Ogni indagine, ogni inchiesta, ogni investigazione di mafia è ritenuta dai media un colpo mortale a Cosa nostra, alla ‘ndrangheta, alla camorra, alla Sacra corona unita e via di questo passo. Ritengo che ogni colpo alle mafie sia vitale per la società sana ma, ahimè, non ne ho ancora visti di mortali per le mafie. Mi sembra anzi che a fronte della forza repressiva di investigatori e inquirenti e a fronte della complessa opera preventiva, le mafie siano sempre più forti, anche grazie alla straordinaria capacità che hanno di evolversi e di avere uno Stato che non è in grado di stare al passo. Magari mi sbaglierò. Magari.
Queste cose ribadisco oggi non a caso ma perché a pochi di voi sarà sfuggito che il 23 settembre la Procura di Palermo (pm Caterina Malagoli e Sergio Demontis) ha fermato alcune persone sospettate di appartenere a Cosa nostra corleonese.
Una di queste si chiama Antonino Di Marco e da alcuni media è stato descritto come l’insospettabile fedelissimo di Totò Riina. Speravo avessero preso con le mani nel sacco un professionista conosciuto in tutto il mondo, un politico antimafia, un prete di frontiera, magari un infedele servitore dello Stato. Mi sarei accontentato, in scala uno a dieci, anche di un professionista conosciuto solo in loco ma apparentemente integerrimo, un politico locale che grida solo a parole contro i picciotti, un curato di campagna che predica bene e razzola male o un agente delle Forze dell’Ordine che atteggiandosi come paladino della legge la infrange.
Speravo in tutto ciò perché le mafie sono uno (stra)ordinario sistema criminale evoluto di cui cosche e clan detengono pacchetti azionari che ormai non sono più la maggioranza del capitale.
Nulla di tutto questo: l’insospettabile fedelissimo di Totò Riina era un 56enne di Corleone, privo di qualsivoglia precedente penale, un anonimo dipendente del Comune di Corleone. Rare erano le sue frequentazioni con personaggi d’interesse operativo in pubblico, molto accorto ad avere un atteggiamento di basso profilo che non indirizzasse in nessun modo le forze dell’ordine alla sua individuazione. Trascorreva la maggior parte della sua giornata all’interno dell’ufficio del campo sportivo, del quale è (era) custode, e quasi ogni sera accompagnava le nipoti alla locale villa comunale per una tranquilla passeggiata.
Secondo investigatori e inquirenti era a capo della famiglia mafiosa di Palazzo Adriano, comune storicamente ricompreso, insieme a tutti gli altri comuni del circondario, nel mandamento mafioso di Corleone, come asserito anche da molti collaboratori. Agli inquirenti non appare quindi anomalo che a capo della famiglia mafiosa si trovi proprio un corleonese che, rimasto immune dalle numerose operazione antimafia che si sono susseguite negli anni, può contare sul suo anonimato nei confronti degli inquirenti, ma non certo dell’associazione mafiosa.
«Invero Di Marco Antonino si è dimostrato essere capo assolutamente carismatico e molto deciso – si legge nel decreto di fermo firmato dai due pm, di cui prendo appunti –. Fautore di una linea d’azione prudente, di provenziana memoria. Egli preferisce mediare piuttosto che attaccare frontalmente l’avversario, ma quando vi è la necessità, e le altre strade non hanno permesso di raggiungere l’obiettivo, sa anche usare il pugno duro guidando i consociati in azioni criminali mirate e chirurgiche. Egli gode poi di una vasta conoscenza delle dinamiche di “Cosa Nostra” e dei suoi personaggi più influenti. Ne conosce e rispetta le regole e pretende che altrettanto facciano gli associati suoi sottoposti».
Leggo ancora meglio le carte della Procura e prendo ancora appunti, quando vedo che «il futuro genero è un sottufficiale dell’Arma dei Carabinieri in servizio presso la Stazione Palermo (Piazza Verdi), particolare questo che sembrerebbe contrastare con le ataviche regole non scritte di Cosa Nostra, ma che ben si attaglia alla parvenza di “insospettabile” di cui voleva rivestirsi Di Marco».
Ah, ecco. Un conto è essere insospettabile, un altro conto è cercare di darsi una «parvenza di insospettabilità» come, correttamente, riportano i pm.
Del resto era difficile credere di trovarsi di fronte ad un “insospettabile” che vanta (si fa per dire) il seguente curriculum: è però fratello di Vincenzo Di Marco, corleonese di nascita, ma residente nella vicina cittadina di San Giuseppe Jato sin dal 1973. Fu arrestato il 5 febbraio 1993 per favoreggiamento personale del boss Salvatore Riina, durante la sua latitanza. Venne condannato con sentenza passata in giudicato e nel 1998 e sottoposto a misura di prevenzione patrimoniale.
Salvatore Di Marco era considerato l’autista della moglie di Riina, Antonina Bagarella e quindi un fedelissimo del capo storico di Cosa Nostra. Il giorno prima dell’arresto di Salvatore Riina fu visto e filmato uscire dal covo di via Bernini in auto con a bordo Bagarella e due dei figli di Riina.
Ora la domanda spontanea che mi sorge è questa: ma con un pedigree familiare di così drammatico rispetto in capo ai quaquaraqua di Cosa nostra è mai possibile che in tutti questi anni nessuno abbia mai sospettato tra le Forze dell’Ordine (l’intelligence non funziona più?) e tra i vertici succedutisi nell’amministrazione comunale che l’”anonimo” custode trattasse le stanze dove svolgeva il suo lavoro come qualcosa di diverso da un ufficio pubblico, affinasse strategie diverse da quelle per le quali veniva pagato e rispondesse a ordini superiori diversi da quelli del suo capo ufficio?
E’ vero che se le colpe dei padri non possono ricadere sui figli, a maggior ragione non possono esserci travasi di responsabilità tra i fratelli ma, che so, un’attenzione particolare, fino a passarli tutti ai raggi X, a chi tra i ranghi familiari si trova l’autista di Riina vogliamo dargliela per tempo o no? Mi sbaglio? Beh, visto che l’anonimo custode, secondo la ricostruzione dell’accusa, aveva un filo diretto con tutta la famiglia Riina (figlio a Padova compreso) non credo che la mia domanda e il mio interrogativo siano fuori luogo. Bisogna avere nostalgia per il maresciallo dei Carabinieri che strusciava in paese e sapeva vita, morte e miracoli di ogni singolo cittadino? Beh, direi proprio di sì. Magari in forma più evoluta.
Volete saper come è nata questa indagine? Dalla denuncia di un onesto dipendente del Comune di Chiusa Sclafani (Palermo) che a marzo 2012 ha varcato la soglia del comando dei Carabinieri di Corleone e ha raccontato quel che sapeva (e che non andava) di una gara di appalto indetta dall’amministrazione, relativa all’esecuzione dei lavori di messa in sicurezza e manutenzione straordinaria di una scuola elementare.
Vivaddio: da questa denuncia è scaturita l’indagine che ha portato a scoprire un mondo. Ma la domanda mi ritorna in testa: ma l’intelligence, le investigazioni, in questo Paese, esistono ancora o bisogna sperare nella cabala, in un colpo di fortuna o in una denuncia coraggiosa per scoprire il marcio?
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