Reggio Calabria da un flop all’altro: sciolto il Comune, si scioglie anche l’indagine “Crimine”: 1 indagato su 2 archiviato

Il bravissimo collega di Calabria Ora Consolato Minniti ha il merito di aver pacatamente e lucidamente raccontato e commentato l’archiviazione per 169 indagati della famosissima operazione “Il Crimine/Infinito”, che il 13 luglio 2010 fece tremare il globo terracqueo per l’ondata di arresti (circa 300) sull’asse Milano-Reggio Calabria.

Dei 169 indagati sono 19 quelli sotto altro processo, 4 i morti mentre per 146 è crollata l’accusa di associazione mafiosa.

Voglio essere chiaro: l’onestà intellettuale del pm Nicola Gratteri è stata senza pari. In due occasioni: prima quando chiese e ottenne in rito abbreviato la condanna (giunta l’8 marzo 2012) del venditore di semi e granaglie Don Mico Oppedisano chiarendo però in requisitoria al mondo intero che non di “capo dei capi” della ‘ndrangheta si trattava (come la stampa asservita alle veline delle Procure aveva raccontato due anni prima) ma di semplice custode delle regole della ‘ndrangheta. Una specie di santone da tirare fuori dalla naftalina in occasione delle riunioni a Polsi. Del resto i 10 anni inflittigli ne “esaltano” persino una tara criminale che certamente non ha. In quella occasione – attenzione attenzione – su 126 imputati 34 furono assolti e il boss Giuseppe Commisso prese 14 anni: più del boss dei boss degli straboss Don Oppedisano. Un’umiliazione: fossi io Don Mico Oppedisano, chiederei un aumento di pena, così giusto per ristabilire le gerarchie. Anche per non sfigurare con quei “dilettanti” di Bernardo Provenzano e Totò Riina (tanto per fare i primi due nomi che mi girano in testa) che sono reclusi a vita e fosse per me butterei la chiave.

La seconda volta l’onestà intellettuale di Gratteri è giunta proprio nel momento in cui ha chiesto e ottenuto (con i colleghi Prestipino Michele, Antonio De Bernardo, Giovanni Musarò e Maria Luisa Miranda) dal Gip Silvana Grasso l’archiviazione per 146 indagati per i quali “non sono emersi elementi idonei a sostenere l’accusa per il reato associativo”. “L'ufficio di procura si è reso conto autonomamente e questo non capita così spesso —  ha scritto Consolato Minnitiche gli elementi raccolti erano molto, anzi troppo deboli per reggere dinnanzi ad un tribunale. Ed così ha chiesto di archiviare tutto”.

Di questa maxi-archiviazione – se non nelle cronache dei giornali locali – non trovate traccia alcuna nei giornali nazionali. Il motivo – al netto del fatto che obiettivamente l’attenzione mediatica è concentrata sul momento in cui “esplode” un’indagine e non successivamente, per un’antica ed errata consuetudine giornalistica – sta nel fatto che quel famoso 13 luglio 2010 gli anelli oliati, rodati e soprattutto sincronizzati di una perfetta macchina da guerra giudiziario/mediatica che non mi appartiene, fecero a gara per gridare al mondo che era stata dimostrata l’unicità verticistica della ‘ndrangheta (sul modello di Cosa Nostra siciliana) e che il boss che tremare il mondo fa – l’ottantunenne Oppedisano sigh! – era caduto nella rete.

Inutile ripetervi quello che vi ho detto allo sfinimento: solo (ripeto: solo) tra i giornalisti delle grande stampa nazionale ho espresso e scritto fin da subito (le parole appartengono ai pennivendoli e non certo ai giornalisti per i quali la carta canta) che, a mio umile e umido avviso, nulla di più intellettualmente falso poteva essere concepito. L’ottantenne Oppedisano non era il capo di nulla se non (forse) del suo orto e l’unicità della ‘ndrangheta può essere concepita solo nella misura in cui era valida già 30 o 40 anni fa: le cosche calabresi regnano, quelle di Reggio governano.

Questa archiviazione – che spazza via tra Milano e Reggio il 50% degli indagati con un batter di ciglio giudiziario – arriva sulla scia di una consapevolezza crescente (non nell’opinione pubblica) che quella operazione niente altro fu che una sacrosanta repressione nei confronti di un gruppo di potere ‘ndranghetistico ma che poco aveva a che fare con un taglio netto alla “testa” della ‘ndrangheta. Inutile ricordare i tanti che, nel processo di “liberazione” avvenuto gradualmente, hanno rivalutato (nei giusti termini) quell’operazione: dai sostituti procuratori nazionali antimafia Carlo Caponcello e Roberto Pennisi al pm Armando Spataro di Milano. Ma – anche in questo caso – sono solo i primi nomi, tra i tanti, che mi vengono in mente.

Per tagliare la testa alla ‘ndrangheta – ammesso e non concesso che ci si riesca e io sono tra quelli che non ci credeva ieri, non ci crede oggi e si augura di crederci domani ma con scetticismo incline al pessimismo cosmico – bisogna colpire (con un’operazione di intelligence che non appartiene a questo Stato) quella cupola mafiosa che, l’avrò scritto un miliardo di volte, è fatta anche della ‘ndrangheta militare ma è fatta – soprattutto – di politica asservita, massoneria deviata e pezzi marci dello Stato.

Ed è una cupola sempre più forte e sempre più spostata su un baricentro che non fa più perno su Reggio ma sempre più su Roma (dove c’è il potere politico e il potere massonico deviato che conta) e Milano (dove c’è quello finanziario ed economico). Nel primo incontro che la Commissione parlamentare antimafia europea ha avuto a Milano il 29 ottobre con magistrati, studiosi e forze dell’ordine (che ho raccontato sul Sole-24 Ore ma si veda anche il post di ieri, 5 novembre) anche il capo della Procura di Milano Edmondo Bruti Liberati ha ricordato che l’area grigia non solo è sempre più forte ma è anche sempre più difficile da combattere. “La mafia fino a ieri – ha spiegato – si infiltrava nella società civile. Oggi accade spesso il contrario”.

Un’immagine drammatica ma che è l’essenza della lotta alle mafie: se le forze si indirizzano sul solo versante “militare” la battaglia sarà persa. Sempre. E per sempre.

Paradossalmente a Milano – che ha seguito il filone “Infinito” dell’indagine rivelata al mondo il 13 luglio 2010 – l’epilogo è stato processualmente migliore ma anche in questo caso non sono mancate polemiche. Il 19 novembre 2011, con rito abbreviato, furono comminate pene fino a 16 anni per 110 imputati ma il caso scoppiò quando il 3 giugno 2012 il Gup milanese Roberto Arnaldi (che ha confermato di fatto l’impianto accusatorio dei pm Boccassini Ilda, Alessandra Dolci e Paolo Storari) rese note le motivazioni.  «La ’ndrangheta in Lombardia – si legge nelle motivazioni – è da almeno tre generazioni un fenomeno autonomo rispetto all’associazione mafiosa calabrese….non è semplicemente l’articolazione periferica della struttura criminale calabrese sorta e radicata nel territorio d’origine ma operante in diversi ambiti territoriali nei quali sta tentando di espandere i suoi illeciti affari (Cass. 19141/06) ma è, invece, un’autonoma associazione composta da soggetti ormai da almeno due (in alcuni casi tre) generazioni presenti sul territorio lombardo – il che spiega anche la presenza di soggetti non di origine calabrese – , che commettono in Lombardia reati rientranti nel programma criminoso, che compiono
delitti e atti intimidatori sul territorio del distretto, i quali a loro volta generano assoggettamento e omertà
».

Questa immagine di una ‘ndrangheta autonoma (almeno parzialmente) dalla casa madre calabrese cozza un po’ con le conclusioni alle quali pure è giunta la stessa Procura distrettuale antimafia di Milano quando, in occasione dell’omicidio di Carmelo Novella, il boss ucciso a San Vittore Olona il 14 luglio 2008, disse che l’omicidio era dovuto al fatto che quel giocherellone di Novella si era messo in testa di dichiarare la secessione della ‘ndrangheta lombarda da quella calabrese e che quest’ultima, tollerando a malapena l’autonomia sorvegliata figuriamoci l’indipendenza, lo fece fuori anche per mandare un messaggio mondiale. Per il pentito Antonino Belnome – che la Procura di Milano sta ampiamente utilizzando per ricostruire vari percorsi criminali in Lombardia e fuori regione – staccare la Lombardia dalla Calabria è operazione semplicemente impossibile (si veda su questo blog il mio articolo del 9 maggio 2012).

Conclusioni a parte del Gup Arnaldi – sulle quali ci sarebbe da ragionare pacificamente a lungo – il filone lombardo aveva subito uno stop qualche mese prima proprio sulla costola “politica” dell’indagine, davvero importante perché è nei rapporti con la classe dirigente di questo Paese che la cupola mafiosa trova il suo brodo di coltura. Il 12 ottobre 2011, infatti, il Tribunale di Pavia ha assolto l’ex assessore comunale del Comune di Pavia Pietro Trivi e l’ex direttore sanitario della Asl di Pavia Carlo Chiriaco dall’accusa di corruzione elettorale. Il fatto – l’aver comprato voti per una manciata di euro – semplicemente non sussiste (si veda in archivio di questo blog il mio articolo del 17 ottobre).

Insomma: l’inchiesta “Crimine/Infinito” che tremare il mondo fa, in realtà trema alle fondamenta. Ciò non toglie – sia ben chiaro e lo ripeto allo sfinimento – che il pregio di aver represso una o più ali militari calabro-lombarde è indubitabile.

Ora so che la conclusione di questo articolo farà venire l’orticaria a molti ma siccome ragiono solo ed esclusivamente con la mia testa e me ne fotto del mondo intero, la scrivo felice di scriverla.

Chi aveva recentemente capito tutto anni fa con un’indagine – ahimè condotta con i piedi – sulla vera cupola mafiosa che governa la Calabria era stato Giginiello ‘o sciantoso, attuale sindaco di Napoli. Why Not – ripeto: indagine che per la indiscriminata, caotica e furiosa pesca a strascico effettuata grida vendetta – permetteva di leggere in controluce i poteri mafiosi che governano la Calabria. Tra quei poteri – a partire da quello massonico deviato, fatto cioè di logge occulte e onnipotenti, per terminare con quello politico passando per quello di una certa Chiesa e di professionisti anelli di congiunzione – non a caso non troverete un rigo dedicato ala ‘ndrangheta. Ma dico io: vi pare possibile che un’indagine in Calabria di quel tipo non la contempli neppure di striscio? Certo, se si ragiona sul fatto che quelle componenti della cupola mafiosa che vi ho appena descritto si erano messe in testa un’idea meravigliosa ma irrealizzabile: gestire il mondo del lavoro (diritti scambiati per favore in cambio di voti e assunzioni) escludendo proprio chi – vale a dire le cosche – deputato è da sempre a tenere le fila tra politica e popolo-bue. Non è un caso che alcuni tra gli indagati allora da Giginiello siano ancora oggi sulla cresta dell’onda giudiziaria e processuale in Calabria. Ci aveva visto lungo ‘o sciantoso ma per la smania di incastrare vip come se piovesse ha fatto un errore dopo l’altro. Un conto è il giudizio morale – Why Not esala fetore rivoltante in ogni rigo di ogni singola pagina – un altro conto è quello penale: lì non ci sono cavoli, ho hai prove antigranata o sei destinato a soccombere.

Prima di Giginiello ‘o sciantoso – stritolato un po’ per colpa sua e molto per l’assalto alla baionetta che le componenti di quella cupola mafiosa che governa il Paese gli ha scatenato contro – ci aveva provato, sempre in Calabria, un altro illuso della lotta alla vera ‘ndrangheta: Agostino Cordova da quel di Palmi. Fu impallinato come un tordo e messo all’angolo con ignobili campagne diffamatorie e delegittimanti montate con abile arte da menti raffinatissime.

E oggi? Oggi a Reggio Calabria l’unica – ripeto: l’unica – indagine al cuore della ‘ndrangheta degna di questo nome è Meta, condotta dal pm Giuseppe Lombardo (che, tanto per cambiare, è solo). Da Meta sono nati (nascono e nasceranno) tanti altri filoni che se il buon Dio darà a Lombardo lunga vita come io mi auguro ma le cosche no, sono sicuro che il pm riuscirà a incastrare uno dietro l’altro le tessere di un puzzle che, una volta completato, sarà in grado di dare il volto della ‘ndrangheta calabrese. Forse – in un angolo – ci sarà una tessera ricordo per Don Mico Oppedisano, ma il quadro avrà il volto di politici, magistrati, professionisti, uomini dello Stato, tutti stretti appassionatamente intorno al grande abbraccio della cosca De Stefano che mentre gli altri regnano, governa a tavolino da almeno 30 anni o, se preferite, mentre gli altri piangono, fotte. Da decenni la cosca De Stefano sta scientificamente creando parti della classe dirigente reggina e na-zio-na-le in ogni posizione chiave: politica, imprenditoriale, professionistica e finanziaria. Da Meta& affini invece, non dimentichiamolo, escono le principali risultanze che hanno portato la commissione di indagine prefettizia a proporre lo scioglimento del consiglio comunale di Reggio Calabria contro il quale l’ex sindaco Demetrio Arena fa(rà) ricorso al Tar.

E fuori da Reggio Calabria? Beh lì c’è un altro pm che rischia – come Lombardo – di saltare per aria (e non metaforicamente): si chiama Pier Paolo Bruni della Dda di Catanzaro. Anche lui – come Lombardo – solo, isolato e attaccato. Non c’è indagine che svolga in cui non escano fuori come molle impazzite decine di grembiuli e compassi e intrecci malavitosi tra Cosa nostra e ‘ndrangheta con sponde politiche e di (falsi) servitori dello Stato a ogni livello. Riuscirà – anche lui – nell’ardua impresa di consegnare alla storia processuale (oltre che a quella etica) di questo Paese pezzi di cupola mafiosa? Molto dipende dalla sapienza delle indagini. Molto di più dipende – per lui come per Lombardo – dalla voglia di farlo fuori, se necessario anche fisicamente. I poteri veri della mafia stanno – anche mentre io scrivo o voi leggete – facendo di tutto per delegittimare il suo lavoro e fargli fare almeno la fine di Cordova.

Ora vi lascio. A presto.

r.galullo@ilsole24ore.com

  • Vittoria Prosperi |

    Basterebbero le denunce dei cittadini per fare cadere il castello di carte, ma non hanno voce e se scrivono nessuno ne tiene conto. Il processo è fine a se stesso, per vanagloria e archiviazione.

  • Lu |

    Per chi segue un po’ la cronaca giudiziaria, dovrebbe apparire evidente come non si possa parlare di un epicentro romano tout court. Basti pensare alle indagini su lorenzo suraci.
    In generale dovrebbe essere chiaro che indagine vuol dire ricerca, e che la ricerca è fatta di desunzioni da apparati accortamente camuffati.
    Infine, parlare di “flop” per una decisione tecnica prevista dal codice di procedura, che non sancisce l’innocenza, ma semplicemente la non dimostrabilità in sede processuale dei reati ipotizzati – anche a causa di una vecchia fuga di notizie – è semplicemente mistificatorio.

  • delphus |

    Caro Roberto, ti leggo sempre con piacere ed attenzione. Ritengo che l’operazione Crimine-Infinito sia stata una brillante operazione portata avanti da geni investigativi come Gratteri e la Bocassini, magari uno dei due prossimo ministro, che ha visto oltre 300 arresti e ad oggi quasi 300 condanne in abbreviato a Locri e Milamo. Resta ottima anche facendo la tara della bufala relativa alla cupola della ndrangheta ed al presunto arresto del capo dei capi.
    Ti saluto affettuosamente

  • Antonello Iovane |

    Non credee che il pentimento del capo boss dei Giampà abbia accesso un barlume di luce lì in fondo al tunnel?
    Son consapevole che la merda da levare è tanta, e non si è nemmeno all’inizio…come Lei son pessimista cosmisco ma spero che un domani il popolo sia meno bue

  Post Precedente
Post Successivo