La vita del pm Nino Di Matteo appesa al filo della verità sulle trattative tra Stato e Cosa nostra – Matteo Messina Denaro “fumo” negli occhi?

Poco più di 48 ore fa è stato lanciato sui media l’ennesimo, gravissimo allarme per la vita del pm antimafia di Palermo Nino Di Matteo. Perdonatemi se quanto scriverò è venato da una conoscenza datata che ho con Nino e dal fatto che lo considero un grande Uomo e un grande Servitore dello Stato.

L’ennesimo allarme – come quello che, mutatis mutandis, colpisce in queste stesse ore in Calabria il pm Giuseppe Lombardo – mi ferisce dunque profondamente, nell’intimo, perché ho il privilegio di conoscerlo e rischia, dunque, di confondermi.

Raramente ho conosciuto – ed è per questo che centellino le mie strette di mano – un magistrato così lucido nelle analisi e così fiero del ruolo che ricopre. Lontano dai riflettori fa parlare – a differenza di molti suoi colleghi parolai – le indagini.

Questa premessa – che potrebbe essere molto più lunga ma sarebbe inutile perché per descrivere un Uomo bastano poche pennellate e per il resto rimando al suo libro Assedio alla toga- Un magistrato tra mafia, politica e Stato – mi serve per superare la paura che ho per la sua vita e per riflettere – insieme a voi – sulle minacce che ha ricevuto.

Due lettere anonime di “pentito” dell’ultima ora, recapitate prima di Pasqua alla Procura di Palermo, raccontano (racconterebbero) di un piano guidato dal boss latitante Matteo Messina Denaro per uccidere Di Matteo, che rappresenta l’accusa nel processo agli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu e che – soprattutto – con Antonio Ingroia ha condotto l'indagine sulla presunta trattativa Stato-mafia.

Sostituto procuratore della Repubblica presso la Dda di Caltanissetta dal ’92 al ’99 e pm della Dda di Palermo dal ’99, ha indagato sulle stragi dei magistrati Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e delle loro scorte, e sull’omicidio del giudice Antonino Saetta. Pm in numerosi processi a carico di centinaia di mafiosi dell’ala militare di Cosa nostra e di fiancheggiatori – alcuni insospettabili – di Bernardo Provenzano, si è occupato di molti casi riguardanti i rapporti tra mafia, politica e istituzioni. Tra questi i processi a Totò Cuffaro, a funzionari dei servizi segreti e alle “talpe” presso la Procura di Palermo.

VITA BLINDATA

Nelle due missive, di cui per prima hanno dato notizia i bravi colleghi del Fatto Quotidiano, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, un autore anonimo, secondo quanto riporta il quotidiano, scrive: «Amici romani di Matteo (Messina Denaro ndr) hanno deciso di eliminare il pm Nino Di Matteo in questo momento di confusione istituzionale, per fermare questa deriva di ingovernabilità. Cosa nostra ha dato il suo assenso, ma io non sono d’accordo».

L'estensore “pentito” sarebbe, a suo dire, uno dei membri del commando di morte, ed è in grado di fornire notizie riservate sugli spostamenti di Di Matteo e sui depositi di armi ed esplosivo nascosti in alcune borgate palermitane. Nelle ultime ore si è diffusa inoltre la notizia che 300 kg di tritolo sarebbero già giunti in città per far saltare in aria lui. Massimo Ciancimino e un altro magistrato di Caltanissetta.

A seguito di questi scritti anonimi, il Comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica di Palermo ha rafforzato la scorta a un magistrato che – sia ben chiaro a tutti – da una vita…non ha una vita propria. Fuori dai confini palermitani forse in pochi ricordano che nel maggio 2012 i tombini di fronte a casa di Di Matteo furono saldati per il rischio di attentati mortali che correvano lui e la sua famiglia (si vedano Il Sole-24 Ore del 24 maggio e il post su questo blog dello stesso giorno).

La Procura di Caltanissetta, competente quando parte lesa è un magistrato di Palermo, ha arricchito il fascicolo sulle minacce a Di Matteo e sta cercando di fare luce sugli ultimi accadimenti.

UNA LETTERA “FUMOGENA”?

Ripeto, non sono lucidissimo e dunque sbaglierò ma quella lettera o quelle lettere o, meglio ancora, il contenuto che ne trapela, non sono quel che appaiono. O meglio: il loro “messaggio” è ben lungi da quel che appare a prima e superficiale vista.

In questo momento azzardare certezze – sia chiaro – è impossibile.

Molti colleghi stanno puntando le proprie analisi su quel richiamo – contenuto nella lettera – a “Matteo”, subito identificato come Matteo Messina Denaro. La regia dell’attentato – da compiere a maggio, visto che il 27 di quel mese ci sarà una nuova tappa del processo alla presunta trattativa tra Stato e mafia a cavallo delle stragi del ’92 e ’93 – sarebbe riconducibile a lui ma con l’assenso della cupola mafiosa.

Mah!

La cosa – se a prima vista può sembrare verosimile perché “mediatica” (Messina Denaro è la primula rossa di Cosa nostra) – in realtà è oltremodo complessa. Messina Denaro, infatti, è letteralmente braccato dagli investigatori e dalla Procura, che gli stanno dando una caccia spietata. Negli ultimi anni, intorno a lui, hanno fatto terra bruciata, arrestandogli decine e decine di fedelissimi e fiancheggiatori e sequestrandogli e/o confiscandogli patrimoni miliardari. Patrimoni direttamente o indirettamente a lui riconducibili o “cari” nel cuore: l’ultimo ieri, a Vito Nicastri, considerato dalla Procura di Trapani e dalla Dia uomo vicinissimo, appunto, a Messina Denaro.

Dico io: un uomo braccato – che deve pensare a se stesso e a quanto resta del suo potere prima che agli altri – ha il tempo per programmare un omicidio così eclatante? Facendo leva su quale rete visto che gran parte è stata smembrata? E comunicando in quale modo, visto che ogni “pizzino” o anche solo segnale di fumo potrebbe segnarne la fine potendo ricondurre al suo rifugio, intercettando quei (pochi) messaggeri fidati rimasti?

E poi: ma davvero è Messina Denaro a tirare le fila di Cosa nostra? Ci sono messaggi e pizzini intercettati nel passato dai quali gli investigatori e gli inquirenti arguiscono che lui non ha alcuna intenzione di essere il capo dei capi, alle prese com è con i suoi problemi – a questo punto – di doppia sopravvivenza: personale e patrimoniale?

Ma ci sono altre cose che a me – personalmente – non convincono. Nel ’92, vale a dire 21 anni fa, esisteva una “commissione” che prendeva decisioni in seno a Cosa nostra mentre oggi moltissimi capi sono in cella. E’ vero che si possono sostituire e senza dubbio saranno sostituiti, ma tutte – e sottolineo tutte – le evidenze giudiziarie e processuali dicono che in questo momento la mafia siciliana è in grande difficoltà e fortemente disarticolata.

E ancora: nel ’92 la c
onsapevolezza che l’aria stava cambiando e con essa gli assetti sull’asse mafia-politica era certa e spirava in una determinata direzione. Ma oggi? Oggi le mafie stanno alla finestra ingaggiando – a quanto risulta al vostro umile scriba – un patto di comune vigilanza con la massoneria deviata: in Calabria come in Sicilia.

Ed ancora: la lettera, le lettere, fanno o farebbero riferimento alla necessità di “fermare questa deriva di ingovernabilità” in questo momento di confusione istituzionale”. Strano, molto strano, visto che – in vero – le mafie, tutte, a partire da Cosa nostra, hanno bisogno di pace istituzionale e governabilità: le otterrebbero con una nuova strage? Follia.

Un’ultima cosa in questa lunga riflessione controcorrente. Se qualcosa la storia recente ha insegnato è che dopo un attentato clamoroso (o più), la repressione dello Stato è furiosa e, con se, porta un’indicazione e una controindicazione: mette in ginocchio la mafia “colpevole” e apre le porte alla cavalcata delle mafie “incolpevoli”: così fu nel ’92 (rectius: nel ’91 con l’omicidio del giudice del maxiprocesso in Cassazione Nino Scopelliti in Calabria) quando la ‘ndrangheta destefaniana cominciò a costruire fortune nazionali e internazionali solidissime approfittando della caduta libera di quei “boccaloni” di palermitani e corleonesi. Cosa nostra (a maggior ragione quella che cerca di risorgere dalle ceneri dei vecchi boss in prigione e che oggi non si conosce ancora) può ripagare lo stesso prezzo? Mah!

FORSE SBAGLIO

Non sono parole mie, ma di un altro grande magistrato, Vittorio Teresi, quelle che adesso vi propongo: «Dopo quella iniziativa disciplinare un poco inopportuna, se non addirittura scandalosa – dice Teresi riferendosi al procedimento disciplinare nei confronti di Di Matteo avviato il 21 marzo dalla Procura generale della Cassazione, che lo accusa di avere violato i “doveri di diligenza e di riserbo”, e il “diritto alla riservatezza” del Capo dello Stato, visto che Di Matteo ha semplicemente confermato in un’intervista l’esistenza delle conversazioni intercettate tra Giorgio Napolitano e Nicola MancinoDi Matteo è più isolato che mai. Chi vuole creare preoccupazione e tensione ha antenne sottili per comprendere questo momento e non si fa scrupolo per rendere il clima ancora più pesante. Ecco perché, per sicurezza e per garantire la sua serenità di lavoro, visto che l’ambiente esterno non la garantisce, chi ha responsabilità istituzionali ha ritenuto di prendere provvedimenti».

Parole forti, fortissime che chiamano direttamente in causa uomini e Istituzioni della Procura generale della Cassazione (l’iniziativa è letteralmente definita “scandalosa” da Teresi) e servono a mio avviso per lanciare un allarme alla Sicilia e all’Italia intera: Di Matteo non deve guardarsi solo da Cosa nostra ma soprattutto da quella parte marcia dello Stato che, approfittando della debolezza di un Servitore lasciato solo e persino criticato o bersagliato da parti dello Stato (alcune visibili, la maggior parte no), rischia di ucciderlo e – con lui – far morire le speranze di giungere al bandolo di quella matassa che si declina nelle indegne trattative tra Stato e Cosa nostra.

E’ un caso secondo voi – cari lettori – che Nino Di Matteo nel dicembre 2012 abbia abbandonato la carica di presidente dell’Anm di Palermo, in pesante polemica con quei “colleghi” che lo hanno lasciato solo come un appestato?

Fa sorridere – da questo punto di vista – la “pioggia” di solidarietà giunta da tanti magistrati. In quella pioggia anche lacrime di coccodrillo. Mi sento di sottoscrivere l’appello di Salvatore Borsellino e del Movimento Agende Rosse al Csm, affinché archivi l’azione disciplinare nei confronti di Nino. Bene ha fatto Borsellino e il suo movimento a richiamare le vicissitudini del fratello Paolo e di Giovanni Falcone proprio in seno al Consiglio superiore della magistratura.

Non sono lucido, lo ripeto. E allora continuerò senza dubbio a sbagliare ma ritengo che la vita di Nino (e con la sua quella di altri magistrati) sia ad altissimo rischio proprio perché la regia non è attribuibile (solo) ad una cupola mafiosa in gravissima difficoltà e che sarebbe destinata al suicidio con un attentato mortale ai danni di un Servitore dello Stato ma – in un quadro più ampio che al momento non appare chiaro – è invece attribuibile ad un “sistema criminale” come quello che nel ’98 tentò invano di portare alla luce un altro grande magistrato, Roberto Scarpinato (si vedano, da ultimo, in archivio i miei 10 post dal 4 marzo). E’ quel “sistema” che ha terrore di quanto Nino sta portando avanti senza cedimenti e con la schiena dritta.

In quelle missive intercettate poche ore fa, quello che inquieta – a mio modestissimo avviso – è quel richiamo agli “amici romani” di Matteo (che in realtà potrebbe essere un ambiguo riferimento a Messina Denaro utile solo per sviare l’attenzione) che il picciotto/pentito ha infilato (voluto infilare?) tra le righe.

Quali “amici romani”? A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, diceva qualcuno molto più intelligente di me (sapete, voi che mi leggete, che ci vuole poco) ma credo che la chiave di lettura sia lì, negli “amici romani”.

I Palazzi romani sono il baricentro e al tempo stesso l’epicentro di ogni equilibrio e di ogni terremoto (di lieve o maggiore entità) nei rapporti distorti tra mafia, politica marcia, servizi marcissimi e massoneria deviata.

Questo – a mio modesto avviso – chi ha vergato o ispirato la lettera, vuole che Di Matteo tenga sempre a mente e con lui tutti quelli che hanno davvero voglia – in Sicilia, come in Calabria e ovunque – di spezzare quella catena di illegalità che da troppo tempo impicca il nostro Paese e che è saldamente nelle mani di quei sistemi criminali che Di Matteo e con lui il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, l’aggiunto Domenico Gozzo e altri pm in Sicilia come in Calabria, cercano di colpire senza guardare in faccia a nessuno.

Sia che quelle lettere contengano un messaggio subliminale a Di Matteo in primis e agli altri poi (smetti, smettete di indagare e cercare la verità perché lo Stato marcio, gli “amici romani” è, sono troppo più forte di te, di voi), sia che servano per mandare messaggi diversi a chi ha le giuste antenne per capire i richiami a ultrasuoni delle menti raffinatissime, sono certo che Nino e con lui i Servitori dello Stato degni di questo nome proseguirà, proseguiranno per la sua, per la loro strada di legalità, intransigenza, trasparenza e Giustizia.

Vorrei tanto che – dietro di sé, dietro di loro – avessero lo Stato. Quello che fa rima con popolo italiano e quello che si declina nelle Istituzioni.

r.galullo@ilsole24ore
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  • MALGRADO TUTTO BLOG |

    Roberto, anche per te come per il tg di Mentana, è “presunta” la Trattativa Stato-mafia? La sentenza Tagliavia a Palermo parla chiaro per diamine!!

  • Ettore Marini |

    Ottime riflessioni, perfettamente e completamente condivisibili; per fortuna, in Italia abbiamo giudici, come Di Matteo, e giornalisti, come Galullo, con la “schiena diritta”! E, penso, siate la maggioranza…

  • anfosso giuseppe |

    Purtroppo credo che sia fin troppo lucido. Spero di sbagliarmi.Condivido pienamente quanto riportato.Buon lavoro.

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