Il “cubo calabro” di Rappoccio, consigliere regionale con divieto di dimora, sulla scrivania di Giorgio Napolitano

Impareggiabile Aurelio Chizzoniti! Una ne fa e mille ne pensa.

Il fatto è che questo politico reggino di lungo corso, le altre 999 che pensa non le lascia nel cassetto ma con un coraggio sconosciuto alla politica calabrese le tira sempre fuori. Piano piano. Una ad una.

Prendete il caso di Antonio Rappoccio, consigliere regionale eletto nella lista Pri-Gruppo Presidente Scopelliti, rinviato a giudizio per associazione per delinquere, corruzione elettorale aggravata, truffa e peculato, incarcerato e poi scarcerato. Riabilitato e poi disabilitato (forse si forse no), in attesa comunque del primo grado di giudizio. Se non fosse stato per Chizzoniti, questa vicenda – paradossale, enigmatica, folle – sarebbe passata in cavalleria.

E’ lui, infatti, che ha fatto saltare il banco prima con la sollecitazione di un’avocazione sul caso della Procura generale e poi con un terremoto a seguito del rientro di Rappoccio in consiglio regionale (a giudizio pendente, va ricordato, e comunque a seguito di libertà riacquisita). Nel mezzo di questa sintesi giornalistica obbligata (per non far impazzire i lettori), un mare di mosse sulla scacchiera giudiziaria, compreso l’errore di Chizzoniti di trascinare in una polemica sbagliata il capo della Procura Federico Cafiero De Raho.

Riassumere i termini del caso Rappoccio – che, va detto, si difende e difende il suo diritto a rientrare in consiglio regionale il 24 settembre minacciando comunque le dimissioni ora si, ora no, ora forse, ora non so e che, nel frattempo, ha obbligo di dimora fuori dalla provincia di Reggio Calabria a seguito di una richiesta immediata del capo della Procura dopo la sua tempestosa scarcerazione l’11 luglio – è quasi impossibile.

Un caso del genere poteva accadere solo in Calabria e in nessun’altra terra al mondo.

Chizzoniti – dicono i suoi detrattori – ha fatto tutto per interesse personale: era il primo dei non eletti (anche lui in appoggio a Giuseppe Scopelliti Presidente) e dunque voleva (e vuole) (ri)entrare in Consiglio dal quale è stato estromesso il 25 luglio dopo la libertà concessa a Rappoccio.

E allora? E’ una colpa o un diritto reclamare quel posto in consiglio regionale? Perché di questo si tratta: tertium non datur!

Ora, detto che del destino politico di Chizzoniti – come di chiunque altro – ad un giornalista interessa zero, quel che conta è risolvere il rebus, capziosamente e artatamente avvitatosi su se stesso, tanto che a districarlo ci vorrebbe il campione mondiale del cubo di Rubik.

Visto che – a quanto pare – non è disponibile perché delle cose calabresi (anche lui) vuole restare alla larga, Chizzoniti ha pensato bene di lanciare il “cubo di Rappoccio” sul tavolo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Con una lettera vergata oggi e spedita al Quirinale, chiede infatti direttamente al Capo dello Stato i motivi per i quali la sospensione dalla carica e della funzione di Rappoccio non sono state ancora decretate. Chiede, semplicemente (si fa per dire) chiede.

Chizzoniti – nella sua lettera – svela che la Presidenza del Consiglio dei ministri, il 16 luglio 2013, in risposta ad un quesito del consiglio regionale calabrese del giorno prima, avrebbe messo nero su bianco un’aporia insanabile (come direbbero i dotti): per la sospensione di un consigliere regionale servirebbe «sentire» il ministero per gli Affari regionali e il ministro dell’Interno. Per il reintegro no. Con l’ombra della Corte costituzionale che si allunga sulla normativa, risolta nel frattempo da una interpretazione unilaterale, così è (sarebbe) andata.

L’intervento auspicato e auspicabile del Capo dello Stato – forse l’ennesima tessera di questo “cubo calabro” – arriverà? Forse si forse no ma, come conclude Chizzoniti nella sua nota, «questa oppressa e vessata terra di tutto può avere bisogno meno che di pessimi esempi burocratici pur di alta, nobile e saccente espressione».

r.galullo@ilsole24ore.com