Saviano, Lumia, Di Matteo e il “discorso” alla Nazione di Salvuccio Riina nel nome degli affari e della politica

Avrete letto in questi giorni di tutto e di più sull’intervista rilasciata dal mafioso Salvuccio Riina alla trasmissione Porta a Porta condotta da Bruno Vespa. L’ho fatto anche io. Mi sono chiesto in nome di quale presunta conoscenza o verità in tasca, i più disparati soggetti abbiano fornito la propria chiave interpretativa su quella intervista.

Debbo essere sincero: ho letto una tale quantità di puttanate a piede libero (anzi, a inchiostro e ugola libera) che, per l’ennesima volta, mi sono detto che la lotta alle mafie è una cosa troppo seria per poterne lasciare l’analisi ai presunti espertoni (avercene!), che siano essi studiosi, politicanti, magistrati o giornalisti.

Ora, da parte mia, dopo giorni di lettura e riflessioni, uno cosa posso svelarvi di averla capita: diffidate da chi vuole spiegarvi con certezza – oggi – perché il figlio prediletto di Riina abbia deciso di scrivere (quasi tutti dimenticano che ha trascritto le tavole del padre in un libro) e parlare. Il motivo vero lo scopriremo (forse) con lo scorrere del tempo ma alcuni punti fermi, a mio modesto avviso, vanno posti. Alcuni punti fermi che commenterò e che farò seguire da alcune riflessioni finali.

Parole in libertà

Tra i pochissimi – tra le centinaia di persone che hanno scatenato le proprie cazzate in libertà – a dire qualcosa di profondamente articolato, sulla cui base riflettere, sono stati Beppe Lumia, vecchia volpe siciliana del Pd, nonché membro della Commissione parlamentare antimafia e Roberto Saviano che, a differenza dei cazzari esperti a piede, mano e ugola libera, prima di parlare legge, studia e si informa.

Roberto Saviano

Partiamo da quest’ultimo. Cosa ha detto? Sostanzialmente che l’uscita catodica del mafioso figlio e fratello di mafiosi conclamati, era indirizzata alla magistratura e a Cosa nostra.

Ai magistrati il messaggio subliminale diceva: mio padre potrebbe prendere in considerazione la possibilità di dissociarsi (non pentirsi) come ai tempi della lotta statale al terrorismo nero e rosso, ammettendo solo le proprie responsabilità in cambio dell’eliminazione del carcere duro.

A Cosa nostra – ma il messaggio si incrocia con il precedente diretto alla magistratura – Salvuccio Riina, mafioso figlio e fratello di mafiosi docg, manda a dire: noi, cioè noi corleonesi stretti intorno a Totò u curtu, non abbiamo nulla a che vedere con ciò che voi siete diventati e, dunque, non fateci pagare le vostre colpe e non intervenite su questo scambio prima culturale e poi pratico, che non facciamo da pentiti ma da esegeti della Cosa nostra che fu.

Di certo se così fosse, un’altra riflessione condivisibile di Saviano è che alla famiglia Riina interessa una (un’altra?) trattativa con lo Stato, che gli permetta di salvare quel che resta del culo ma, soprattutto, ciò che rimane intatto dell’immenso portafoglio patrimoniale.

Riflessioni interessanti e intelligenti quelle di Saviano. Sulla fondatezza, totale o parziale,  sarà solo il tempo ad esprimersi. Sarà il tempo a dirci se sarà mai possibile che Cosa nostra possa attendere prima e tollerare poi che una parte – quella che fa capo ai corleonesi di Totò – possa beneficiare di un alleggerimento del carcere duro e della dissociazione a discapito di tutti gli altri. Non dimentichiamo che nel famoso e misterioso papello consegnato dai boss a don Vito Ciancimino, proprio l’abolizione del carcere duro per i mafiosi (erga omnes) e la dissociazione erano due delle presunte condizioni dettate allo Stato per interrompere la strategia stragista iniziata con i massacri di Capaci e via D’Amelio.

Certo, si potrebbe giungere a immaginare che la “dissociazione” di Riina possa aprire la strada al altre dissociazioni e alla disarticolazione parziale di Cosa nostra. Staremo a vedere. Per Saviano questo messaggio di Salvuccio, mafioso corleonese figlio di un mafioso corleonese e fratello di un mafiosi, è diretto alla magistratura. Certo, l’applicazione del carcere duro, la sua reiterazione o la sua eliminazione dipendono dalla magistratura ma il cambio “culturale” evocato non dipende dai magistrati ma dalla politica che quel cambio culturale dovrebbero prima guidare in seno all’opinione pubblica (sempre più lontana dalla sola idea della lotta alle mafie) e poi “convertire” in provvedimento legislativo (se ne parlò già subito dopo le stragi del ’92 senza giungere però a risultati). Possibile? Verosimile? Attuabile?

Certo non potrebbe mai essere attuato solo per una “parte” – Totò – e non per il “tutto” – i boss di Cosa nostra presenti e futuri – altrimenti si scatenerebbe una guerra intestina le cui conseguenze sono difficili da prevedere.

Ebbene può il “formale”, “sostanziale” e “attuale” capo di Cosa nostra chiedere per sé e non per una famiglia unitaria quale Cosa nostra è, almeno secondo quanto la storia giudiziaria ci racconta? Sarebbe la fine di Cosa nostra come l’abbiamo conosciuta. Possibile? Verosimile? Difficile.

Giuseppe Lumia

E veniamo ora a quanto scritto da Lumia sul sito www.livesicilia.it.

Cosa dice Lumia in sintesi? Che Salvuccio Riina “faccia d’angelo”, si propone come un capo. Salvuccio Riina spiccherebbe su tutti, tant’è vero che buona parte del popolo di Cosa nostra lo ama o lo teme e da tempo attende che acquisti il ruolo di vero e proprio leader. Salvuccio conosce bene Cosa nostra, ne esprime i più perversi disvalori, comportamenti e linguaggi. Su questo profilo non mancano le prove di attitudine al comando sguaiatamente rappresentate dal non ancora trentenne Salvuccio a Corleone e ovviamente anche indagini e sentenze (è stato condannato per mafia). Poi Lumia analizza l’intervista, della quale lo colpiscono due passaggi. Il primo quando il mafioso figlio di mafioso e fratello di mafioso afferma che Cosa nostra può essere “il tutto o il niente”. Nel linguaggio mafioso, in quel momento, viene fuori l’arroganza del capo, che spiega chiaramente al suo popolo e agli attuali vertici che la famiglia Riina è ancora il tutto, mentre gli altri sono il niente. Si proporrebbe, dunque, per la leadership di Cosa nostra addirittura con una prova di forza televisiva, con un messaggio catodico al suo popolo (e non solo) e alla Nazione.

L’altra affermazione è più classica e riguarda i collaboratori di giustizia considerati “traditori”. Nel crudele linguaggio mafioso i “traditori” vanno sempre eliminati. Ma c’è qualcosa in più. In questo caso si esalta il loro modo di affrontare la giustizia e di stare in carcere: silenzio e omertà, come lui stesso ha dimostrato, e ancor meglio il padre e il fratello ergastolani. Solo il tempo, ripeto, potrà fornirci risposte ulteriori sulla fondatezza di queste analisi di Saviano e Lumia, che in alcune parti divergono profondamente (se la famiglia Riina volesse davvero affermare la sua leadership futura come potrebbe contemporaneamente premere per un percorso “dissociativo” che porterebbe alla luce solo responsabilità personali e spaccherebbe, se non fosse esteso e recepito, la stessa Cosa nostra?).

Di certo non va dimenticato che il capo di Cosa nostra, formalmente, è ancora proprio Totò Riina, visto che la commissione regionale (o “regione”) non sì è più rinnovata dalle maledetti stragi, ma alcune recenti indagini palermitane sembrano accreditare la tesi di un tentativo di rinnovare i vertici. Subito dopo Riina verrebbe Piddu Madonia dalla provincia di Caltanissetta (mafioso figlio del mafioso Francesco), almeno secondo quanto dichiarato il 30 giugno 1992 ai magistrati di Palermo dal pentito Leonardo Messina.

E’ ancora certo, dunque, che da mesi si sta giocando una partita rilevante all’interno della leadership di Cosa nostra, che secondo le analisi della Dia (Direzione investigativa antimafia) e della Dnaa (Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo) non sembrerebbe interessare più di tanto (c’è chi dice per nulla) Matteo Messina Denaro.

Salvuccio Riina si sarebbe presentato “preparato e pronto” per giocarla e, dunque, lo Stato (o quel che ne resta) dovrebbe alzare le antenne e dare credito a chi ancora ieri (non venti anni fa) ha ricordato che Cosa nostra (la parte più violenta) non ha abbandonato l’idea di tornare alla strategia del terrore. Chi lo ha ricordato si chiama Nino Di Matteo, ed è il pm (delegittimato dall’interno dei palazzi che governano le leve del potere come si addice alla nefasta storia di questo Paese) che sta conducendo, contro tutto e tutti, il processo sulla (presunta?) trattativa tra Stato e Cosa nostra.

Ebbene il libro (che gli investigatori e gli inquirenti non mancheranno di leggere), propedeutico all’intervista (questo è ciò che credo) entra a piedi uniti su questo momento giudiziario che l’opinione pubblica (ammaestrata) non conosce o conosce in maniera distorta.

Non solo. Questo libro (propedeutico al discorso alla Nazione, ne sono sempre più convinto) e il contingente corollario giudiziario attraversano (e attraverseranno) una fase di profondissimo riposizionamento politico di cui nessuno è in grado di prevedere con certezza gli scenari. Una rivoluzione politica che ricorda quella degli inizi degli anni Novanta, all’interno della quale le mafie (Cosa nostra e ‘ndrangheta non a caso sempre più dialoganti, come del resto già emerso ai tempi dell’indagine “Sistemi criminali” dell’allora sostituto procuratore Roberto Scarpinato) hanno bisogno di giocare un ruolo fortissimo per ancorare i propri interessi economici e finanziari futuri.

Insomma, in questo momento storico, il “discorso alla Nazione” (udenti e non udenti) serve anche per dire: chiunque e comunque arrivi deve fare i conti (anche) con Cosa nostra.

E così – purtroppo – sarà.

r.galullo@ilsole24ore.com