Trattativa Stato-mafia/1 In appello i giudici fiorentini danno lustro alle conclusioni raggiunte in primo grado

Antonio Ingroia, ex pm a Palermo padre putativo dell’indagine sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra e Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione tra i familiari della strage di via dei Georgofili a Firenze, hanno ben ragione di dire che le sentenze sono tutte uguali ma qualcuna – per i media – è più uguale delle altre.

I due si riferivano all’incuria (per usare un eufemismo) con la quale i media (tranne eccezioni) hanno analizzato le motivazioni della sentenza per il boss di mafia Francesco Tagliavia presso la seconda Corte di assise di appello di Firenze, depositata il 20 maggio. Ergastolo venne inflitto il 24 febbraio scorso a Tagliavia per la strage di via dei Georgofili del 27 maggio 1993 (in cui morirono cinque persone e 38 rimasero ferite) nel processo di appello bis. La Cassazione annullò con rinvio una prima sentenza di appello.

I due, Ingroia e Chelli, si riferivano soprattutto – in un parallelismo dovuto – alla macroscopica differenza con la grancassa mediatica suonata in occasione della seconda assoluzione (questa volta in appello) per Mario Mori e Mauro Obinu dall’accusa di non aver volontariamente arrestato Bernardo Provenzano.

Una seconda assoluzione che inevitabilmente pesa come un macigno nel processo sulla trattativa che si sta svolgendo a Palermo tra difficoltà e colpi bassi pazzeschi, che la dicono lunga sull’influenza e sulla pressione che grava sui pm e sui giudici palermitani. Una doppia assoluzione (ma soprattutto un processo in corso) che dovrà però ora fare i conti con le motivazioni di questa sentenza fiorentina.

Doverose e condivisibili riflessioni, dunque, quelle di Ingroia e Chelli. I due, all’unisono, certificano che secondo i giudici fiorentini del secondo grado «trattativa ci fu», così come ci fu per quelli di primo grado.

Il loro pensiero, però, va arricchito da ulteriori riflessioni (che farò da oggi fino a giovedì su questo umile e umido blog) perché la sentenza emessa dai giudici della seconda corte d’Assise di appello di Firenze – presidentessa Luciana Cicerchia, relatrice Maria Cannizzaro, oltre a sei giudici popolari, tutte donne anch’esse – è anche un abilissimo e sottile gioco di equilibrio, che rilancia la palla nel campo del Tribunale di Palermo dove il destino del giudizio, fino al 20 maggio, sembrava segnato dal doppio precedente su Mori e Obinu.

Un sottile gioco di equilibrio che i giudici fiorentini rincorrono lungo tutte le 131 pagine delle motivazioni ma che – come vedremo ne servizio che dedicherò alla sentenza giovedì – alla fine non reggerà fino in fondo e porterà la seconda Corte d’assise d’appello del capoluogo toscano a mettere un punto fermo dal quale Palermo dovrà inevitabilmente ripartire.

Personalmente – per i tanti servizi che ho dedicato in questi anni al tema, su questo umile e umido blog – sapete come la penso (a fondo pagina potrete leggere, se volete i link che rimandano ad una minima parte di ciò che ho scritto negli anni).

Non solo sono intimamente convinto che la trattativa ci fu (ovviamente ignoro, purtroppo, i nomi e i cognomi degli infami finti servitori dello Stato che l’hanno preceduta e seguita) ma sono altresì convinto che, tragicamente, le trattative tra mafie e apparati deviati dello Stato abilmente coperti da una politica indegna e affaristica che spudoratamente e a sproposito vomita la “ragion di Stato”, ci sono state ancor prima, durante e (soprattutto) dopo la stagione stragista corleonese. E ci sono ancora oggi, nel momento in cui io scrivo e voi leggete.

Certo è che in un’aula di Tribunale bisogna formare in giudizio la prova e, su un tema così viscido e infido per le sorti della democrazia italiana, la cosa è complessa. Di questa complessità si beava, si bea e si berrà sempre la parte marcia del nostro Stato. Quest’ultima sa che – sulla pelle degli italiani in vita e delle vittime di mafia – la complessità si traduce spesso nelle aule di Tribunale in impunità di Stato. Avete bisogno che vi ricordi tutte le tappe giudiziarie di questo Paese in cui la verità non è mai venuta a galla?

Cosa fanno, allora, i giudici fiorentini nel caso di specie? Per non sbagliare partono da lontano è cioè dal punto fermo che anche per loro ha messo la sentenza di primo grado (nonostante molti “negazionisti di regime”, a partire dalla quota parte di stampa collusa e connivente, si ostinino a non volerlo riconoscere). Ma qual è questo punto fermo?

«Secondo la Corte si poteva considerare dato acquisito che nell’anno  1992  –  si legge da pagina 59 della sentenza depositata il 20 maggio 2016 nel paragrafo, si badi bene, ricordato come  “La trattativa” – vi fossero stati dei contatti  tra rappresentanti dello Stato e mafia; riconducibili, in base alle risultanze processuali alle persone del  colonnello dei Carabinieri  Mori con la mediazione dell’ex-sindaco  di Palermo, Ciancimino Vito. L’apertura  di  tale canale di comunicazione era stato interpretato da “Cosa Nostra” come un’opportunità,  che portava la  Corte  a  concludere  come “Il  ricatto allo Stato  e la  trattativa appaiono infatti intersecarsi e sostenersi sul  piano logico in un quadro di reciproca compatibilità” (…)».

Insomma: secondo la Corte in primo grado si poteva considerare un dato acquisito il contatto tra Cosa nostra e Stato ma una rondine non fa primavera, figuratevi se un contatto fa trattativa. E allora per la Corte, in primo grado, si legge da pagina 60 delle motivazioni dell’appello, «l’arresto della trattativa ai livelli immediatamente superiori gerarchicamente a quello di Mori era poco plausibile poiché in caso di esito positivo vi sarebbero state inevitabili  implicazioni  sul  piano legislativo e di alta  amministrazione. Brusca nel corso del  processo aveva  ripetuto la propria versione dei fatti e ribadito che le richieste di Riina di cui non conosceva i dettagli, fossero relative comunque all’articolo 4l bis  ord. pen, alla normativa sui collaboratori di giusti zia, all’applicazione della legge penitenziaria e alla revisione di alcuni  processi. Tali richieste, a suo dire, erano destinate al Ministro dell’Interno, circostanza per la prima volta riferita in un dibattimento, e precisò che quel discorso gli era stato fatto da Riina  tra le stragi di Capaci e via D’Amelio, in cui si decise la sospensione delle azioni in attesa dì concreti sviluppi.

Precisava Brusca che egli non aveva mai rivelato in precedenza  chi fosse il destinatario della missiva di Riina per la diffidenza di cui si era sentito circondato e per le possibili conseguenti accuse, e solo quando le sue dichiarazioni erano state riscontrate e dunque aveva avvertito che vi era fiducia da parte degli inquirenti, aveva detto tutto quanto sapeva.

Circa gli interlocutori dello Stato aveva soltanto sentito parlare successivamente di Ciancimino Vito, ed aveva parallelamente supposto l’interessamento del medico Cinà Antonio.

Nel settembre-ottobre 1992 aveva saputo da Riina che l’avvio della trattativa aveva suggerito di sospendere alcuni omicidi  (erano  in programma quelli dei politici Mannino e Vizzini, mentre Salvo Ignazio era stato assassinato perché ritenuto un traditore) e le stragi: “Le mie.., le mie conoscenze  erano che lui stava facendo di tutto affinché…affinché questi contatti che si erano creati tornassero a trattare. E, ripeto, siamo nel settembre-ottobre, ora non mi ricordo, che mi aveva ordinato  di fare un’altra strage affinché questi  venissero a trattare a uno…” Brusca aveva  ricordato che Biondino Salvatore (che curava la latitanza di  Riina) gli aveva detto che occorreva un altro attentato per spingere la controparte verso la trattativa che aveva subito una stasi; si era  quindi pensato all’attentato al giudice Grasso.

Secondo Brusca, Riina  non avrebbe offerto in cambio, e  posto sul  piatto della trattativa, null’altro se non la cessazione delle stragi.

Nessun contributo era invece pervenuto dalle dichiarazioni dei fratelli Graviano (pag. 481 della sentenza di primo grado), in particolar modo Giuseppe aveva negato non solo la propria responsabilità ma  perfino   ogni pregressa conoscenza con i coimputati, spiegando il tono affettuoso delle lettere con Tagliavia con la solidarietà  postuma insorta in occasione della comune carcerazione.

Anche Graviano Filippo sì è attestato sulla sostanziale negazione, riconoscendo  soltanto una superficiale conoscenza con Tagliavia e Spatuzza, e una conoscenza maturata in ambito carcerario, con Giuliano, Barranca e Lo Nigro, negando in toto ogni proprio  coinvolgimento in attività mafiose».

In altre parole i giudici dell’appello, in questa prima fase delle motivazioni deposte, semplicemente si limitano a ricordare quanto emerso in primo grado non tanto sulla trattativa (a quello ci si arriverà, come detto, al termine, con doglie durante tutto il “parto” delle motivazioni) ma sui “contatti” tra Cosa nostra e Stato (cosa, di per sé, già ignominiosa e rivoltante e da sola, per quel che mi riguarda, degna di essere esposta al ludibrio della pubblica opinione).

Per ora ci fermiamo qui ma domani torno con una seconda puntata.

r.galullo@ilsole24ore.com

1 – to be continued

(si leggano

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http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2015/12/30/la-trattativa-stato-mafia-secondo-salvatore-lupo-in-commissione-antimafia-una-delle-tante-forse-una-delle-troppe/

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