Amati lettori di questo umile e umido blog, anche oggi e nelle prossime ore continuerò ad onorare la memoria del giudice Paolo Borsellino (e dunque anche del suo collega di vita e di morte Giovanni Falcone, unitamente alle loro scorte) con nuove analisi.
Quella di oggi (e quella dei prossimi giorni) trae spunto dalle dichiarazioni, rese per il venticinquennale della strage di via D’Amelio, da Fiammetta Borsellino, figlia del giudice, secondo la quale, come ha dichiarato al giornalista del Corriere della Sera Felice Cavallaro, «Questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna (Vincenzo Scarantino, ndr) come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri…».
Fermiamoci un attimo.
Quel riferimento alla massoneria può essere casuale? Assolutamente no ma solo chi conosce la storia giudiziaria (siciliana e no) degli ultimi 25 anni può cogliere il senso del riferimento.
Allora facciamo un passo indietro, allorché l’allora sostituto procuratore di Palermo Roberto Scarpinato, oggi procuratore generale a Palermo, il 21 marzo 2001 chiese l’archiviazione della sua indagine al Gip del Tribunale di Palermo, iniziata nel ’98.
Scarpinato, pur avendo acquisto molti elementi tra mille ostacoli politici e resistenze all’interno della stessa magistratura, sapeva che non erano sufficienti per sostenere in giudizio l’accusa per la quale, all’inizio degli anni ’90, venne elaborato, in ambienti esterni alle mafie ma ad esse legati, un nuovo progetto politico, attribuibile ad ambienti della massoneria e della destra eversiva, in particolare agli indagati Licio Gelli, Stefano Delle Chiaie e Stefano Menicacci.
Non fu sufficientemente provato neppure che Cosa nostra deliberò di attuare la “strategia della tensione” – che si aprì il 12 marzo 1992 con l’uccisione di Salvo Lima, passò per le stragi di Capaci e Via d’Amelio, la morte di Ignazio Salvo, gli attentati a Roma e Firenze e si concluse il27 luglio 1993 con l’esplosione di via Palestro a Milano – per agevolare la realizzazione di quel progetto politico, né che l’organizzazione mafiosa abbia approvato l’attuazione di un piano eversivo-secessionista per effetto di contatti con quel gruppo.
Il progetto subì una brusca accelerazione alla fine del 1991 – in prossimità della decisione della Corte di Cassazione sul maxiprocesso – e trova il suo incipit nel 1992 subito dopo l’emanazione della sentenza il 30 gennaio di quell’anno.
Tale progetto, scrisse Scarpinato nella sua stessa richiesta di archiviazione (poi accolta) «muoveva dalla seguente diagnosi, verosimilmente prospettata ai capi di Cosa nostra da intermediari di soggetti (aventi interessi politico-criminali in parte diversi, ma tuttavia convergenti) provenienti da ambienti della massoneria deviata e della destra eversiva:
1) I referenti politici di Cosa Nostra avevano dimostrato di non prendersi più cura (o di non essere più in grado di prendersi cura) degli interessi dell’organizzazione, così come delle altre macro-organizzazioni mafiose.
2) Appariva, dunque, necessario disarticolare il vecchio quadro politico-istituzionale e dare vita ad un nuovo assetto globale dei rapporti con la politica mediante una strategia complessa consistente, per un verso, nella perpetrazione di una serie di atti violenti volti a creare un clima di terrore con finalità destabilizzanti e, per altro verso, nella contemporanea creazione di nuovi soggetti politici, espressione organica del sistema criminale e dei suoi nuovi referenti esterni.
3) Punto di approdo di tale strategia doveva essere la trasformazione dello Stato unitario in una nuova “forma Stato” che contemplava la rottura dell’unità nazionale, la divisione dell’Italia in più stati o macroregioni e, comunque, la secessione della Sicilia».
Fermiamoci un attimo perché vale la pena, anche in luce prospettica su quanto scriverò domani: quel progetto politico che avrebbe dovuto mandare a carte quarantotto lo Stato era stato elaborato, secondo la Procura di Palermo che per questo indagò a lungo salvo poi arrendersi anche per aver trovato di fronte un muro granitico e invalicabile, era stato elaborato dalla massoneria di Licio Gelli e controfirmato dalla strategia della tensione e dunque stragista di Cosa nostra e – attenzione perché questo viene spesso dimenticato dai “professoroni” nella magistratura e nel giornalismo, che parlano di cose di cui nulla conoscono – della ‘ndrangheta.
Bene. Fermiamoci qui che domani si continua.
6 – to be continued (per le precedenti puntate si leggano