Le nuove capitali della ‘ndrangheta/1 Asti vuole la secessione dalle cosche liguri e piemontesi

Sono gli “astigiani” a forzare per la “secessione” dalle altre gerarchie ‘ndranghetistiche piemontesi e liguri.

E’ quanto emerge dalle carte dell’operazione Maglio * della Procura di Torino che il 23 giugno ha assestato un duro colpo alla criminalità organizzata calabrese. Ma non mancano, secondo quanto ha rivelato la Procura i piemontesi, sia pure di seconda generazione e nisseni di Malena, un comune di appena 3mila abitanti.

Insomma, una contaminazione ibrida che farebbe della ‘ndrangheta astigiana un unicum, proprio per questo ancora più pericolosa in un territorio dove l’economia sta morendo e gli amministratori, il sindacato e le stesse organizzazioni datoriali sembrano dormire sonni profondi. La mafia, si sa, tocca sempre gli altri e fino a che c’è fieno in cascina – anche se si stanno intaccando da anni le riserve – chissenefrega delle mafie!

Gli “astigiani” sono tosti, tostissimi ma ancor più tosta è la famiglia Oppedisano di Rosarno – che attraverso il vecchio Don Mico ha per un anno le tavole della legge di ‘ndrangheta – cerca la mediazione. E’ proprio lui – il venditore di ortofrutta nelle campagne di Gioia Tauro – che interviene in prima persona per escludere categoricamente che Rocco Zangrà, che ad Alba (Cuneo) vive e vegeta e che è stato arrestato il 23 giugno, possa procedere in questa “folle” idea.

Un’idea che (almeno per il momento) non è andata a buon fine.

ASTI NON E’ ORTODOSSA

Ad Asti sono affiliati individui provenienti dal comune reggino di Solano con i quali, dice Oppedisano,“…pane non ne faccio…”. Con quelli di Solano non può dunque stabilirsi una relazione strutturale in quanto loro, a dire dello stesso Don Mico Oppedisano, “…dicono che dobbiamo accettare che deve andare avanti il segno loro e non questo del Crimine…e noi non possiamo accettare…”.

Il “locale” di Asti, secondo le parole di Oppedisano, non risponde dunque in maniera ortodossa alle regole sociali ‘ndranghetistiche sulla supervisione gerarchica, ponendosi in una situazione ibrida che non comporta la fuoriuscita dalla compagine criminale ma pone gli affiliati in contrasto e in una sorta di antagonismo con gli altri affiliati.

Gli “astigiani”, dunque, sono tosti, tostissimi. Vogliono essere “autonomi”. Se non è secessione criminale è quantomeno “federalismo criminale” e il fatto che non rispettino più di tanto le gerarchie li rende ancora più pericolosi, schegge impazzite.

Don Mico, ad un certo punto è costretto ad offrire la propria intermediazione con Francesco Bruno Pronestì (originario di Cinquefrondi dove la ‘ndrangheta la respiri in culla ma residente a Bosco Marengo, in provincia di Alessandria) per ricucire le frizioni sorte, con particolare riferimento al fatto che nessuna decisione definitiva sarà presa senza interpellarlo.

Don Mico concorda sul fatto che anche Pronestì dovrebbe acconsentire a tale richiesta per ragioni di vicinanza, di economia e di tutela dell’incolumità degli affiliati, assicurando di aver già parlato della questione “dell’avvicinanzo” con alcuni affiliati, i quali avevano chiesto il suo parere sulla questione e a cui egli aveva ribadito il suo assenso alla possibile costituzione di un nuovo locale.

IL PROGETTO PARTE

Gli “astigiani” sono tosti, tostissimi ed entrano nel vivo della progettazione per formare il nuovo locale e decidere i luogo di insediamento, vagliando varie possibilità pratiche.

Il figlio di Don Mico esclude la possibilità di creare una struttura distaccata del locale di Fossano (Cuneo). Considerazione che trova concorde anche don Mico.

Il “secessionista” Zangrà, dal canto suo, si preoccupa anche che sia lo stesso locale di Fossano a voler creare una ‘ndrina distaccata nel territorio di sua residenza, interferendo così nelle sue intenzioni.

Secondo gli interlocutori, quindi, l’unica possibilità di definire una nuova struttura territoriale è quella di creare un nuovo locale autonomo di ‘ndrangheta tra Asti, la provincia di Cuneo e il locale di Pronestì, zona piemontese sprovvista fino a quel momento di aggregazioni territoriali. Per l’operazione serve sia il permesso di Don Mico, che continua a rassicurare Zangrà sulla possibilità di successo dell’operazione, ritenendo inutili e prive di pregio le motivazioni contrarie.

IL COMPROMESSO

Pronestì si preoccupa di vedere dissolto il suo locale, perdendone parte dei componenti a seguito della creazione di una nuova struttura, preoccupazione per la quale Michele Oppedisano prospetta una soluzione di compromesso, condivisa anche da Don Mico, che prevede una nuova suddivisione degli affiliati a seconda della distanza dai vari locali, senza indebolire nessun articolazione della ‘ndrangheta del basso Piemonte.

Appare chiaro che i due, per convincere il capo società, vogliano proporre una rigida suddivisione territoriale degli affiliati, basata unicamente sulla distanza geografica tra la residenza dei sodali ed il luogo di insediamento dei locali: solo quelli residenti nel territorio limitrofo ad Asti e Alba verranno incardinati nella nuova struttura, mentre gli altri rimarranno (o si incardineranno) nel locale guidato da Pronestì.

PAROLA A POLSI

Don Mico rimanda per una decisione definitiva della questione, alla riunione aspro montana di Polsi, dove verrà deciso con gli altri esponenti apicali dell’organizzazione, promettendo a Zangrà che, in quella sede, fornirà il suo appoggio per convincere Pronestì a dare il suo assenso alla creazione del nuovo locale.

L’incontro termina, quindi, con l’impegno di Don Mico di informare anche gli affiliati liguri, per acquisire il loro assenso e non creare inutili incomprensioni. Una scelta, questa, volta anche a prevenire un’eventuale identica determinazione da parte dei locali che fanno riferimento alla Liguria, che potrebbero voler espandere la loro zona di influenza. Insomma: si potrebbe scatenare una guerra “secessionista”: liberi tutti!

LE TRATTATIVE NELL’AGRUMETO

Dalle conversazioni intercettate dalle Forze dell’ordine nell’agrumeto rosarnese di Don Mico che si era speso per la mediazione, si desume pertanto che:

1. tutti gli interlocutori fanno parte della medesima associazione;

2. in particolare, Rocco Zangrà e Michele Gariuolo risultano inseriti nel medesimo contesto delinquenziale operativo, ovvero insediato, nel basso Piemonte;

3. l’insediamento della ‘ndrangheta, situato nel basso Piemonte a circa 100 km da Alba (e quindi dal luogo in cui vive Zangrà), è diretto da Bruno Francesco Pronestì, che ricopre nel “locale” la carica di capo società ed è collegato alle strutture di vertice dell’organizzazione insediate in Calabria e rappresentate da Don Mico;

4. anche Antonio Maiolo appare organico alla stessa consorteria criminale.

Non esistono dubbi sull’esistenza della ‘ndrangheta nella zona del basso Piemonte (locale guidato da Pronestì ed insediato nella zona di Novi Ligure).

Questa certezza è confermata dalle attività di indagine svolte dal Ros dei Carabinieri di Genova, trascritta in un’annotazione del 4 febbraio 2011, nella quale si descrive l’attività di intercettazione ambientale, di osservazione, controllo e pedinamento effettuata il 30 maggio 2010 presso l’abitazione di Pronestì.

A casa sua si era svolta una riunione che vedeva la partecipazione dei più importanti esponenti del basso Piemonte, unitamente – nella prima parte dell’incontro – al referente del locale di Genova, ovvero Domenico Gangemi, accompagnato da Lorenzo Nucera e Arcangelo Condidorio.

Alle 8.30 le microspie registrano la presenza di Pronestì, della moglie Mariangela Iannizzi (non indagata), Damiano Guzzetta (nato ad Asti) e Luigi Diliberto Monella, intenti ad imbandire la tavola. Pronestì, Guzzetta e Diliberto Monella (tutti indagati) fornivano con precisione anche il numero dei partecipanti: 26 persone di cui 16 erano gli affiliati piemontesi (battuta esternata durante il conteggio dei posti al tavolo dell’incontro).

Ora mi fermo qui. A domani con una nuova puntata sulla ‘ndrangheta a cavallo tra Liguria e Piemonte. Scopriremo la forza di Novi Ligure.

1 – to be continued

r.galullo@ilsole24ore.com

* ANSA 9 NOVEMBRE 2012 Sono stati assolti i dieci calabresi imputati nel processo con rito abbreviato scaturito dall'inchiesta dei carabinieri del Ros sulle infiltrazioni delle 'ndrine calabresi in Liguria denominata Maglio 3. La sentenza e' stata pronunciata dal gup Silvia Carpanini. Appresa la notizia, i parenti degli imputati, che attendevano fuori dall'aula hanno applaudito a lungo.

Nella requisitoria di metà ottobre, i pubblici ministeri Vincenzo Scolastico e Alberto Lari avevano chiesto 12 anni di carcere per Onofrio Garcea, 10 anni e 8 mesi per Benito Pepé, 9 anni per Rocco Bruzzaniti, 8 anni per Fortunato e Francesco Barilaro, Michele Ciricosta e Antonio Romeo e 6 anni per Antonino Multari, Raffaele Battista e Lorenzo Nucera: secondo i magistrati, Bruzzaniti, Battista, Multari e Lorenzo Nucera avrebbero avuto il ruolo di “partecipi” dell’associazione, mentre gli altri sarebbero stati “promotori”.

Secolo XIX Genova 10 novembre 2012 – «Le sentenze non si commentano, se non si è d’accordo si appellano, personalmente ho vissuto un’esperienza simile nel 1996 quando in primo grado sono stati assolti tutti i clan siciliani dal 416 bis poi il tutto è stato capovolto dalla Corte d’appello, e confermato in Cassazione».  Così ha detto la vice presidente dell’Anm Anna Canepa la sentenza del gup di Genova

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