Trattativa Stato-mafia/6 Di Carlo: «Stefano Bontate chiese 100 milioni a Berlusconi e nel ’74 raccolse 10 miliardi da investire a Milano»

Tra i testimoni che il pool palermitano (Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) hanno chiamato nel processo penale sulla trattativa tra Stato e mafia c’è anche Francesco Di Carlo.

Della sua deposizione, dal 30 gennaio 2014, due settimane fa ho cominciato a scrivere su questo umile e umido blog. Rimando ai precedenti post per i temi affrontati in precedenza (si veda link a fondo pagina).

Di Carlo, dall’accusa, viene chiamato a riferire non solo della sua appartenenza alla mafia siciliana ma anche dei rapporti intrattenuti con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, di quanto a sua conoscenza sui rapporti tra l’imputato Antonio Subranni, i cugini Nino e Ignazio Salvo e l’onorevole Salvo Lima; sui suoi rapporti con Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri anche con riferimento ad investimenti operati da Cosa nostra in attività imprenditoriali riconducibili a Silvio Berlusconi.

Tra i capitoli più delicati (ricordiamo sempre che si tratta di una testimonianza, che le prove si costituiscono in dibattimento anche in contraddittorio e che i gradi di giudizio sono tre e, dunque, fino a quel momento vale il principio di innocenza) c’è il rapporto di Di Carlo con Dell’Utri, lo “stalliere” Mangano e le eventuali conoscenze degli affari di Berlusconi.

Analizzeremo questi aspetti partendo dallo stesso filo logico di Di Carlo che, nell’udienza del 27 febbraio, accenna della conoscenza pregressa con Dell’Utri per questioni legate al calcio ma poi specifica che è nel viaggio a Milano nel ’74 che il suo ruolo riappare. Di Carlo si trova infatti, casualmente, sullo stesso aereo con Stefano Bontate, Mimmo Teresi e Tanino Cinà. Tutti insieme appassionatamente in volo per raggiungere Dell’UItri a Milano.  Di Carlo si aggrega all’allegra compagnia (tutti conoscevano già Dell’Utri) e raggiunge con loro l’ufficio di Milano dove ad accoglierli c’è proprio Dell’Utri. Poi ad un certo punto si affaccia lui, il costruttore edile Berlusconi con il quale, del resto, era stato fissato l’appuntamento. Altrimenti – dirà Di Carlo – “Dell’Utri potevano incontrarlo pure a Palermo”.

PARLAVA SEMPRE LUI

Di Carlo rimase sorpreso dal fatto che Berlusconi conosceva (almeno così dice al pm Vittorio Teresi) Cinà, che fosse gentilissimo, che parlasse sempre lui e che vestisse in maniera informale mentre loro erano in giacca e cravatta. “E’ spuntato questo dottore – dirà Di Carlo in udienza – questo grande impresario. E arriva con un maglioncino a girocollo, non so, pantaloni e girocollo, che eravamo in primavera o…Non mi ricordo preciso. Comunque una persona normale”.

Parlano di costruzioni, ovviamente.  Ma dopo. Solo dopo. Dopo il vero motivo, racconta il pentito di Altofonte, per cui la truppa si era spostata da Palermo a Milano in aereo. “Il problema era perché Berlusconi aveva avuto segnali – dirà Di Carlocome era in quel periodo a Milano, che aveva paura se ci sequestrassero…O aveva avuto minacce se ci sequestrassero i figli o lui stesso, qualcosa. E voleva una garanzia e cose. E si vede che Marcello Dell’Utri ne aveva parlato a Tanino, perché Marcello Dell’Utri, non essendo ancora addentrato in Cosa nostra o cose, pensava che Tanino fosse. Visto sempre che lo vedeva con i Teresi, lo vedeva con altri che avevano un nome come mafiosi, ai tempi ancora non si sapeva che esisteva  Cosa nostra. E pensava che era Tanino tutto…E ne parla con Tanino. Tanino ne parla con Stefano, si organizzano per vedere a chi ci potevano mettere vicino a Berlusconi per avere tranquillità e non farci fare estorsioni oppure sequestri o meno”.

A domanda espressa Di Carlo dice che a Milano, all’epoca, c’erano famiglie mafiose ma la garanzia era di un uomo di Cosa nostra. “Infatti quando  ha avuto la garanzia – prosegue Di Carlo  – Berlusconi si è tranquillizzato e mi ricordo dopo tutti questi discorsi che ci sono stati, dicendo lei può stare tranquillo…”.

Insomma (come riassume il pm Vittorio Teresi): Berlusconi poteva dormire tranquillo, perché per qualsiasi cosa, attraverso Dell’Utri, poteva mandarli a chiamare. Già: ma chi mettere dentro la proprietà del futuro padrone di Mediaset, futuro presidente del consiglio nonché re del centro destra? Usciti dall’ufficio, tra i sodali partiti da Palermo più Di Carlo, fioccano i nomi e i veti. Il nome, a un certo punto, cade su Vittorio Mangano che pure non era tanto gradito a Stefano Bontate.

E che ruolo avrebbe dovuto avere Mangano, chiede il pm Teresi. “Ovviamente non di pulirci le stalle – dice Di Carlo –  perché si dice sempre lo stalliere, lo stalliere. A meno che lo stalliere non è come il maggiore colonnello che c’ha la regina Elisabetta, lo stalliere là significa essere addetto militare (Di Carlo è stato a lungo recluso in Inghilterra e che dal ’74 aveva la residenza a Londra, ndr) . Lui era un militare, perché era un soldato, addetto alla sicurezza di tutto quello che si svolgeva nella famiglia Berlusconi”.

Dal tono delle dichiarazioni e dalle cose raccontate, si capisce che a tirare le fila di tutto era Stefano Bontate, il ricco e raffinato boss di Cosa nostra assassinato a Palermo il 23 aprile 1981 a colpi di khalashnikov  e lupara.  Ma perché un uomo come Bontate? Qual era la sua autorevolezza? Qual era la sua credibilità?  Di Carlo risponde serafico a queste domande del pm: “Bontate aveva un nome e una garanzia come si suol dire, perché veniva dal padre (capo della cosca di Santa Maria del Gesù, noto come “don Paolino bontà”, ndr) veniva dai nonni e tutto. Chi sentiva in Cosa nostra, poi dovunque, non solo Cosa nostra, famiglia Bontate, tremava…Bontate può dare altro che garanzia. A qui tempi più di Riina, nel senso pure Riina essendo una mentalità violenta, una mentalità che voleva arrivare dove è arrivato, va bene?…Bontate anche nella ‘ndrangheta aveva un valore, aveva un nome nelle Calabrie”.

I 10 MILIARDI

Il pm Teresi sposta poi il discorso sulle eventuali contropartite per quelle garanzie e Di Carlo racconta che seppe di 100 milioni fatti chiedere a Berlusconi attraverso la catena Cinà-Dell’Utri.

Di Carlo prosegue poi con il racconto di una raccolta di soldi (oltre 10 miliardi dell’epoca) per investimenti a Milano, alla quale parteciparono anche i fratelli Graviano (per tutti l’”ingresso” nell’affare era di appena 500 milioni!). Di quali affari e con chi, però, di più Di Carlo non sa.

Nell’udienza del 6 marzo l’avvocato di Dell’Utri, Giuseppe Di Peri, chiede a Di Carlo se Cinà, sentendosi in imbarazzo, non avesse chiesto quei 100 milioni a titolo di prestito e, a prescindere dall’opposizione del pm Teresi che riteneva la domanda suggestiva e ingannevole, Di Carlo risponde che “…sì, mi ricordo che Cinà, parlando così, cioè non mi aspettavo che ci facevano chiedere soldi, perché Cinà lo faceva come amicizia presso e Berlusconi e Dell’Utri, va bene? Però Bontate non intendeva questo, e mi ricordo che Cina mi ha detto…Ci hanno chiedere cento milioni di lire, ai tempi erano lire, e ci ho detto come prestito, mi sembra che mi ha detto  così”.

r.galullo@ilsole24ore.com

6 – the end (per le precedenti puntate si vedano

 

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