Amati lettori di questo umile e umido blog, dalla scorsa settimana mi sto occupando dell’interrogazione presentata il 2 febbraio dal senatore Beppe Lumia (Pd) al ministro dell’Interno Angelino Alfano sulla rete di protezione che garantisce da (appena) 22 anni la latitanza del boss Matteo Messina Denaro.
Il cuore dell’interrogazione è la richiesta al ministro di acquisire gli elenchi dei massoni trapanesi (e non solo) perché – come del resto emerge dalle indagini della Procura di Palermo ed è già emerso da quelle della Procura di Trapani ad esempio per il delitto Rostagno – è tra i “grembiuli” sporchi, oltre che nella borghesia mafiosa e nella politica allevata a santini e vangelo, che si alimenta il circolo protettivo di Messina Denaro e dei suoi indegni sodali. Rimando ai link (http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2016/02/10/rete-di-matteo-messina-denaro1-beppe-lumia-chiede-al-ministro-alfano-di-acquisire-le-liste-dei-massoni-siciliani/
http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2016/02/12/rete-di-matteo-messina-denaro3-lo-spirito-della-fu-loggia-scontrino-e-piu-vivo-e-vegeto-che-mai/) per quanto scritto finora e vado avanti.
Per capire fino in fondo il bozzolo mortale (per la democrazia italiana o quel che ne resta) che avvolge e protegge Matteo Messina Denaro e i suoi indegni sodali, si deve tornare ancora proprio alle 3.039 pagine di motivazioni depositate il 27 luglio 2015 dalla Corte di Assise di Trapani (presidente Angelo Pellino, giudice Samuele Corso, oltre ai giudici popolari), della sentenza relativa all’omicidio di Mauro Rostagno, avvenuto il 26 settembre 1988 a Lenzi (la sentenza di primo grado, pronunciata il 15 maggio 2014 ha visto le condanne di Vincenzo Virga e di Vito Mazzara e la prima udienza dell’appello si svolgerà il 13 maggio 2016 presso la seconda sezione della Corte di assise di Palermo).
In un territorio complesso e devastato da una miscela esplosiva in cui gli ingredienti principali sono Cosa nostra, politica marcia e servitori infedeli dello Stato, non è casuale imbattersi in quelle che Natale Torregrossa, membro autorevole del (fu) circolo Scontrino di Trapani, ha autorevolmente definito «logge selvagge».
Dalle motivazioni della sentenza, leggiamo quanto scrivono i giudici da pagina 793 nel paragrafo intitolato “Le menzogne di Torregrossa”: «Al presente dibattimento, Torregrossa ha negato tutto quello che poteva negare senza eccessivo rischio, per non essere stato (ancora) processualmente accertato. E ha fatto parziali ammissioni solo rispetto ad evidenze non oppugnabili. Ma su più di un punto è stato smentito da risultanze dibattimentali; e soprattutto è smentito da Rostagno e da se stesso, avendo reso una deposizione che si segnala per le numerose reticenze, incongruenze o palesi falsità da cui è costellata.
Egli ha ammesso di aver partecipato ala fondazione praticamente di tutte le logge del Centro Scontrino che facevano capo come rito massonico, alla Comunione di Piazza del Gesù, ma, come lui stesso ha precisato, erano “autonome”: che è una sua personale interpretazione del fatto che si trattava di logge selvagge, cioè non riconosciute dagli organismi centrali (…)».
Trovo sublime questa definizione dei giudici: “logge selvagge”. Rende perfettamente l’idea di un’associazione segreta, occulta, senza regole. Un concetto sul quale i giudici torneranno da pagina 821, allorché ripercorrono le tappe dei notiziari, dei redazionali, dei programmi di approfondimento e delle interviste nelle quali Mauro Rostagno aveva affrontato e dibattuto il tema del rapporto mafia-massoneria o poteri occulti o malaffare. Rostagno denunciava con attenzione e preoccupazione «la pervasiva infiltrazione di poteri occulti negli apparati istituzionali, quale fattore di corrosione e inquinamento del tessuto democratico; la compresenza delle logge massoniche che facevano capo la centro Scontrino di uomini delle istituzioni e funzionari pubblici (oltre a professionisti, banchieri e imprenditori) da un lato e noti sponenti mafiosi dall’altro: i possibili legami della massoneria trapanese e segnatamente delle logge “selvagge”…con la P2 di Licio Gelli (anche in relazione alle presunte visite dello stesso Gelli nel Trapanese); il possibile coinvolgimento di circoli massonici nel traffico di droga, se non anche nel traffico d’armi.
È allora lecito ricavare, anche dalla parte “sommersa” dell’attività giornalistica di Mauro Rostagno, indicazioni, in ordine al più probabile movente del delitto e alla sua matrice mafiosa, che, senza essere perentori e concludenti, tuttavia convergono perfettamente con quelle desumibili dalla parte “emersa” di quell’attività.
In sostanza, nella primavera del 1988, a partire dal momento in cui i primi arresti provano che dietro tanto fumo c’era anche molto arrosto ed era un arrosto che faceva male, per usare la metafora di un suo redazionale, Rostagno esce allo scoperto, ma al contempo continua a scavare nell’ombra, tessendo contatti con fonti interne alle vicende di cui parla per saperne di più e documentarsi, come lui stesso ha dichiarato nei verbali che per 25 anni sono rimasti sepolti tra le carte del processo “Scontrino”.
Egli comincia cioè a martellare quelli che oggi si definirebbero, con espressione un po’ abusata, i poteri forti che dominavano la città di Trapani attraverso strutture di potere occulti come quella venuta alla luce proprio nell’inchiesta sul circolo Scontrino, che intreccia il malaffare con l’inquinamento delle istituzioni e le collusioni politico-mafiose.
Cresce allora il fastidio e anche la preoccupazione di quegli stessi poteri forti per la capacità di Rostagno di suscitare interesse e mobilitare l’opinione pubblica in una campagna di sensibilizzazione che salda il problema della lotta alla mafia a quello del contrasto alla corruzione e al degrado del sistema politico e istituzionale e incita alla solidarietà con la magistratura e le forze dell’ordine impegnate in quest’azione di contrasto. Ma preoccupa soprattutto la sua capacità di stabilire legami e contatti per così dire “trasversali” che gli danno accesso ad ambienti eterogenei e alle informazioni più delicate. E cresce l’esigenza di sbarazzarsi di quella sorta di grillo parlante della coscienza civile trapanese, un’esigenza che accomuna tutte le componenti di quel sistema di “poteri forti”, tra cui certamente figurava anche Cosa nostra. E Cosa nostra aveva l’organizzazione, le risorse, le capacità, la determinazione e le motivazioni necessarie e sufficienti per farsi interprete e vindice di quel comune interesse. Né, per agire, aveva bisogno di un mandato o di una richiesta esplicita di intervento da parte di qualche politico corrotto o di imprenditori collusi o di qualche autorevole esponente dell’establishment che più di altri avvertisse la minaccia che Rostagno poteva rappresentare per la sicurezza degli affari e la tenuta del sistema di potere dominante. Non serviva insomma un previo accordo con i rappresentanti di altri “poteri forti”, anche se un simile accordo ci poteva pure stare. E tanto meno lo “sta bene” di fantomatiche entità sovraordinate al potere mafioso (scenario, quest’ultimo, tutto e solo letterario).
Piuttosto, a far vincere ogni residua remora per le possibili o prevedibili ripercussioni di un delitto eccellente (in termini di recrudescenza dell’azione repressiva di magistratura e forze dell’ordine), bastava la consapevolezza che negli ambienti che contavano a Trapani, tra i notabili e gli uomini di potere e persino all’interno delle istituzioni, nessuno si sarebbe strappato le vesti alla notizia dell’uccisione di Rostagno; e molti avrebbero anzi tacitamente approvato quell’esito, o comunque si sarebbero guardati dal sollecitare una reazione adeguata da parte degli apparati repressivi dello Stato.
D’altra parte, era quella una stagione – preludio di quella tristamente nota come la stagione delle stragi – in cui Cosa nostra aveva ampiamente dimostrato di non avere alcuna remora non solo a compiere delitti eccellenti, ma a farlo con modalità eclatanti: e proprio a Trapani ne aveva dato prova, con l’omicidio di Ciaccio Montalto, e poi con l’attentato al giudice Carlo Palermo e fino a pochi giorni prima dell’assassinio di Rostagno, con l’omicidio del giudice Giacomelli».
Questa era Trapani a cavallo degli anni Novanta sotto il segno della famiglia Messina Denaro.
Questa è – mutatis mutandum – la rete di Trapani, nel nuovo secolo, a protezione di Matteo Messina Denaro.
Ora mi fermo. Domani continuo.
4 – to be continued (si leggano anche http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2015/12/01/sua-latitanza-matteo-messina-denaro-e-lombra-lunghissima-della-massoneria-parola-a-francesco-lo-voi/)