Abituati – come siamo – a guardare al dito che la indica e non alla luna che sovrasta, non può e non deve apparire strano in questa Italia sbrindellata che la vicenda del Pm Nino Di Matteo segua la stessa sorte.
Con una decisione assolutamente logica e coerente al suo profilo – vale a dire non accettare il trasferimento nella Dnaa romana solo perché in pericolo di vita e demolire i sospetti di una fuga dalle responsabilità giudiziarie del processo sulla trattativa – Di Matteo ha inevitabilmente riaperto il misero balletto delle bordate giornalistiche.
C’è chi sui media si è limitato a raccontare la nuda cronaca (riassumibile nei termini sopra descritti, con l’aggiunta della volontà del pm palermitano di trasferirsi solo se vincerà il concorso per accedere alla Dnaa) ma soprattutto c’è stato chi, tra quelli “filopolitici a prescindere” (Di Matteo, per rischio investigativo il che rappresenta, sta infatti sulle palle a tutti gli schieramenti politici mentre viene usato dal M5S come santino da esibire a proprio uso e consumo) ha colto al volo l’occasione per distruggere.
Per distruggere non solo l’Uomo (come giustamente lo definisce oggi sul Fatto Quotidiano Marco Travaglio in un bell’editoriale) e il Servitore dello Stato ma soprattutto – si badi bene – il percorso fin qui seguito dal pool che sta svolgendo il processo (rectius: i processi) sulla trattativa tra Stato infedele e Cosa nostra. Ai giudici, poi, decidere con sentenza se quella trattativa c’è stata o meno.
Non uno di quei media “filopolitici a prescindere” ha ricordato i passi in avanti dell’accusa (ai soli giudici, poi, ripeto, il dovere costituzionale di fare giustizia), infierendo con letture di parte e talvolta azzardate di alcune recenti assoluzioni in processi collegati a quello principale davanti alla Corte d’assise di Palermo.
LA LETTURA DELLE ASSOLUZIONI
Prendiamo, ad esempio, quello all’ex Dc Calogero Mannino, assolto in giudizio abbreviato. Ebbene i giornalisti a gettone politico (da qualunque parte sia gettato) hanno colto al volo l’occasione per ricordare che è l’ennesima mazzata che cade sulla testa del pool palermitano e, di conseguenza, via a ricordare la seconda recente assoluzione (questa volta in appello) per Mario Mori e Mauro Obinu dall’accusa di non aver volontariamente arrestato Bernardo Provenzano.
Solo Antonio Ingroia, meschineddu, sul Fatto Quotidiano e con un’intervista a Repubblica ha ricordato le mille stranezze delle motivazioni con le quali Mannino è stato assolto e il conseguente gioco facile con il quale la Procura potrà impugnarle in appello (vedremo se così sarà). Ed infatti, ieri, Di Matteo ha detto che ricorrerà in appello.
Peggio che andar di notte. Il fatto che la difesa sia stata, come dire, d’ufficio, da parte del padre putativo di quei filoni giudiziari, ha dato spazio a nuovi e inconsulti attacchi pecorecci e di infimo livello.
Nessuno, ovviamente, in questa furia demolitrice del lavoro di un pool di magistrati, più che mai isolati e sotto tiro, ha ricordato invece le motivazioni della recente sentenza per il boss di mafia Francesco Tagliavia presso la seconda Corte di assise di appello di Firenze, depositata il 20 maggio (si leggano a tal proposito
Deprecabile questo scontro non sui fatti ma sull’interpretazione forzata dei fatti (da una parte e dall’altra) ma ci sta in questa Italia ormai rassegnata e alla quale scivola sopra ogni cosa. Persino la progressiva scomparsa dell’informazione che dovrebbe essere – per tutti – il sale e il lievito della democrazia.
Fin qui, infatti, siamo alla lettura in filigrana del dito che indica alla luna. Ed è questo che è veramente sconcertante: nessuno che guardi a quella luna nera.
PERCHE’ COSA NOSTRA LO VUOLE MORTO
Nessuno a interrogarsi in profondità perché Di Matteo per la Procura di Palermo e per il Csm deve (ripeto: deve) essere assolutamente trasferito da Palermo. E anche se qualcuno se lo domanda o se lo è domandato la risposta è: perché altrimenti rischia di saltare per aria.
Giusto, giustissimo, anche se ancora ci sono suoi colleghi magistrati e miei colleghi pennivendoli che insistono sul seguente tasto: ma chi lo vuole ammazzare Di Matteo? Cosa nostra? Ma quando mai! La strategia stragista è morta e sepolta. Cosa nostra oggi fa affari e non ha tempo da perdere. E – dico io – fino a ieri che cazzo faceva Cosa nostra, invece, beneficenza?
Il dato drammatico – la luna lassù – è il motivo per il quale Cosa nostra vuole uccidere Di Matteo. A meno che non si prenda per valida la teoria di cui sopra o financo la teoria del falso pericolo di morte autoindotto del resto già abilmente sperimentato dagli apparati deviati dello Stato con Giovanni Falcone.
E qui si entra nel vivo – a sommesso giudizio di questo umile e umido blog – del ragionamento.
Dato per scontato che Cosa nostra è anche un’agenzia di servizi come tutte le mafie, la domanda da porsi è: perché il mandante ha interesse a far uccidere Di Matteo (ma attenzione: non che gli altri pm del pool Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia non rischino la propria vita, sia ben chiaro a tutti)? E chi è il mandante?
Andiamo con ordine e proviamo – seppur con la modesta intelligenza che pervade questo umile e umido blog – a ragionare, come sempre, con la capa propria.
Di Matteo deve morire non (tanto) per il processo sulla trattativa tra Stato marcio e corrotto e la sua agenzia siciliana di servizi, anche se così, sia ben chiaro, si colpirebbe uno per educarne 100. Nossignori, non è (tanto) questa la ragione, anche perché se la Giustizia proseguirà con quella che sembra una strada segnata da eventi interni ed esterni, gli imputati saranno tutti assolti. E le sentenze vanno rispettate anche se possono essere (fino a che ci sarà un brandello di democrazia) criticate. Ecco dunque perché i media filogovernativi a prescindere e gli analisti a gettone personalizzano proprio su quel processo e sui suoi corollari le proprie riflessioni e le proprie analisi.
Ebbene, chi vuole morto Di Matteo per mano di Cosa nostra (che magari, invece, chiederà a “sorella ‘ndrangheta” di farlo per suo conto) lo vuole perché rappresenta – lui e pochi altri – un ostacolo alle trattative che sempre sono esistite e sempre più esisteranno tra Stato deviato e mafie. Lo vogliono morto, inoltre, anche perché nelle mani del pool ci sono ancora molte carte che meritano una lettura approfondita sull’asse con Reggio Calabria.
Attenzione perché qui il ragionamento si fa sottilissimo: e pensate voi che uno così – ormai fuori da sei anni dalla Distrettuale antimafia di Palermo e dedito purtroppo ormai a procedimenti bagatellari – possa davvero finire in Dnaa dove, per sua espressa volontà, vuole (ripeto: vuole) continuare a occuparsi di contrasto alla criminalità organizzata e al pus di Stato nel quale sguazza putrescente?
Può Di Matteo sedere in un consesso nel quale – oltre all’isolamento di parte dei suoi colleghi – si troverebbe nelle riunioni applicative fianco a fianco con persone che gli hanno fatto la guerra in casa privatamente e pubblicamente, alla luce del sole e sotterraneamente?
No che non può. Per questo – oggi più che mai, rimanendo a Palermo con una dignità ed una schiena dritta di fronte alla quale sto cazzo di Paese dovrebbe inchinarsi – Di Matteo è non in pericolo di vita. Di più. E’ un morto che cammina.
E SE DI MATTEO TORNASSE IN DDA?
Cosa fare allora? Niente, non c’è via di uscita se non quella di una nuova sfida che Di Matteo, se resterà in vita, proverà di nuovo a combattere: essere se stesso in Dnaa, se riuscirà a superare il concorso, e provare a rompere lo schema che vuole le mafie come comitati d’affari esclusivi e non – come in realtà sono – inclusivi di pezzi deviati dello Stato, professionisti al soldo, politici allevati a vangelo mafioso, massoni più deviati di una variante d’opera e giornalisti più venduti di una maglietta di Balotelli a Nizza.
C’è un’altra possibilità, che aprirebbe scenari di cui è difficile prevedere la concatenazione di conseguenze. Se la lettura delle varie leggi, circolari del Csm e prassi lo confermassero, come credo, dopo cinque anni di mera applicazione a singoli processi e fuori dagli organici della Dda, qualora il capo della Procura Francesco Lo Voi emanasse il bando per coprire i vuoti di organico nella distrettuale antimafia, Di Matteo potrebbe nuovamente correre per ricoprire il posto che è stato suo per un decennio (Regolamento in materia di permanenza nell’incarico presso lo stesso ufficio alla luce della modifica introdotta dal Decreto Legislativo 160 del 30 gennaio 2006 come modificato dalla Legge 30 luglio 2007, n. 111. Deliberazione del 13 marzo 2008 del Csm, articolo 5).
La scelta degli ingressi è discrezionale e dunque spetterebbe al Procuratore capo scegliere tra i concorrenti. Domanda: come si potrebbe e con quali motivazioni rifiutare il reingresso di Di Matteo?
IL FILO DEI MANDANTI
Mi direte cari lettori di questo umile e umido blog: non hai finito caro (si fa per dire) Galullo. Ci devi una risposta sul mandante.
Beh, qui la strada, per quel che ho raccontato e scritto per tanti anni, è per me obbligata ma si entra in quel profilo investigativo e giudiziario che non è stato ancora mai provato processualmente e che proprio il pool palermitano, quello reggino e qualche altro pm isolato qua e la per il Bel (si fa per dire anche qui) Paese, stanno provando a svelare.
Vale a dire un coacervo di interessi superiori alle mafie (agenzie di servizi in perenne contatto nel nome degli affari), fatte di quel crogiolo schifoso di cui sopra, che indirizzano la vita sociale, economica e politica dello Stato.
Di questo le mafie – che da che mondo è mondo vivono e prosperano, ovunque nel pianeta, nel nome dei soldi – hanno paura. Hanno paura che ci sia chi, come quel rompicazzo di Di Matteo, vuole provare a scoprire l’altra mezza verità e rompere un equilibrio sempre più stabile in cui Stato e presunto antiStato viaggiano, da tempo immemorabile, in coppia. Quell’altra mezza verità, dunque, che tutti ormai conoscono ma che nessuno può e deve vedere né tantomeno provare a indagare.
Ragion di Stato. Marcio.
r.galullo@ilsole24ore.com
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