Cari lettori la scorsa settimana ho affrontato alcuni nuovi anelli della catena di intimidazioni ai magistrati e di sommovimenti interni alle cosche prendendo spunto dai recentissimi messaggi mortali spediti al pg Francesco Mollace e al pm Antonio De Bernardo che in questo momento affianca lo stesso Mollace in alcuni processi vitali per la zona jonica (si veda il post del 28 marzo).
Del rasoio mortale sul quale cammina il pm di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo ho scritto fiumi di inchiostro virtuale (rimando ai 10 post scritti a partire dal 4 marzo) ma in Calabria tutto si tiene e, dunque, quella corda che lui sta stringendo intorno alla trimurti De Stefano-Tegano-Condello ha riflessi non secondari su quanto sta accadendo a Reggio Calabria grazie (si fa per dire) al clan Serraino. Prima di addentrarmi nello “sciopero” della fame vi descrivo chi sono.
IL PROFILO DEI SERRAINO
Quella dei Serraino non è una cosca qualunque. E’ sanguinaria, violenta. Scende dalla montagna. E’ scaltra e furba.
Durante la seconda guerra di ‘ndrangheta a Reggio Calabria i Serraino si schierarono con i Condello, gli Imerti e i Rosmini. Nemici naturali dunque dei De Stefano e dei Tegano.
"Serraino e Rosmini – affermò il 17 luglio 2012 il pentito Consolato Villani di fronte al Tribunale secondo quanto riporta Alessia Candito su www.ildispaccio.it – non vengono comandati da nessuno. Si siedono al tavolo con i più alti responsabili della ndrangheta. Discutono alla pari con i Libri, con i Tegano”. Un ruolo che confina ma non collima con le dichiarazioni fatte in precedenza da altri testimoni e collaboratori, che non hanno mai collocato il clan della montagna in un ruolo così apicale, ricorda Candito nella sua puntuale cronaca giudiziaria.
Storicamente la sua egemonia è nei territori di Cardeto, Gambarie e Reggio Calabria, nei quartieri S. Sperato, Cataforio, Mosorrofa e Sala di Mosorrofa.
Capo storico era Francesco Serraino, ucciso con il figlio Alessandro nell’eclatante agguato mafioso portato a termine all'interno degli Ospedali Riuniti di Reggio il 23 aprile 986. Era soprannominato "il re della montagna", proprio in relazione al territorio su cui esercitava il potere criminale (Gambarie, nel cuore dell'Aspromonte) e all'attività economica (taglio dei boschi e relativo commercio del legname).
La cosca Serraino si allineava al "cartello" Imerti-Condello prevalentemente per inserirsi nella gestione degli appalti pubblici cittadini, da sempre appannaggio del “cartello” opposto dei destefaniani.
I contrasti con la famiglia De Stefano risalgono all'epoca dell'omicidio di Giorgio, avvenuto ad "Acqua del Gallo", territorio controllato dai Serraino, nel novembre 1977.
Alla morte di Francesco Serraino secondo gli investigatori subentrarono nelle posizioni di comando i fratelli Paolo (classe 1942) e Domenico (classe 1945). Il passaggio di consegne trova un autorevole riscontro nei procedimenti penali "Santa Barbara", "De Stefano+35" e "Omicidio Ligato", nei quali i due fratelli vengono indicati come capi dell'omonima consorteria.
Particolarmente significativo del clima vissuto in Reggio Calabria negli anni 80/inizio anni ’90, l’incipit della sentenza resa in appello nell’ambito del procedimento penale sull’omicidio di Lodovico Ligato, ex deputato della Dc e presidente delle Ferrovie dello Stato. I giudici della locale Corte di Assise di Appello osservavano: “…Particolare importanza acquistano in questa fase dell’ indagine – anche in relazione a quanto di qui a poco si dirà – le statuizioni contenute nella citata sentenza (n. 7/93 reg. gen. Corte d’ Assise d’ Appello di Reggio Calabria, contro Imerti Antonino + 38) del processo denominato Santa Barbara (dal giorno in cui scattò l'operazione con gli arresti: 4 dicembre 1990), che riguarda quattro su sei degli attuali imputati. In sintesi, in essa si affermava (capo S della rubrica) la esistenza di una “associazione armata di tipo mafioso”, operante “in Reggio Calabria e zone limitrofe fino al 24-11-1990”, nella quale Pasquale Condello, Paolo Serraino e Diego Rosmini (senior) erano accusati di aver “promosso, organizzato e diretto l’ attività degli altri compartecipi”.
Veniva in definitiva delineata una struttura parabellica che operava in semiclandestinità, in cui era invalso l'uso di un linguaggio criptico con largo impiego di pseudonimi per mascherare l'identità delle persone a cui veniva di volta in volta fatto riferimento. Le azioni criminali in città erano decise dai capi storici Pasquale Condello, Diego Rosmini e Paolo Serraino, che si riunivano in gran segreto.
I PRIMI SEGNALI
Disegnato il profilo dei Serraino, inseriamoli all’interno del procedimento Epilogo che vede alla sbarra alcuni presunti affiliati alla consorteria mafiosa accusati (almeno inizialmente poi irruppe Nino Lo Giudice che si autoaccusò di tutto quanto accadde a Reggio Calabria negli ultimi anni, ivi incluse le morie di pesci nello Stretto e la rarefazione del fenomeno della Fata Morgana) di essere collegati all’attentato della notte tra il 2 e il 3 gennaio alla Procura generale di Reggio Calabria.
A fine febbraio, in udienza, i difensori di Maurizio Cortese, presunto general manager delle nuove leve del sodalizio, avevano palesato alcune ombre, sospetti, depistaggi, chiamateli come volete, relativamente a quell’attentato.
E che ti fanno i due legali? Sparano la “bomba” processuale ben sapendo che le possibilità di incassare il risultato sono più basse di quelle che un cammello passi attraverso la cruna di un ago: invocano cioè l'audizione dei magistrati Pignatone Giuseppe (ex capo della Procura), Salvatore Di Landro (Procuratore generale), dell'ex capo della Squadra mobile, Cortese Renato, del commercialista agente dei servizi forse si forse no Giovanni Zumbo, dell’allora presidente della Commissione parlamentare antimafia, Beppe Pisanu e di quello del Copasir (il Comitato di controllo sui servizi Segreti), Massimo D'Alema.
FASCICOLO A PARTE
E come risponde il 4 marzo in udienza il pm Giuseppe Lombardo alla “bomba” dibattimentale? “…Ho avuto cognizione in presa di retta di una denuncia – dirà nel corso dell’udie
nza – per cui ogni approfondimento va fatto in separata sede. Sono titolato a indagare, dato che Cortese è imputato solo qui a Reggio Calabria. In questo nuovo procedimento Cortese sarebbe potenzialmente persona offesa, per cui attendo indicazioni da lui o dai suoi avvocati ". Vale a dire: la Procura aprirà un fascicolo a parte e – visto il diniego delle nuove testimonianza del presidente del Tribunale Silvana Grasso – va avanti con il dibattimento che non può diventare un’indagine, di diversa natura, a cielo aperto.
L’unico bersaglio vero e raggiungibile dalla difesa dei Serraino è quello di Zumbo, personaggio borderline, che per i legali di Cortese potrebbe essere il “pupo” (certamente, dico io, non il “puparo”) del piano. Un piano in cui – va da se – dietro persone di spessore non eccelso come Zumbo, si muoverebbero in realtà menti raffinatissime che hanno “giocato” con i Serraino e dei quali i Serraino vogliono svelare il gioco. Anche perché – è verosimilmente il ragionamento dei Serraino – è mai possibile che la cosca De Stefano, vera anima mortale di Reggio Calabria con gli accoliti Condello e Tegano e il custode delle regole Libri, continui indisturbata nei suoi affari e a rimanere nel’ombra? Saremo pure scesi dalla montagna ma non abbiamo più la pietra al collo! Non vorremmo – continuo a ipotizzare il ragionamento dei Serraino – che quella spartizione affaristica che ci vide una volta perdenti ed esclusi anche dalle briciole prosegua indisturbata solo perché i De Stefano da 20 anni almeno a questa parte hanno intessuto rapporti con lo Stato marcio, i servizi deviati, la magistratura corrotta, hanno pianificato e creato carriere politiche e professionistiche di livello e hanno comprato a mani basse senza guardare al prezzo. Eh no, mo basta! Esistiamo anche noi poffarbacco!
Inevitabilmente, dunque, il processo celebrato contro la cosca Serraino si intreccia con quello che si sta celebrando a Catanzaro, dove sono imputati i membri della cosca Lo Giudice, in cui il fido Nino si è autoaccusato . Unire i due procedimenti in uno solo? Impossibile. Almeno così pare.
A SORPRESA
A sorpresa, il 18 marzo, in apertura della nuova udienza, gli imputati Francesco Tomasello, Giovanni Siclari, Demetrio Serraino, Fabio Giardiniere e, ovviamente, Maurizio Cortese ma non il presunto boss Alessandro Serraino, sfilano uno dopo l’alto per protestare contro la decisione di non far sfilare quei test dai cognomi altisonanti.
Avrebbero – il condizionale è d’obbligo – preso una decisione storica: fare lo sciopero della fame contro quella scelta del Tribunale.
«Non mi sento sereno perché non sono stati accettati i testimoni da noi proposti, quindi non ci è garantito pienamente il diritto alla difesa»: come racconta Alessia Candito nella sua cronaca su www.corrieredellacalabria.it, è quanto dichiara Francesco Tomasello. Più o meno le stesse parole useranno Giovanni Siclari e Fabio Giardiniere, Demetrio Serraino, che pur non potendo aderire alla protesta «per ragioni di salute», si dichiara solidale con «i ragazzi» perché a lui «interessa la verità, se la famiglia Serraino in passato ha sbagliato, ha sempre pagato. Non capiamo perché non sono stati accettati i testi che avrebbero provato il depistaggio nei nostri confronti».
Maurizio Cortese è il più loquace e tocca a lui spiegare il dettaglio della protesta. «Non vogliamo forzare la mano ai giudici, ma per noi è importante chiarire perché siamo stati accusati, chi ha deciso di puntare su di noi. Ho letto personalmente, per sette ore al giorno, le carte del processo di Catanzaro e quello che ho letto non mi fa sentire sereno. Quelli sono i veri mafiosi. Quelle fonti confidenziali che ci hanno fatto arrestare», dice Cortese che ha anche chiesto di essere sentito dal procuratore capo di Catanzaro, Vincenzo Lombardo nell'ambito dell'indagine catanzarese sulle bombe. «Dopo, io mi rendo disponibile anche a farmi sentire dal pm Giuseppe Lombardo che ci sta facendo il processo qua a Reggio, ma per noi è importante capire chi ha puntato su di noi, se effettivamente c'è stato un depistaggio», aggiunge infine Cortese.
IL MESSAGGIO
Raccontata la “trama” di quanto è accaduto, limitarsi a questo significherebbe “cristallizzare” la protesta, senza leggerla in filigrana.
Ebbene se seguite quel che scrivo da anni avrete capito che in Calabria e a Reggio in particolare manca spesso (e volontariamente) la capacità di collegare alcuni anelli o, se preferite, la capacità di mettere al proprio posto alcune tessere che sono a disposizione nel complesso scacchiere. Manca – in altre parole – la capacità di allontanarsi dal quadro per vederlo nella sua interezza. Anelli – voglio essere ben chiaro – tutti da verificare e per questo, intelligentemente, il pm Lombardo ha aperto un fascicolo a parte.
Ebbene con la mossa dello sciopero (vero, presunto o falso che sia) i Serraino vogliono svelare i pupari che rendono credibile che dietro la macchina imbottita di armi fatta trovare in Via Ravagnese, nella zona aeroportuale di Reggio, lungo il percorso che avrebbe dovuto compiere il 21 gennaio 2010 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ci fosse la regia di Zumbo e invece, dietro l’attentato della notte del 3 gennaio, quella stessa regia sia esclusa. Se depistaggio ci fu il 21 gennaio – questo è il ragionamento verosimile dei Serraino – perché escludere, per mano degli stessi autori, un altro depistaggio? E a quali fini?
Per questo il confronto che i Serraino vogliono mettere radicalmente in campo è proprio con quello Zumbo che rappresenta un anello di congiunzione ormai svelato tra ambienti malavitosi e ambienti deviati dello Stato marcio.
E il chiodo – questo potrebbe essere il ragionamento dei Serraino – va battuto finché è caldo, visto che il 4 marzo il Tribunale di Reggio Calabria ha inflitto pene pesantissime a Giovanni Zumbo, al boss Giovanni Ficara e a Demetrio Praticò proprio per il ritrovamento delle armi il 21 gennaio 2010. Il collegio presieduto da Olga Tarzia ha condannato Zumbo, la cosiddetta “talpa'' a 16 anni e 8 mesi di reclusione, Giovanni Ficara a 11 anni e 6 mesi, Demetrio Praticò a 15 anni e 8 mesi al termine del processo Piccolo carro. Secondo quanto emerso dalle indagini della Dda di Reggio Calabria, il ritrovamento fu una messinscena ordita da Giovanni Ficara per mettere in cattiva luce il cugino Pino Ficara, sul quale sarebbe dovuta ricadere la responsabilità. L'informazione sull’auto che conteneva le
armi era stata veicolata da Zumbo ai Carabinieri.
LA LETTERA
Ricordiamo che i Ficara e i Serraino si sono massacrati negli anni a colpa di bazooka, forse i veri che hanno davvero sparato a Reggio Calabria, visto che con un bellissimo scoop il bravo collega Consolato Minniti, due settimane fa su Calabria Ora, ha svelato finalmente non tanto le foto del bazooka fatto trovare al Cedir il 5 ottobre 2010 quanto i dubbi sul fatto che quel bazooka (come sostenuto) abbia potuto sparare poco prima il ritrovamento. Un’altra manina dello Stato marcio deviato? A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca.
Detto e ribadito che Ficara, Latella, Serraino etc sono cosche che vanno rase al suolo a colpi di indagini e sentenze per liberare la città di Reggio dal cancro della ‘ndrangheta, vorrei ricordare che – con insolita e sicuramente studiata tempestività – il 23 gennaio 2010 (vale a dire due giorni dopo il ritrovamento delle armi) accadde qualcosa di insolito.
Il 23 gennaio Calabria Ora pubblicò infatti una lettera di Maria Consiglia Latella, madre del capocosca ergastolano Vincenzo Ficara, la quale dice sostanzialmente che i Ficara-Latella si chiamano immediatamente fuori dall’”infamità” dell’auto imbottita di armi ed esplosivi i giorno della visita di Napolitano. Una dissociazione diretta, immediata. Vero, falso, verosimile? Non sta a me appurarlo. Ma la lettera è un fatto. E un fatto è che il processo in primo grado ha appurato il depistaggio e il coinvolgimento di Zumbo.
Ecco il testo della lettera : «La sottoscritta Latella Maria Consiglia, nata a Reggio Calabria il 6/6/1943, avendo appreso in data odierna, notizie giornalistiche apparse sia sul sito tgcom.mediaset.it-cronaca nonché sul sito reggiotv concernente un presunto collegamento fra la famiglia Ficara-Latella e il sig. Nocera Francesco, arrestato per l’auto ritrovata in Reggio Calabria alla Via Ravagnese sulla quale i Carabinieri rinvenivano armi ed esplosivo, intende precisare quanto segue:
Al riguardo si rappresenta la ferma e totale disapprovazione da parte dei familiari tutti della scrivente al contenuto della notizia Ansa tanto infondata quanto gratuita posto che mai alcun collegamento è emerso tra tale Nocera Francesco e le vicissitudini della famiglia Latella-Ficara. Nessun componente della famiglia della scrivente conosce o ha mai conosciuto il predetto Nocera Francesco così come da nessun atto giudiziario è mai emerso un avvicinamento dello stesso ai Latella-Ficara. La scrivente certa del buon operato degli organi di Polizia e della magistratura che certamente faranno chiarezza sull’arresto del Nocera Francesco e sul ritrovamento dell’autovettura carica di armi ed esplosivo, attende fiduciosa l’esito di tali indagini affinché venga provata la totale estraneità della famiglia Latella-Ficara a tale infame gesto».
Ora non resta che aspettare la prossima mossa: Di certo la partita a scacchi non è terminata e – statene certi – la scacchiera si animerà ancora.
2- the end (la precedente puntata è stata pubblicata il 28 marzo)
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