E’ difficile commentare questa ricorrenza dell’8 marzo dedicata all’universo femminile. Vorrei infatti farlo pensando alle donne di mafia: a quelle che resistono nelle associazioni criminali e a quelle che, invece, se ne distaccano.
Vorrei farlo pensando alle tante iniziative che in questi giorni si stanno rincorrendo particolarmente al Sud. Lametia Terme, ad esempio, ospiterà tre giorni di incontri e dibattiti proprio sul ruolo delle madri e delle figlie all’interno delle cosche di ‘ndrangheta.
Vorrei farlo pensando alle tante interviste e ai tanti articoli che si stanno susseguendo in queste ore sui media. Vedrete: oggi sarà un tripudio e anche se si sprecheranno i servizi sulla mimosa non mancherà chi farà i ritratti di quante hanno deciso di abbandonare la lotta malavitosa dei propri uomini. E ricorrerà su tutti un nome: quello di Lea Garofalo, sciolta verosimilmente nell’acido a due passi da Milano perché aveva deciso di abbandonare la vita che prima la famiglia e poi il marito le facevano condurre. Ora tutto il peso è sulle spalle di un’altra donna: la figlia, che coraggiosamente sta deponendo nel processo in corso a Milano.
Vorrei tutto questo ma poi penso che nell’un caso – chi abbandona le mafie – sono ancora troppo poche le donne che disertano, anche se i segnali sono incoraggianti. Nell’altro caso – chi resta nelle organizzazioni mafiose e ne custodisce segreti, riti e tradizioni – sono ancora troppe le donne che costituiscono una colonna indispensabile per proseguire nel malaffare.
E allora penso che in realtà se questo squilibrio persiste ed è ancora così forte è perché non bisogna né appellarsi alle donne-coraggio né sperare nella diserzione a catena delle donne-mafiose. L’invito alla rivolta al risveglio va indirizzato alle donne comuni, quelle che magari ora stanno leggendo questo post che, talvolta, al Sud ma ormai sempre più spesso anche al Nord, si girano dall’altra parte e credono che il problema sia, magari, della donna accanto.
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