali sorprese arriveranno da altri fascicoli aperti tra Palermo, Caltanissetta, Catania e Reggio Calabria e quali soggetti (nuovi e vecchi) verranno eventualmente considerati autori della trattativa e a quale livello di consapevolezza e autorevolezza. Ed eventuale colpevolezza (in primo grado).

Le riflessioni di Macaluso analizzate ieri e incrociate con le mie, mi sono servite e mi servono per risalire alla “fonte” delle stesse, vale a dire quel volume di cui sopra vi ho scritto.

Il professor Fiandaca l’11 febbraio 2014 si è seduto di fronte alla Commissione parlamentare antimafia e ha svolto la sua apprezzata audizione. Ad un certo punto (e da questo punto in poi l’apprezzamento si miscela con lo stordimento e la disapprovazione di alcuni commissari antimafia) il commissario Franco Mirabelli chiede: «Qualche settimana fa ho letto un articolo su Il Foglio, professor Fiandaca, in cui si esprimeva una sua opinione interessante sul processo sulla trattativa di Palermo. Credo che, se lei volesse riassumercela in questa sede, essendo questa materia con cui ci siamo misurati, gliene saremmo grati».

Già, perché il Foglio, a più riprese interviene e ospita (e ci mancherebbe altro) interventi e opinioni che puntano a smontare il processo e la sua stessa utilità, accompagnando il tutto con contorni di dietrologie dalle quali rifuggo.

Fiandaca che, non dimentichiamolo mai, è un illustre giurista e presidente della Commissione istituita presso il Ministero della Giustizia per l’elaborazione di una proposta di interventi in tema di criminalità organizzata, dapprima cerca di prendere le distanze: «È tardi e concludere con il tema della trattativa dopo più di due ore di discussione credo prospetti un'impresa non facile da realizzare. Nella domanda si faceva riferimento a un mio saggio che è stato pubblicato per fattori casuali per intero, cosa inconsueta, ne Il Foglio del 1 giugno scorso, peraltro con un titolo che mi ha creato imbarazzo, del quale naturalmente non sono responsabile, ma è responsabile il giornale. Avrei dovuto non condividere la pubblicazione su Il Foglio, però ho pensato poi che fosse meglio così, perché il saggio ha avuto una diffusione che diversamente non avrebbe avuto, perché è stato concepito, come è noto, per una rivista specialistica, e che abbia avuto una diffusione maggiore di quanto non consentisse una sede specialistica dal mio punto di vista è stato positivo».
Non solo dunque, in realtà, non ne prende le distanze ma se ne bea e subito dopo aggiunge «che sta per uscire a fine febbraio un volumetto della casa editrice Laterza sullo stesso argomento, in cui io ripropongo e approfondisco i punti di vista espressi nel primo saggio. Questo saggio avrà un titolo provocatorio, del quale neanche questa volta sono responsabile: “La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa”».

Neppure questa volta, dunque, c’è la responsabilità del titolo (maledetti titolisti!) ma c’è, ovviamente, la responsabilità del pensiero sintetico: da una parte il suo saggio, dall’altra quello dello storico Salvatore Lupo.

I due autori si sono «trovati a scrivere due saggi confluiti nello stesso volumetto, perché abbiamo non pochi punti di convergenza nell'adottare una determinata ottica ricostruttiva rispetto a quell'insieme di fatti e di fenomeni, che purtroppo assai impropriamente sono stati ricondotti sotto l'etichetta generica e in fondo fuorviante, ma di facile uso mediatico di “trattativa”».

Fiandaca, dunque, non solo esprime un’opinione (legittima e ci mancherebbe) ma parla di un uso mediatico e fuorviante di un insieme di fenomeni, che hanno portato «ad un disorientamento manifestato dal punto di vista della percezione e anche della conoscenza pubblica di tutto quello che è accaduto è infatti dovuto proprio all'infelice uso del termine “trattativa”». La colpa, dunque, è principalmente dei giornalisti. E di chi sennò? Poco o nulla fa il fatto che, il 5 ottobre 2011, la Corte d’Assise di Firenze, condannando in primo grado all’ergastolo il boss Francesco Tagliavia, accusato di aver partecipato all'esecuzione delle stragi del 1993, scrive: «Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia. L’obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno d’intesa con Cosa nostra per far cessare la sequenza delle stragi. E’ verosimile che tutti gli apparati, ufficiali e segreti, dello Stato temessero sommamente altri devastanti attentati dopo quello di Capaci, nella consapevolezza che in quel momento non si sarebbe saputo come prevenirli e questo anche perché, e lo si intuisce dalla stessa esplorazione affidata al capitano De Donno, nonostante gli sforzi encomiabili di tutte le forze di polizia, si brancolava abbastanza nel buio, soprattutto sul piano dell’intelligence».

Questo e molto altro ancora si legge da pagina 511 della sentenza 3/11 depositata il 5 marzo 2012 (l’ergastolo a Tagliavia è stato confermato in appello il 1° ottobre 2013 e ora giace in Cassazione il ricorso).

POCO TEMPO

Al di là di ogni contingente intento polemico, l’interesse per l’argomento nasce in Fiandaca dal fatto che, come lui stesso racconta ai commissari antimafia, è uno studioso di diritto penale sempre più interessato ad analizzare i complessi rapporti di interferenza e di interazione, che nell'ambito di processi per tematiche molto complesse si realizzano tra l’approccio ricostruttivo-giudiziario, l’individuazione o il tentativo di individuazione di una fattispecie di reato in termini tecnico-giuridici, il giudizio storico-politico che sta a monte e di cui è portatore lo stesso magistrato e il giudizio ancor prima anche in chiave etico-politica che il magistrato esprime su determinati fenomeni.

Quello che per Fiandaca, dunque, si realizza, è un intreccio molto complesso e quel che merita di essere illuminato è, dal suo punto di vista, quanto una preconcetta ricostruzione storica e soprattutto un preconcetto giudizio di condanna in termini etico-politici possano determinare rispetto a una determinata scelta qualificatoria in termini di criminosità.
Ed infatti Fiandaca (dimenticando Firenze) ricorda alla Commissione parlamentare antimafia che l’insieme dei fatti o delle vicende impropriamente etichettate come trattativa ha più volte costituito oggetto di vaglio giudiziario in sedi diverse, presso uffici giudiziari diversi del territorio nazionale o presso diversi uffici giudiziari di una stessa sede come Palermo. «Non è casuale che diversi magistrati che si sono occupati degli stessi fatti – afferma Fiandaca –  non solo non hanno ravvisato gli stessi elementi di criminosità, ma hanno ancora più a monte fornito una lettura diversa in chiave sia di ricostruzione storica, sia di sottostante giudizio di meritevolezza o di condanna etico-politica».
Ed ecco lì che il pensiero va alle 800 pagine che il Tribunale di Palermo ha dedicato, nell’ambito delle complessive 1.300, al processo per favoreggiamento nei confronti dell’ex colonnello Mori. E’ sintomatico, afferma Fiandaca, «che i tentativi di trattativa che vengono considerati condannabili innanzitutto sul piano etico-politico e dotati di rilevanza penale secondo il processo in corso a Palermo, alla stregua del paradigma criminoso di cui all'articolo 338 del Codice penale, da un diverso giudice, l’estensore, sono considerati tentativi meritori nella particolare fase storica in cui sono avvenuti». Insomma, nella stessa città (Palermo) c’è quindi un diverso giudice che non solo non ravvisa estremi di reato, ma esprime apprezzamento. Va bene, ma entro certi limiti, afferma Fiandaca, «perché poi, se le valutazioni sono eccessivamente differenziate, si creano elementi di disorientamento».
Per Fiandaca, insomma, nel pool palermitano (lo ricordo: Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene) c’è un fiorire di preconcetti: un preconcetto giudizio di disapprovazione etico-politica e la preconcetta adesione a una sorta di tendenza storica per cui la mafia dal secondo ’800 ad oggi ha sempre trattato con lo Stato. Inoltre il pool è affetto da un’adesione un pò dogmatica a questa tesi e da un affrettato giudizio di condanna etico-politica.
Ma fosse solo questo…Per Fiandaca i magistrati che hanno imbastito l’attuale processo sulla trattativa hanno sottovalutato il grande problema di rapporto tra i diversi poteri istituzionali e un grandissimo problema di divisione dei poteri, che sempre i magistrati, non hanno adeguatamente valutato. «Questo ha comportato un’affrettata tendenza a criminalizzare il comportamento di soggetti in qualche modo titolari pro quota del potere esecutivo», afferma sempre il giurista siciliano.

LO SBAGLIO

A questo punto, l’ipotesi di reato alla fine «escogitata», vale a dire la violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato (articolo 338 del codice penale), per Fiandaca e per altri professori di diritto penale, è difficilmente sostenibile dal punto di vista tecnico-giuridico, tra le altre cose perché il Governo non è un corpo politico, ma è un organo costituzionale e come tale il riferimento all’organo costituzionale è contenuto nell'articolo 289 del Codice penale e fa riferimento all’attentato contro organi costituzionali. Questo, per Fiandaca, è un errore giuridico «marchiano». Meglio allora, afferma, avere il coraggio di prospettare il concorso esterno o addirittura il concorso morale nelle stragi. «Evidentemente, un passo avanti che non ci si è sentiti di compiere per ovvie ragioni di prudenza – afferma Fiandaca di fronte ai commissari antimafia – ma questo conferma a mio avviso la poca plausibilità nella configurazione del reato di cui all'articolo 338».

ROSY BINDI

A questo punto dell’audizione interviene il presidente della Commissione, Rosy Bindi, che riassume il pensiero di Fiandaca: «Di per sé la trattativa non è un reato, ci sono poteri dello Stato che a fini buoni possono e in alcuni casi devono parlare e interloquire con tutti. Il reato può subentrare quando questa trattativa porta a specifici comportamenti criminosi, per cui o siamo in grado di dimostrare che c’è stato questo o altrimenti la trattativa in sé non può essere considerata reato.
La tesi del professore mi pare di aver capito, oltre al
pluralismo delle sedi, è che non si può disconoscere anche in sede giudiziaria l’articolazione dei poteri dello Stato, che, oltre alla grande divisione costituzionale (legislativo, esecutivo, giudiziario), comporta all'interno degli stessi poteri, in particolare quello esecutivo, spazi e obblighi d'intervento, altrimenti, volendo arrivare a soluzioni tranchant, sarebbero illegali i servizi segreti in un Paese e dovremmo abolirli
».

LUMIA

A ruota Giuseppe Lumia (Pd), che riporta tutti con i piedi per terra: «noi abbiamo una discussione aperta per comprendere se la trattativa ci sia stata e abbia rilievi penali, una discussione aperta per comprendere se la trattativa ci sia stata e sia stato anche un dovere esercitarla, ma c’è anche una discussione per comprendere se la trattativa ci sia stata e, al di là dei rilievi penali, siano stati commessi degli abusi e ci sia stato un percorso di legittimazione devastante dell'interlocutore Cosa nostra. Ecco perché la complessità va analizzata e da un punto di vista della Commissione antimafia il terzo profilo che ho prospettato è un profilo di particolare interesse, che richiama la cosiddetta “responsabilità politico-istituzionale”, che da un punto di vista democratico ha un valore di rilievo che va tutelato».

E Fiandaca, sull’ultimo tema sollevato, risponde che la Commissione antimafia ha più competenza di un tribunale rispetto a questo tema ma Bindi si interroga se, quando è in atto un procedimento in sede giudiziaria, si possa contestualmente aprire la riflessione anche in sede di Commissione antimafia.

 

CORSA A OSTACOLI

Fiandaca, rispetto a questa “sospensione”, riprende il filo del discorso ed è sulla possibilità che si possano compiere anche nell'immediato futuro significativi passi avanti sul piano dell’accertamento della verità giudiziaria. Ecco, secondo lui, i motivi.

1) un eccesso di indagini, cioè un numero rilevante di indagini già realizzatesi sugli stessi fatti ha nel corso del tempo determinato un fenomeno di usura del testimone.
Le stesse persone ascoltate nel corso di un ventennio più volte sugli stessi fatti, anziché riuscire a contribuire con deposizioni ripetute e successive a un maggiore approfondimento della verità, rischiano di complicare ulteriormente le cose, perché gli stessi testimoni anche inconsapevolmente sono influenzati da quanto ascoltano e leggono anche da parte di altri in sedi diverse. «Risulta ad esempio dagli atti relativi al processo per favoreggiamento, cui facevo riferimento prima in cui Mori è stato assolto per la seconda volta – afferma Fiandacache anche magistrati insospettabili nella procura di Palermo, che hanno riferito delle stesse vicende, per esempio la visita insieme a Paolo Borsellino al Ministro dell'interno epoca, in tempi diversi, ascoltati da magistrati diversi hanno riferito cose corrispondenti a ricordi diversi. Lo dico emblematicamente, perché si tratta di magistrati insospettabili.
Lo stesso è avvenuto con uomini politici, e soprattutto c’è da temere il fatto che i collaboratori di giustizia più furbetti, attraverso tutto quello che hanno letto nel corso del tempo e che hanno ascoltato, danno spesso l'impressione di rivedere ad hoc nel corso del tempo le loro deposizioni
».

2) Il fatto che si sia messo su un processo sulla «cosiddetta trattativa» in senso stretto, cioè diversa dalle stragi e quindi dai reati per stragi, ha complicato la situazione.

E qui Fiandaca si lancia in un «esperimento mentale».

«Immaginiamo che non ci fosse stata un'indagine prevale sulla cosiddetta “trattativa con la configurazione di un'ipotesi di reato e ammettiamo che la vicenda, anziché essere affrontata più volte in tribunale, fosse stata oggetto di indagine soltanto in sede di Commissione antimafia – dice di fronte ai commissari –. Io credo che, se questo fosse avvenuto con l’obiettivo di un approfondimento della verità storico-politica, senza il fantasma incombente di un'imputazione penale qualsiasi, avrebbe potuto favorire la conoscenza di un maggior numero di fatti rispetto a quanto siamo riusciti a sapere. Siccome presumo che alcuni dei soggetti coinvolti non siano dei delinquenti e, se hanno anche potuto operare politicamente in modo discutibile, in ogni caso però, ammesso che esistano, non hanno le stimmate del criminale in senso forte, il timore di poter essere coinvolti in un’imputazione penale opera come fattore frenante, inibente, di remora rispetto alla disponibilità a dire più di quanto finora non si sia detto. Mutatis mutandis, come voi sapete meglio di me, è avvenuto in certi contesti storici molto più gravi che le famose Commissioni per la verità e la riconciliazione, che sono state messe su in alcuni Paesi con la sospensione del procedimento penale, hanno avuto l'effetto di favorire la disponibilità a ricostruire con minore timore il passato. È una mia valutazione personale, ma, poiché a tutt'oggi mi pare che le udienze sinora fatte a Palermo non abbiano fatto emergere elementi nuovi, ma anzi c’è l'impressione che si riversino sempre le stesse cose, e siccome da penalista ritengo improbabile che sia sostenibile un'ipotesi seria di reato connesso alla trattativa, a meno che non risultino prove di coinvolgimenti ben più gravi, che per fortuna non ci sono, un approfondimento degli stessi fatti in una sede diversa dalla sede penale, quindi in una sede politica avrebbe avuto maggiori chances di raggiungere livelli di conoscenza maggiori».
3) per quanto concerne l’interferenza tra giudizio penale e Commissione antimafia, per Fiandaca «tutto può succedere, ma sono convinto (e concordo con il senatore Lumia) che, soprattutto rispetto al terzo versante, la Commissione antimafia mi sembrerebbe la sede più adatta, ma, essendovi connessa un'ipotesi di imputazione, c’è questo effetto perverso per cui non se ne esce».

 

CONCLUSIONI

Di fronte a questa lunghissima e dotta audizione (sul punto) di Fiandaca mi sembra che si possano tirare le seguenti conclusioni (se sbaglio sono pronto a correggermi):

1) la trattativa tra Stato e mafia non è un reato (ha ragione Fiandaca, è infatti la negazione stessa dello Stato di diritto)

2) l’ipotesi di reato è strampalata e poco coraggiosa (ha ragione Fiandaca, io avrei infatti ipotizzato concorso esterno alle stragi e nessuno impedisce che il capo di imputazione muti in fase dibattimentale)

3) c’è un preconcetto nei pm, secondo il quale lo Stato ha sempre trattato, anche oggi, con le mafie (io lo so ma non ho le prove direbbe Pierpaolo Pasolini)

4) c’è, a priori, una condanna etico-politica da parte dei pm (se anche ci fosse non deve influenzare certo l’operato di pm e giudici e se si pensa il contrario bisogna dimostrarlo)

5
) meglio la Commissione parlamentare antimafia (come no, così ne sarebbero uscite almeno due o tre di verità, con relazioni di minoranza, di maggioranza, delle minoranze delle maggioranze e cosi via di questo passo)

6) l’eccesso di indagini e la pletora di attori o comparse rende tutto nebuloso e dunque di fatto impossibile l’accertamento di alcunché (e chi ha reso possibile, di grazia, che sommo fosse il caos sotto il cielo giudiziario?)

In tutto questo, quel che trovo però devastante, è l’assunto che trattare con la mafia non sia reato. Se così fosse (e sarebbe una putrescente falla nella Giustizia) anche ogni “regalo” delle trattative (acclarate o mai dimostrate ma reali) sarebbe un incidente di percorso ammissibile. Comprese, dunque, le stragi, le tentate stragi, gli attentati, le morti dei Servitori dello Stato che, piuttosto che trattare con le mafie o con qualunque altro sistema o corpo criminale, sono stati e sono ancora oggi pronti a pagare il prezzo della propria vita.

r.galullo@ilsole24ore.com

2 – the end (la precedente puntata è stata pubblicata ieri. Si veda archivio oppure http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/04/il-processo-sulla-trattativa-stato-mafia-spiegata-da-emanuele-macaluso-pensieri-parole-opere-e-omissioni.html)

  • bartolo |

    Caro Galullo, solo uno stato mafioso può trattare con la mafia. E, fino a quando esiste la trattativa (tuttora), esiste la mafia. Per quanto riguarda l’asserzione del giurista Fiandaca, che vorrebbe i processi fossero fatti da organi costituzionali diversi dalla magistratura al fine di ottenere confessioni affrancate dal timore delle manette, fossi un Commissario antimafia, avrei chiesto come mai per i soggetti imputati di 416 bis, valga la tesi opposta. Cioè, la tortura degli ergastoli bianchi e del 41 bis. Nessuna meraviglia nel caso la risposta sarebbe, non si vuole conoscere la verità!
    Saluti b.i.

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