Amati lettori di questo umile e umido blog, da martedì dedico una serie di approfondimenti al cosiddetto “caso Catania”, vale a dire a quelle conclusioni della Commissione antimafia regionale siciliana (presidente Nello Musumeci, relatore Stefano Zito), presentate il 29 dicembre 2015, consegnate alla presidenza dell’Ars il 5 gennaio e tornate di grandissima attualità in questi giorni (si vedano i link a fondo pagina relativi ai primi due servizi).
Le conclusioni della Commissione hanno stimolato una serie di riflessioni sull’opportunità di una Commissione di accesso che abbia il compito di valutare se vi siano collegamenti diretti o indiretti tra organizzazione criminale e attività amministrativa (per questo rimando ai link a fondo pagina).
Al termine dell’istruttoria, la Commissione antimafia regionale ha potuto affermare che «nel caso di tre degli amministratori l’ipotesi formulata nella segnalazione pervenuta a questo organismo ha trovato riscontro. Per i due residui, allo stato, la Commissione non può formulare analogo giudizio, pur rilevando che una più penetrante attività investigativa, con i poteri propri della Commissione nazionale antimafia, potrà meglio verificare la eventuale sussistenza di profili di responsabilità anche in questi casi (…)
La acquisizione documentale, tanto con riferimento agli atti giudiziari che ad articoli di stampa ad essi connessi, ha in più rilevato la presenza di altri tre casi che suscitano ulteriore preoccupazione (…)
L’accertamento di responsabilità politica è cosa ben diversa dalla giudiziaria affermazione di colpevolezza in ordine alla violazione di specifiche norme di legge, e ciò in quanto nel caso della “inchiesta parlamentare” si evidenziano solo ed unicamente responsabilità di ordine politico, avuto a parametro non già le fattispecie di reato, ma i canoni dell’etica pubblica. In questo senso ciò che più di ogni altra indicazione preoccupa questo organismo parlamentare è la variegata presenza nelle istituzioni etnee di soggetti che, pur non avendo violato una norma penale, hanno certamente adottato, quanto alle proprie frequentazioni, pratiche che non dovrebbero mai essere seguite da rappresentanti della pubblica amministrazione. Pur tuttavia, ciò che l’odierna indagine ha disvelato è altresì la debolezza con cui la politica riesce a formare anticorpi rispetto alla possibilità che soggetti di dubbia moralità possano incunearsi nei partiti e, quindi, nelle assemblee rappresentative. Fatta salva la personalità della responsabilità penale, quale principio cardine della nostra costituzione repubblicana, in forza del quale ciascuno risponde delle proprie responsabilità e non di quelle altrui – siano essi genitori, fratelli o amici – non v’è dubbio che resti sullo sfondo un interrogativo: i partiti e (più in generale) la politica hanno mezzi sufficientemente adeguati per impedire l’infiltrazione delle proprie liste attraverso soggetti incensurati, ma vicini alle organizzazioni criminali?».
Credevo di aver terminato le riflessioni (non perché fossero esaustive quelle da me fornite, ci mancherebbe, ma perché altri filoni criminali sto studiando e approfondendo per scriverne la prossima settimana) ma una lettera ricevuta alla 17.22 di mercoledì da Giovanni Caruso, ex fotogiornalista “allievo” di Giuseppe Fava, attualmente responsabile della redazione catanese de “I Siciliani giovani”, mi ha offerto la possibilità di scriverne ancora.
Ne sono lieto. Caruso mi scrive di avere condiviso pienamente l’analisi sul “caso Catania” ma con una precisazione: «Da qualche anno, pur essendoci sempre il monopolio dell’informazione da parte di Ciancio, sono nate diverse testate online e cartacee. Molte di queste non hanno “padrone” altre hanno editori in modo ambiguo, vicine a personaggi a loto volta vicini a qualche politico. Ma la maggior parte di queste sono realmente libere. Anche noi lo siamo perché la nostra storia e quella del giornalismo che nasce dal basso, per la verità e solo la verità. In questa vicenda del “caso Catania”, vicenda mai chiusa e che ciclicamente torna a galla, noi fin dal primo momento e anche prima ne abbiamo parlato e scritto e ad onore del vero anche altre testate. Questa maledetta vicenda ha il suo palcoscenico in una città matrigna che è stata ed è il laboratorio della mala politica e non solo».
Giusto e doveroso riconoscere chi – come coloro i quali hanno raccolto l’eredità giornalistica di un faro come Giuseppe Fava – lotta per il primato della libertà di stampa in una provincia come Catania.
“I Siciliani giovani“, però, hanno fatto di più e, proprio ieri, mi hanno spedito, sempre attraverso la redazione catanese, un appello che il “Coordinamento Catania libera dalle mafie”, nato il 5 gennaio 2016, ha spedito ad una serie di autorità.
Oltre al ministro dell’Interno, spiccano il prefetto di Catania, il sindaco di Catania, l’ufficio di presidenza della Commissione parlamentare di inchiesta sulle mafie e l’ufficio di presidenza del consiglio comunale di Catania. L’appello, per conoscenza, è stato spedito anche a Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) e questo la dice lunga sullo stato di disperazione nella quale versano gli italiani ormai piegati da mafie e corruzione. Cantone, infatti, nell’immaginario collettivo è diventato il baluardo della democrazia, l’ultima ciambella di salvataggio alla quale appendersi prima di affogare. Non è così, non può essere così, ma a riflettere su questo anello di disperazione nel nome della legalità dovrebbe essere la politica marcia di questo Paese.
Fatto sta che in questo appello (con il quale si richiede anche, ai vari soggetti interpellati, di essere ricevuti), il neonato Comitato – ripercorrendo le recentissime e tristi vicende che hanno scosso, ancora una volta, la città di Catania – chiede «alle autorità inquirenti, alle autorità ispettive, alle istituzioni politiche di fare chiarezza, di prendere una chiara posizione sulle vicende che riguardano il degrado etico e morale di Catania e di dare risposte ai cittadini, ognuno secondo le proprie prerogative.
Si chiede un incontro urgente al prefetto di Catania al fine di poter illustrare e avere chiarimenti circa le infiltrazioni mafiose nelle istituzioni catanesi.
Si chiede al prefetto e al ministro dell’Interno di procedere al fine di determinare se le eventuali infiltrazioni mafiose abbiano compromesso la vita democratica delle Istituzioni e abbiano interferito con l’attività amministrativa».
Sapiente anche la conclusione dell’appello. «Si ricorda che il Consiglio di Stato in data 10 dicembre 2015 – si legge infatti nel manifesto – ha stabilito che “le vicende, che costituiscono il presupposto del provvedimento di scioglimento di un consiglio comunale, devono essere però considerate nel loro insieme, e non atomisticamente, e risultare idonee a delineare, con una ragionevole ricostruzione, il quadro complessivo del condizionamento mafioso. Assumono pertanto rilievo anche situazioni non traducibili in episodici addebiti personali ma tali da rendere, nel loro insieme, plausibile, nella concreta realtà contingente e in base ai dati dell’esperienza, l’ipotesi di una soggezione o di una pericolosa contiguità degli amministratori locali alla criminalità organizzata (vincoli di parentela o affinità, rapporti di amicizia o di affari, frequentazioni), e ciò anche quando il valore indiziario degli elementi raccolti non sia sufficiente per l’avvio dell’azione penale o per l’adozione di misure individuali di prevenzione (vedi, ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione III, 28 settembre 2015, n.4529)».
Il Comitato conclude: in attesa, distinti saluti.
Ecco, vorremmo che l’attesa di risposte non fosse infinita e che, soprattutto, non fosse vana.
r.galullo@ilsole24ore.com
4 – The end (per le precedenti puntate si leggano
http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2016/03/17/caso-catania3-la-visita-in-piena-campagna-elettorale-del-candidato-a-casa-di-un-pregiudicato-per-mafia-agli-arresti-domiciliari/)