Tre anni fa, nella notte di ferragosto 2007, Duisburg, in Germania, scoprì la ‘ndrangheta calabrese. Sei morti distesi sull’asfalto di fronte al ristorante “Da Bruno”.
Fino a quel momento per i tedeschi, notoriamente astuti, quella calabrese era una mafia “invisibile” e dunque inesistente. I calabresi che avevano riempito quella cittadina di 491.931 abitanti di locali ristoranti erano tutti “pizza e soppressata”. Tutti cuochi e camerieri, che però nel frattempo avevano silenziosamente infestato con la loro presenza malavitosa l’intera Germania (e non solo).
Bene, quella mafia “invisibile” per gli astuti Sturmtruppen tedeschi mi è tornata in mente in questi giorni che si avvicina il ricordo di quella strage nata in Italia ed esplosa in Germania. Mi è tornata in mente quella mafia invisibile anche perché stride in maniera abnorme con quella mafia fatta di santini e preghiere che è emersa dall’inchiesta “Il Crimine” condotta sull’asse Milano-Reggio Calabria a metà luglio 2010.
Un’inchiesta che ha scoperchiato parecchi santuari in Lombardia (dove promette di scoperchiarne altri) mentre l’unico Santuario richiamato nelle indagini calabresi è quello che ruota in Aspromonte intorno a Polsi e alla sua Madonna della Montagna che si celebra il 2 settembre. Santuari politici, in Calabria, zero.
Una contraddizione stridente e palese: in Lombardia alcuni nomi di politici affiorano in quell’inchiesta e affioravano anche in inchieste chiuse alcune settimane prima dalla stessa procuratore aggiunto della Dda di Milano Ilda Boccassini, mentre in Calabria tutto sembra ruotare intorno alla figura di un "vecchietto" da ospizio: Don Mico Oppedisano, 80 anni, da Rosarno, incensurato o quasi, che in un’intercettazione telefonica della Procura di Palmi di qualche anno fa gli stessi parenti si divertivano a prendere in giro quasi fosse un fenomeno da baraccone. Un custode della vecchia ‘ndrangheta, quella fatta di giuramenti, di santini bruciati, di cosche rurali, di riti da celebrare a Polsi. Pericolo, per carità, ma la ‘ndrangheta, oggi, e sottolineo oggi, è un’altra cosa.
No no, troppo stridente la contraddizione. Stridente anche – e soprattutto – con quanto sembrava emergere nella stessa Calabria, terra inzuppata di malaffare contagioso anche per la magistratura, da recenti inchieste di (pochi) magistrati che non vogliono guardare in faccia a nessuno. O almeno ci provano, prima di essere fermati da chi può fermarli.
Perché nell’inchiesta “Il Crimine” non c’è una traccia una che sembri ricondurre alla politica calabrese e perfino ai mammasantissima della ‘ndrangheta? Secondo me le cosche Piromalli, Bellocco, De Stefano, Ursino, Mancuso, Arena, Forastefano (tanto per fare i primi cognomi che mi saltano disordinatamente in testa) si stanno ancora rotolando dalle risate.
No, non posso credere che a Milano due consiglieri regionali siano sotto i riflettori per le loro amicizie “pericolose” e in Calabria, dove non farei frequentare il consiglio regionale neppure al mio peggior nemico, nessuno, dico ne-ssu-no di loro o dei disgustosi politicanti di Reggio Calabria o Cosenza o Crotone o Vibo o Catanzaro e province siano anche solo lontanamente richiamati, sussurrati, sfiorati dalle intercettazioni o dal filo logico delle precedenti e recenti inchieste che qui – logica avrebbe voluto – dovevano esplodere.
Ed allora, visto che come sapete, amati amici di blog, sono un giornalista rompicoglioni, che non si ferma alle apparenze, che ama dubitare perché il dubbio è l’anima del mio mestiere, vi racconto da oggi (e per diverse puntate) una storia diversa.
Una storia che parte da lontano. Anzi: da vicino. Una storia che forse è in grado di rispondere parzialmente al quesito posto sopra: perché la politica calabrese è fuori da questa inchiesta “Il Crimine” dove compare invece, seppur appena accennata, quella lombarda? Un’inchiesta, ecco l’ultima premessa, che rischia di riportare, in Calabria, la lotta alla ‘ndrangheta indietro di anni luce. Non è un caso che Radio-carcere racconti che Oppedisano e i suoi siano stati accolti nei vari Istituti a sberleffi e derisioni e che, cosa gravissima, nei delicati processi in corso a Reggio (come a esempio “Cento anni di storia”) gli avvocati degli imputati abbiano chiesto di rivedere le carte processuali dei loro assistiti alla luce delle “clamorose” rivelazioni di questa inchiesta calabro-lombarda. Tentativi, finora, respinti.
BELLU LAVURU
Sono i primi mesi del 2007 quando Sebastiano Altomonte, nato a Bova il 2 agosto 1954 parla con i magistrati.
Altomonte non è un indagato qualunque nell’inchiesta “Bellu lavuru” che si conclude nella primavera del 2008. Trentuno i fermi, mentre le convalide del gip scenderanno a 29. Nel mirino dei carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria i lavor
i della statale Ionica (106).
L’inchiesta nacque dal crollo di un ponte lungo la statale nei pressi di Palizzi. Si ipotizzò che l’appalto vinto da una ditta di Firenze fosse passato, secondo l'accusa, nelle mani di alcune imprese direttamente riconducibili al superboss di Africo, Giuseppe Morabito, detto ‘u tiradrittu (assolto in processo).
L'indagine nel novembre 2009 si è conclusa con 27 condanne, tra cui quella di Altomonte, condannato a 9 anni. Il procedimento pende in appello (non ho notizie ulteriori dell’iter processuale e chiedo a chiunque avesse aggiornamenti importanti ai fini giudiziari di segnalarli su questo blog o al mio indirizzo mail per integrare le notizie e le informazioni).
LA FIGURA DI SEBASTIANO ALTOMONTE
Altomonte è un sindacalista-politico. Uno di quelli che conta in silenzio e la gente di Reggio lo sa. Si presenta alle comunali del suo paese (il partito non conta tanto in Calabria sono solo simboli di facciata e il trasversalismo è la regola aurea della miseranda politica locale anche quando va a sedere in Parlamento a Roma o a Bruxelles) ma viene trombato. Magari è proprio quello che vuole. Ciò che conta è che lui conti. E conta. Ah se conta.
Di lui, nel fermo, i magistrati scrivono, tra le altre cose, “funge da anello di congiunzione tra esponenti di spicco della locale criminalità organizzata ed appartenenti al settore politico-amministrativo della fascia jonico reggina, tra i quali l’ex consigliere regionale Domenico Crea; mantiene rapporti privilegiati con famiglie di ‘ndrangheta del comprensorio di Africo (Glicora, Micantoni, Criaco); partecipa alla costituzione di una sorta di “cupola”, unitamente ad altri personaggi di vertice quali Leone Morello, Leone Modaffari e Antonino Vadalà, finalizzata ad esercitare il predominio nel comprensorio di Bova Marina oltre che a gestire un gruppo politico alle loro dipendenze; mantiene costanti rapporti con tutte le cosche della fascia jonica reggina in quanto parte del predetto gruppo criminale che definisce degli “invisibili”.
Eccolo lì dunque: anello di congiunzione con la politica, promotore di gruppi politici e…”invisibile”.
GLI “INVISIBILI”
Attenzione cari lettori: dobbiamo partire da qui, dagli “invisibili” per capire cosa sta accadendo da 5 anni in Calabria e per capire che, se la magistratura con le palle e il giornalismo con le stesse palle non andranno fino in fondo, in questa regione rischierà di essere portato a compimento quel progetto politico-massonico-mafioso che inizia in una data ben precisa: il 16 ottobre 2005, allorchè in un seggio di Locri dell’inutile Unione venne ucciso il vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno, uno degli uomini più vicini a Loiero Agazio, l’ex presidente della Regione.
LA FIAT PUNTO
Sulla sua Fiat punto targata CP097NG, Altomonte il 17 ottobre 2007 alle 17.22.48, per 21minuti e 47 secondi parla con sua moglie e, annotano i magistrati, per la prima volta riferisce alla moglie stessa, Giulia Vadalà, di aver partecipato ad un pranzo nel quale con lui vi erano 5 o 6 persone definite dallo stesso Altomonte “invisibili”.
Sulla stessa autovettura, due mesi prima, il 12 agosto 2007 alle 11.38.27, Sebastiano parla per 27 minuti e 54 secondi con il fratello Giuseppe e, annotano ancora i magistrati, Sebastiano conferma di “far parte di un gruppo di persone sconosciuto ai più, denominato “gli invisibili”, nato solo da un paio di anni, e del quale a Bova con lui ne fanno parte solo 5 persone che sono quelle che realmente contano”.
Questa acquisizione apre uno scenario del tutto nuovo nel panorama criminale delle cosche mafiose di Reggio Calabria.
Grazie a questa conversazione e altre ancora (sotto riporto testualmente quella del 20 dicembre 2007) la magistratura reggina viene a conoscenza che, per una scelta di autoprotezionismo da “attacchi esterni” (“se no oggi il mondo finiva; se no tutti cantavano”), gli stessi appartenenti alle varie organizzazioni criminali, da un paio di anni (“c'è la visibile e l'invisibile che è nata da un paio di anni“), hanno creato una sorta di struttura parallela occulta i cui aderenti vengono denominati gli “invisibili”.
I “VISIBILI