L’articolo che il 30 dicembre ho dedicato alla situazione politica e sociale calabrese ha suscitato un ampio dibattito e un’ampia risonanza.
I lettori sono migliaia, i commenti sono tanti su questo blog e facebook e siti locali hanno rilanciato migliaia di volte il pezzo sulla Rete.
Di una cosa sono soddisfatto e, al tempo stesso, estremamente sorpreso. La mia analisi è stata capita e apprezzata da (quasi) tutti quelli che hanno desiderato intervenire. Questo vuol dire che la Calabria ha un futuro nell’intelligenza di chi ama la sua terra e sa riconoscere chi la ama. Tutti tranne uno che, prima di scrivere, dovrebbe imparare a leggere.
L’imprenditore Antonino De Masi – uno dei reggenti di Confindustria Reggio Calabria, chiamato a ricostruire l’Associazione territoriale tra mille traversie ed uno dei primi, negli anni Novanta, a ribellarsi alla ‘ndrangheta – paventava nel suo commento che qualcuno avrebbe potuto distorcere il mio atto di amore (straordinariamente sintetizzato tra i commenti da Livia Leardini).
Il suo timore si è concretizzato solo in un commento, quello del vigliacco “Italiano” (a proposito: si vergogni di celarsi dietro un sostantivo patrimonio della nostra Patria per esprimere anonimamente le sue opinioni). E’ riuscito, costui, in un’impresa impossibile: darmi del leghista. A me che vedo la scritta “Padania” con lo stesso amore e trasporto con il quale un ebreo potrebbe leggere la frase “Il lavoro rende liberi”.
Oggi questo blog avrebbe dovuto essere occupato dal secondo servizio che ho deciso di dedicare alla Calabria per la quale ho fatto un sogno: liberarla dalla classe dirigente calabrese, corrotta nel midollo e affidarla a mani “italiane” passando, se necessario, perfino attraverso la sospensione di alcuni diritti costituzionali.
Invece oggi lo spazio sarà occupato da una lettera personale, struggente e appassionata che a sorpresa ho ricevuto dall’onorevole del Pd Doris Lo Moro che, a mia richiesta, ha accettato di far pubblicare.
Lo Moro – che conosco e apprezzo dai tempi in cui portò uno spiraglio di luce e speranza nel devastato e devastante settore sanitario calabrese prima di essere spazzata via dalla classe politica marcia e dagli interessi lobbistici-‘ndranghetistici – ha deciso di seguire il dibattito e per questo la ringrazio così come ringrazio qualunque altro politico volesse intervenire. A loro è infatti deputato il compito di governare questa terra.
Doris prima di essere stata eletta parlamentare nel Pd alle ultime elezioni (con il mal di pancia di mille dei suoi pseudo colleghi di un partito che al suo interno raccoglie il peggio del peggio tra grembiulini sporchi e fottuti affaristi) è stata sindaco di Lamezia Terme. Prima ancora magistrato antimafia ma soprattutto è figlia e sorella di un padre e di un fratello uccisi 25 anni fa dalla cultura della ‘ndrangheta. Da allora la sua attività testimonia, sul campo, come ogni sorta di compromesso che violenti i principi di legalità ed etica, uccida ogni giorno (e non una volta sola) i suoi familiari e tutte le altre vittime di mafia. E con loro la speranza di un futuro.
Vi racconto un episodio personale. Quando, sei anni fa, Ferruccio de Bortoli accolse la mia richiesta di lasciare l’incarico di caporedattore e mi promosse inviato speciale, la prima grande inchiesta che mi assegnò fu sulla sanità al Sud che alcuni colleghi, oltretutto, avevano rifiutato di svolgere.
Le mie 5 inchieste (che come sempre non guardavano in faccia a nessuno) fecero venire il voltastomaco (e conseguenti rigurgiti piovuti su Confindustria ed editore) alla parte più corrotta dell’imprenditoria e della politica meridionale.
Il direttore ed io ne godemmo. La bontà di quelle inchieste fu dovuta anche gli episodi vissuti in prima persona. Tra questi la possibilità di leggere gli appunti impietosi che Doris Lo Moro scrisse nel suo lungo e personale viaggio in quella sanità calabrese che, prima di riformare, doveva conoscere a fondo.
La lettura di quel diario mi fece capire che non ce l’avrebbe mai fatta a spezzare le catene delle omertà, delle illegalità, delle nomine rigorosamente massoniche in corsia, dei sordidi legami dell’imprenditoria collusa e corrotta che di quel bengodi miliardario spartiva i profitti con le cosche.
Lo capìì subito anche lei ma andò avanti lo stesso. Lo sapeva – senza bisogno di capirlo – la cupola che la lasciò cuocere a fuoco lentissimo ma dato che inaspettatamente resisteva al calore, a un certo punto decise di spazzarla via alzando la fiamma del gas, bruciando con lei le infinitesimali speranze che qualcosa potesse cambiare.
Leggetela questa lettera. E’ un atto di amore che spero replicabile all’infinito. Le parti che troverete in grassetto corsivo sono attribuibili a me: ho evidenziato in questo modo i passi che, a mio avviso, sono salienti.
Tra poche ore, invece, potrete leggere il mio nuovo servizio.
Buona lettura e buon anno a tutti
IL TESTO DELLA LETTERA
Caro Roberto, il tuo articolo mi ha fatto star male.
Sono stata educata a sentirmi italiana da un padre che ha proibito a noi figli persino l’uso del dialetto e che, pur essendo un uomo di sinistra, aveva il culto della Patria e del tricolore.
Sono nata in un piccolo paese e cresciuta in un altro, più grande, senza sentire alcun legame di campanile e, crescendo, anche da politico, non ho mai capito e agevolato rivalità e contrapposizioni. Fin da ragazza ho amato costruire amicizie dappertutto. Non ho mai pensato di lasciare la Calabria ma non ho neanche sentito estranea alla mia vita e alla mia cultura il resto del Mezzogiorno e del Paese. Non ho odiato la Calabria neanche quando ho, giovanissima, scoperto sulla mia pelle che la cultura della violenza, figlia della pervasività della ‘ndrangheta, ne aveva corroso l’anima. Ho scelto di restare ed ho anche difeso questa scelta, contro ogni evidenza.
Nella mia vita da adulta, alcuni episodi, come l’omicidio di Caraffa, in cui qualche anno fa hanno perso la vita due giovani e i loro genitori, e la mattanza di Filandari di questi giorni hanno messo a forte rischio le mie convinzioni. Mi sono chiesta se episodi del genere si fossero verificati in Calabria per il contesto di violenza in cui si vive, per i disvalori di cui ci si nutre, per la patologica diffusione delle armi, per il degrado morale e sociale che si coglie dappertutto o per cos’altro. Ma per questa Calabria, come per quella della strage di Duinsburg, e dell’elenco delle migliaia di morti ammazzati che si allunga ogni giorno, i sentimenti miei, come quelli di tantissimi calabresi, sono stati e sono di rifiuto e di totale condanna, senza appello e, per quel che mi riguarda più direttamente, senza perdono (che è un sentimento che non coltivo così come non coltivo l’odio).
Girando per la Calabria e conoscendo tantissima gente ho maturato la certezza che la Calabria potesse essere anche altro, anzi che fosse soprattut
to altro: onestà, amicizia, accoglienza e tanti buoni sentimenti. E ho sempre pensato che la gente perbene dovesse solo farsi avanti, occupare gli spazi, emarginare i violenti e i corrotti, avere cura di sé delle proprie famiglie e che il bene non poteva che prevalere, in Calabria come altrove, anzi nella Calabria abituata allo sfruttamento, all’emigrazione, alle vessazioni, alle prevaricazioni e alle ingiustizie, più che altrove, perché la sofferenza rende forti (non si dice sempre così a chi subisce ingiustizie?).
Il punto è che la Calabria di oggi anche a me sembra senza speranze. Perché il suo ceto dirigente è violento e prevaricatore come la ‘ndrangheta, ha corrotto la cultura impregnandola di clientelismo, ha dismesso qualsiasi etica pubblica e privata.
Sì è vero, Roberto, Santi Zappalà non è un’eccezione oggi come non lo era Crea solo ieri. E del resto sono gente come loro, e non solo loro, che hanno determinato vittorie e sconfitte. Sono troppi e troppo radicati, come la ‘ndrangheta e il malcostume. E se la Calabria è senza speranze è colpa loro ma soprattutto dei pupari, che hanno ridotto la mia Calabria ad uno scacchiere in cui si esercitano, cambiando solo qualche pedina. Non basta il dissenso e non serve, perché immiserisce, neanche il disprezzo. Forse alla Calabria serve un nuovo invasore che le restituisca l’onore e i buoni sentimenti e perché liberi la gente comune che ha interiorizzato la sudditanza e la rassegnazione.
Se soffro, caro Roberto, è perché solo ora, da adulta, mi scopro calabrese e meridionale (e non più semplicemente italiana, come mi aveva fatto credere mio padre) e perché ho marito, figli e fratelli calabresi e in Calabria sono sepolti il mio fratello più piccolo e i miei genitori. Mi chiedo: ma un politico ha diritto ad ammettere che vacilla la sua speranza? E mi rispondo che sono una persona che ha sognato di essere utile a qualcosa più importante e più grande di lei e che oggi si sente delusa e ha difficoltà a far parte di un ceto dirigente da cui ogni giorno prende le distanze.
Per me è tardi per ricominciare (ma dove? lontano da qui? E’ stato restare l’errore?). E i miei figli e gli altri ragazzi? Come potrei coltivare il sogno di vederli andare via lasciando questa terra a chi la violenta e la rende impresentabile!
Ecco perché soffro, Roberto! E alla fine sono costretta a darti torto! A sognare un futuro migliore che spazzi via la mia stessa generazione che ha fallito. Tutti, anche chi non ha colpe! Per rivedere fiorire questa terra, bella e sfortunata, dove voglio continuare a vivere e anche morire, con la speranza di non vergognarmi più del sangue, della violenza, della cattiva politica e dei cattivi sentimenti che hanno reso invisibile il mare, il sole, la cultura, le montagne e la neve candida come l’anima dei miei figli e dei tantissimi giovani a cui noi adulti abbiamo fatto mancare l’esempio, mettendo a rischio il lo ro futuro.
Roberto, tu hai ragione ma io devo darti torto per amore, perché se rinuncio ad amare la mia terra contribuisco a distruggerla.
Doris Lo Moro