La figura della pasionaria dell’antimafia Rosa (detta Rosy) Canale – arrestata oggi e mandata ai domiciliari perché accusata di essere coinvolta in truffe e peculato ma senza l’aggravante mafiosa nell’ambito dell’operazione Inganno condotta dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri – esce a pezzi seguendo le valutazioni dei pm e del Gip Domenico Santoro che il 4 dicembre ha firmato l’ordinanza nei confronti dei soggetti indagati a vario titolo per associazione per delinquere di stampo mafioso, intestazione fittizia di beni e reati contro la pubblica amministrazione aggravati ai sensi dell’articolo 7 della legge 203/91 (cioè aver agito al fine di agevolare l'associazione mafiosa).
A pagina 433 dell’ordinanza si legge che inizialmente investigatori e inquirenti erano propensi a ritenere che Rosy Canale fosse particolarmente vicina alla famiglia di ‘ndrangheta Nirta–Strangio. Questa prima ipotesi, tuttavia, dopo l’intercettazione dell’utenza dell’indagata, verrà decisamene confutata e si legge infatti nell’ordinanza: «…si comprenderà, infatti, che la predetta si muove tra i gruppi malavitosi ed interagisce con loro a seconda delle sue necessità ed al solo fine di portare a compimento le sue iniziative, aggraziandosi, con la prospettiva futura di un lavoro retribuito, le donne di San Luca, molte delle quali sono vicine a famiglie mafiose».
UNA MINICAR PER LA FIGLIA
Leggendo i capi di imputazione si scopre che Rosy Canale, fondatrice del Movimento delle Donne di San Luca, avrebbe indotto in errore dapprima la Prefettura e poi la fondazione Enel Cuore sulla serietà ed affidabilità delle motivazioni del Movimento. Dopo aver ottenuto in affidamento un immobile confiscato alla cosca Pelle Gambazza da adibire a ludoteca e poi dalla fondazione Enel Cuore la somma di 160.290,00 euro da adibire a finalità di pubblico interesse in relazione agli arredi e al funzionamento della struttura, avrebbe impiegato le somme solo in piccola parte per inaugurare la struttura (che poi non ha mai funzionato) e avrebbe acquisito un ingiusto profitto derivante dall’impiego della parte maggiore della somma, anche mediante il ricorso a fatture false o gonfiate, per finalità esclusivamente private.
Insomma: Rosy Canale avrebbe acquistato mobili e arredamento per la propria abitazione, abbigliamento e una minicar per la figlia, abbigliamento per sé e il padre, una settimana bianca per sé e la figlia, con grave danno per la fondazione Enel Cuore e per lo Stato (anche di natura patrimoniale, derivante dal mancato sfruttamento di un bene confiscato che poteva avere diversa e più fruttuosa destinazione).
VAI CON LA 500
Scorrendo l’ordinanza si legge che, dopo aver ottenuto quale presidente del Movimento Donne di San Luca un contributo di 18.500,00 euro dal Ministero della Gioventù da utilizzare per lo svolgimento di attività di pubblico interesse, non avrebbe destinato le somme a queste finalità, bensì all’acquisto di una Fiat 500, sì intestata al Movimento, ma di fatto utilizzata esclusivamente per le sue esigenze personali.
PER CONTO MIO
Sempre secondo l’accusa Rosy Canale avrebbe ottenuto, sempre nella sua veste di quale presidente del Movimento Donne di San Luca, un contributo di 5000,00 euro dalla Presidenza del Consiglio regionale della Calabria da utilizzare per lo svolgimento di attività di pubblico interesse, non destinate a questa finalità, ma si sarebbe appropriata delle somme per sé ed in parte disponendone in favore di altre componenti del Movimento.
MI LAVO CON IL MIO SAPONE
Infine, sempre scorrendo i capi di imputazione, si scopre che Rosy Canale, ancora come presidente del Movimento Donne di San Luca, avrebbe ottenuto un contributo di 40000,00 euro dalla Prefettura di Reggio Calabria da utilizzare per il progetto “le Botteghe artigianali” (promozione dell’attività artigianale della manifattura del sapone) ma non avrebbe destinato le somme a quelle finalità, ma avrebbe acquistato direttamente il sapone da rivendere poi con il logo del Movimento Donne di San Luca.
Tutte accuse – vale sempre la pena di ricordare – da provare fino all’eventuale terzo grado di giudizio.