Posso riflettere con voi a voce alta? Bene e allora lo faccio.
Dando per scontata una e una sola cosa – vale a dire che Cosa nostra ma ancor prima il sistema criminale mafioso-borghese di cui si alimenta e viene alimentata – vogliono Nino Di Matteo e i pm della trattativa mafia-Cosa nostra morti, ci sono troppe cose che non tornano nell’orgia mediatica che in questi ultimi giorni sta riempiendo pagine di giornali, schermi del web e televisori.
Un’orgia mediatica in cui si sovrappongono incessantemente le immagini e di dialoghi di Totò Riina che passeggia con il presunto boss della Sacra Corona Unita Alberto Lorusso e che con lui si scambia confidenze e, soprattutto, anatemi e desideri sanguinari e stragisti di morte contro Di Matteo e il pool palermitano.
Debbo dire, onestamente, che di questa vicenda non mi torna quasi nulla al netto – ripeto – del fatto che il processo (e ancor prima quello a Mario Mori) è un dito nella piaga putrescente dello Stato marcio e corrotto e che dunque il sistema criminale voglia Nino Di Matteo morto e sepolto sotto tre metri di terra. E al netto del fatto che ancor più putrescente è il mare di melma che Di Matteo e i colleghi potrebbero (come mi auguro) scoperchiare nelle indagini sul periodo a cavallo delle stragi, che si legano con il lavoro dei loro colleghi reggini, nisseni e catanesi.
UNO STILE DI VITA INTERROTTO
Non mi torna quasi nulla perché non solo Cosa nostra ma – a maggior ragione – il sistema criminale che ne rappresenta la sovrastruttura, è e sono abituati (da sempre) a operare nell’ombra e nei silenzi spazio-temporali che l’assenza di un’opinione pubblica pronta a mobilitarsi concede loro.
La spettacolarizzazione, la mediaticità, la condivisione telematica e internettiana, l’orgia da social network non rientrano e non possono rientrare nel dna di una mafia (una qualunque) e di un sistema criminale che, al contrario, hanno nella segretezza di stampo massonico e/o nucleico familiare la loro ragion d’essere.
Tutto questo penso, dico e scrivo perché Totò Riina, devastante mafioso dalla favella inaspettatamente sciolta, non può non sapere che ogni respiro che emana è (da quando vive in carcere, mica da ieri!) intercettato, captato e studiato come manco alla Nasa. Non può non sapere che ogni movimento che compie all’interno del carcere – teoricamente al regime duro, in pratica fa quel che gli pare con i codetenuti – viene plasticamente montato e rimontato alla moviola come manco Maurizio Pistocchi a Sportmediaset. Non può non sapere che ogni parola espressa o non detta viene scannerizzata e studiata neppure fossimo a Guantanamo. Non può non sapere che qualunque persona lo avvicini – fosse anche la pessima anima resuscitata di Al Capone – lo fa con secondi fini. Si badi bene: fini sconosciuti o conosciuti perché ai boss in carcere nulla e sottolineo nulla sfugge. Il 41bis è uno schermo perforabile come il burro e un boss del calibro di Riina sa tutto (anche) di chi lo avvicina ancor prima che questi possa pensare di avvicinarlo. E – soprattutto – non può non sapere che per un mafioso di razza e di sangue come lui l’omertà è legge e sangue. E se (apparentemente) l’omertà non viene rispettata è perché così deve essere.
Riina parla, parla, parla e passeggia, passeggia, passeggia…e riparla, riparla, riparla…A proposito: ma al “carcere duro” non vengono inibite anche l’ora d’aria e le passeggiate in comune con altri detenuti altrettanto “duri”? Se così è come mai Riina scarrozzava allegramente su e giù per il passeggio in allegra compagnia?
Ma torniamo al tema. Mi viene dunque da pensare che la favella pronta e volgare (si esprime infatti in dialetto) sia voluta e condivisa.
Questo è il punto: condivisa. Ma da chi? E perché?
Da quel sistema criminale (straordinariamente riassunto negli anni Novanta da Roberto Scarpinato) che cela le sue trame ma al popolo dà quel che il popolo bue vuole: il malvagio (il solo Riina e la cupola di Cosa nostra) che vuole abbattere il buono (Di Matteo e i pm Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, uomini e pm meravigliosi di fronte ai quali l’Italia intera dovrebbe togliersi mille volte il cappello).
La realtà è più complessa, dunque, e credo che capiremo (se lo capiremo) tra molto tempo quel che sta(va) accadendo in quei passeggi del carcere milanese di Opera dove un boia mafioso e un praticante pugliese che però della Sicilia sapeva e voleva sapere, passeggiavano e discutevano, discutevano e passeggiavano.
La mia sensazione (in vero non solo la mia) è che Lorusso dovesse accostare il mastro Riina, accondiscendente alla bisogna. Per conto di chi e perché è difficile dirlo così come è difficile capire quali siano i messaggi che Riina – sapendo di essere vivisezionato da “cimici”, “talpe” visive e audiovisive e chissà quali altri animali della tecnologia giudiziaria – sta mandando a quel sistema criminale esterno che con lui è cresciuto e si è alimentato. Magari messaggi condivisi.
LEADERSHIP SI O NO
Sotto questo ultimo aspetto vedo che i colleghi si stanno sbizzarrendo, quando sarebbe più umile e credibile dire che è impossibile saperlo. Si susseguono anche le analisi sulla vera, presunta o interrotta leadership di Riina. Per il momento io mi atterrei a tre dati di fatto oggettivi: 1) Riina non è mai stato rimpiazzato al vertice della commissione provinciale, la cabina di regia che per una lunga stagione è stata la vera forza di Cosa nostra. Dal 2008 a oggi ci sono stati almeno due tentativi – andati a vuoto – di ricostituire la cupola che, formalmente, non si riunirebbe dal 1993, quando venne arrestato; 2) anche nell’ultima relazione, la Dia scrive che la leadership a Trapani di Messina Denaro è «incontrastata e indiscussa» ma c’è da chiedersi a quale scopo Messina Denaro (che non avrebbe alcuna intenzione di diventare il “capo dei capi”) dovrebbe perorare una linea stragista. Forse solo per vendetta visto che il suo esercito è al lumicino, lui è braccato e il suo immenso patrimonio pressoché azzerato; 3) in uno stringato scambio di battute intercorso tra Giovanni Santangelo e Rosa Santangelo (rispettivamente fratello e sorella della madre del latitante) nell’ambito di un recentissimo colloquio del 27 novembre 2013 intercettato dalla sala ascolto della Procura di Palermo, Rosa Santangelo dichiara con riferimento, per la Dda di Palermo e per il Gip Maria Pino che ha frimato l’ordinanza, a Matteo Messina Denaro: «Lo informano! Lo informano! Lo tengono informato!». Ed ancora, con un’espressione che sintetizza efficacemente la nitida percezione del ruolo di assoluto rilievo che il latitante riveste in termini di continuità in seno a Cosa nostra, così si esprime Giovanni Santangelo: «
Rosa … vedi che lui comanda tutto Palermo, tutta la Sicilia di Trapani, tutta la provincia …». Lui, vale a dire Matteo Messina Denaro, comanda tutto…
CIO’ CHE MI COLPISCE
Ora, in questo contesto, in cui spesso noi giornalisti si sparla a proposito mentre Riina, sapendolo, parla a “pro-posito” (non si sa di chi), una cosa mi ha colpito e credo che dovrebbe colpire l’opinione pubblica tutta.
Il 14 novembre – così come si legge sulle cronache recentissime di valenti colleghi siciliani – gli inquirenti trascrivono l’ennesima intercettazione tra Riina e Lorusso.
I magistrati palermitani avevano deciso di manifestare la propria solidarietà presentandosi insieme in Tribunale con Di Matteo e i colleghi. Quella decisione però non era stata ancora ufficializzata, né tanto meno era stata rilanciata dalla stampa o dalla televisione (ho controllato anche io su Internet a tappeto le notizie di quei giorni ma nulla). Se ne sarebbe discusso solo su alcune mailing list interne al Palazzo di giustizia palermitano. Ciononostante Lorusso, proprio il 14 novembre, avvisa Riina: «…hanno detto che alla prossima udienza ci saranno tutti i pubblici ministeri all'udienza… saranno presenti tutti». E Riina annuisce: «Ah tutti».
Come hanno sottolineato molti colleghi l’informazione sulla (presunta e dico questo perché avrei voluto davvero vedere tutta questa compattezza dei pm a Palermo…) volontà di scendere a fianco di Di Matteo e dei suoi colleghi del pool al massimo era circolata tra mail interne al Palazzo di Giustizia.
Sui giornali, il giorno prima, si trovava infatti solo il comunicato stampa della Giunta esecutiva centrale dell’Anm spedito da Roma. Eccolo: «L’Associazione Nazionale Magistrati, alla luce delle notizie allarmanti diffuse dalla stampa, che riferiscono di nuove, gravi minacce di morte che sarebbero state rivolte nei confronti del Sostituto Procuratore Nino Di Matteo e degli altri colleghi della Procura di Palermo impegnati nella trattazione di delicati procedimenti, esprime ancora una volta forte vicinanza e solidarietà a loro e a tutti i magistrati particolarmente esposti nell'azione di contrasto alla criminalità organizzata, nella certezza che tali intimidazioni non potranno sottrarre loro serenità e determinazione nel quotidiano impegno di affermazione della legalità. L'Associazione auspica inoltre che venga adottata ogni cautela idonea a garantirne l'incolumità personale»
Nessuna traccia di discese in massa alla prima udienza utile sulla trattativa Stato-mafia o magari in altri contesti.
Ma anche se la notizia non fosse circolata per mail ma fosse stata solo oggetto di discussione tra colleghi negli uffici giudiziari del Palazzo, la domanda è: come cavolo faceva Lorusso a sapere in tempo pressoché reale e a comunicare a Riina la notizia, comunque riservata, che stava maturando nella testa dei magistrati palermitani?
Già questo basterebbe per solleticare una domanda: ma quale intelligence sta operando e con quali appoggi interni agli uffici giudiziari e no, ma soprattutto per conto di chi? Rectius: quante intelligence stanno lavorando e per conto di chi?
La domanda è rivolta a chi crede che il progetto vivido di eliminare Di Matteo, i pm palermitani con lui impegnati o quelli nisseni, passi davvero attraverso la sola mente bacata ma lucida dei boss di Cosa nostra e non anche da una regia perversa e pervertita nella quale, come in quel sistema criminale dipinto ma ahinoi non provato da Roberto Scarpinato, entrano apparati deviati dello Stato, professionisti infedeli e grembiuli sporchi ma onnipotenti.
Ricordo, con non chalance, che nelle stanze romane – crocevia di ogni decisione – che vogliono Di Matteo e i colleghi del pool palermitano morti, sanno benissimo che oggi più che mai, a Palermo, il passato si annoda con il presente ed il futuro dei fili tirati dai burattinai dei sistemi criminali. Ricordo, con eguale non chalance, che il pool palermitano non sta portando avanti i soli processi Mori-Obinu (ricorso in appello) e Stato-mafia ma anche una terza e riservatissima indagine (nella quale entrano anche le Procure di Reggio Calabria, Caltanissetta e Catania) destinata a riscrivere completamente le fasi della trattativa tra Stato e mafie (‘ndrangheta compresa) riportando indietro le lancette del tempo, ben prima del ‘92.
Quando si dice che non c’è futuro senza un passato…
r.galullo@ilsole24ore.com