Il 18 gennaio Giuseppe Caruso, ex prefetto di Palermo, da 8 mesi direttore dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alle mafie si è presentato in Commissione parlamentare antimafia (si veda in archivio l’articolo che ho dedicato il 16 marzo 2012 su questo blog e sul Sole-24 Ore online sulla polemica relativa alla sede principale sull’asse Roma-Reggio Calabria: quel giorno l’Agenzia consegnò a Governo e Parlamento la relazione sulle attività svolte a fine 2011).
Dall’Agenzia – senza soldi e con compiti quintuplicati negli ultimi tempi da provvedimenti legislativi di cui sono ancora in itinere alcuni regolamenti attuativi – le persone scappano. Ci sono appena 30 addetti in distacco, distribuiti su quattro sedi, sui 100 previsti che, a breve, dovranno scegliere: tornare presso le amministrazioni di appartenenza o rimanere a lavorare con il prefetto. “Credo che in molti opteranno per il ritorno” ha affermato senza misure Caruso che ha spiegato anche il motivo: “Il personale dell’Agenzia non solo non ha incentivi economici e di carriera ma addirittura, alcuni di essi, ci perdono”. Ad avere gli uomini migliori, poi, nemmeno se ne parla. “Sono riuscito a convincere due cancellieri, forse ne arriverà un terzo”, si è quasi scusato Caruso e c’è da credere che nessun altro arriverà visto che dovranno gestire non solo i beni confiscati ma, ora, anche quelli sequestrati, vale a dire la maggior parte di quella valanga di quasi 12 mila beni. Oltretutto, come ha ricordato lo stesso direttore, le amministrazioni fanno enormi e giustificate resistenze a cedere il personale valido. Di paradosso in paradosso, anche avendo un organico minimo – sarebbe necessario almeno il triplo del personale previsto in pianta organica – dal prossimo anno anche pagarlo sarebbe un problema. I sei milioni – oltre ai 4,2 già assegnati – che quest’anno sono stati eccezionalmente stanziati dallo Stato per retribuire i 70 dipendenti che non sono mai arrivati, dal 2013 non ci saranno più e dunque l’Agenzia sarà costretta a mettere a reddito gli immobili, (affittandoli perché venderli non si può) che, per circa l’80%, sono però inutilizzabili (alcuni cadono letteralmente a pezzi). Oltretutto la messa a reddito cozzerebbe con l’attività principale dell’Agenzia, nata per il riutilizzo sociale dei beni.
Oltre alla sede nazionale, di Reggio Calabria, l’Agenzia ha altro tre sedi: Palermo, Roma e Milano. Bari resterà a lungo in lista d’attesa perché, è sbottato Caruso di fronte a un attonito Walter Veltroni, “non è possibile lavorare in questo modo”. Soprattutto non è possibile trovarsi inermi di fronte a situazioni kafkiane.
La sede romana, in via dei Prefetti (evidentemente un destino) è in affitto e costa 295mila euro all’anno, vale a dire 21mila euro al mese. Da mesi Caruso si sta battendo per risolvere la situazione e avrebbe già individuato un’immobile, vale a dire due appartamenti confiscati in via Ezio ma…Ma si tratta di un bene abitato e secondo Caruso occupato abusivamente da…un avvocato. Bisogna aggiungere altro?
IL RAPPORTO CON LE BANCHE
Il rapporto con le banche è un’altra nota dolente. Il 65% dei beni è gravato da ipoteche e l’Agenzia, per questo motivo, ha già spedito alle Avvocature dello Stato nelle varie Regioni oltre 200 istanze per chiedere immediatamente l’accertamento della buona o della malafede degli istituti di credito che concessero al mafioso il credito da porre sull’immobile. Questo è solo l’inizio del contenzioso. Il resto è da operetta e arriva dopo che Agenzia e banca interessata stabiliscono il contatto per la transazione amichevole. “Con alcuni istituti l’esito è positivo – afferma Caruso – nel senso che gli istituti riescono ad abbattere definitivamente il credito che avanzano, anche a seguito della mia minaccia di non poter vendere il bene e di doverlo blindare. Quindi non possono né assegnare né vendere il bene ma loro, ovviamente, possono dimenticare il credito”. Artifici bonari che nulla possono in alcuni casi. Come quello del Cafè de Paris di Via Veneto a Roma, l’ombelico della dolce vita di un tempo. Dopo il sequestro l’amministratore giudiziario ricevette da una banca su cui aveva il conto corrente la revoca immediata del credito che era in attivo, seppur di poche centinaia di euro.
Nelle terre di mafia accade ben di peggio e in questo caso le banche non c’entrano niente. Quando un’azienda viene sequestrata i clienti revocano le commesse e i costi lievitano in maniera esponenziale. Ricollocare l’impresa nel circuito legale diventa una fatica immane, perché quasi sempre i mafiosi effettuano pagamenti in nero. Molto, da questo punto di vista, potrebbe fare l’Albo degli amministratori giudiziari – da riconvertire da semplici guardiani in promotori di sviluppo economico – ma, sebbene promesso dal precedente Governo, non è mai arrivato.
Nelle terre di mafia accade anche che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. “Quando ero prefetto di Palermo – ha spiegato Caruso – conoscevo un consorzio fidato a cui affidare la gestione del feudo Verbumcaudo. Se non avessi avuto contezza di come funzionano le cose a Palermo, avrei destinato il feudo alla Regione la quale poi, spero in buona fede, così come aveva già programmato, lo avrebbe dato a un costituendo consorzio che, sicuramente, sarebbe stato costituto da persone non affidabili”.
Il più grande amministratore di condomìni e aziende d’Italia è solo. Senza neppure i condòmini.
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