Il dissequestro senza rinvio – ordinato il 15 aprile della VI sezione penale della Suprema Corte di Cassazione – di telefoni, utenze, pc, agende e pen drive del giornalista Consolato Minniti dell’Ora della Calabria, è la parte buona della notizia.
Quella cattiva, a mio giudizio, compete drammaticamente con la parte buona.
Ma andiamo per gradi.
Il 12 settembre 2013, sul Sole-24 Ore (a mia firma) e sull’allora Calabria Ora (a firma di Consolato Minniti) apparvero, senza alcun tipo di collegamento, due inchieste frutto della passione per libertà di stampa e dell’amore della professione, vissute come una prima pelle.
Scrivemmo per caso contemporaneamente ma ciascuno con una propria personale angolazione, servizi su alcuni documenti della Dna in relazione alla stagione delle stragi siciliane degli anni Novanta, che (evidentemente) tanto io quanto lui abbiamo avuto la possibilità di leggere. Come dimostrarono alcuni articoli comparsi successivamente (si veda quanto scritto a distanza di poche settimane sul Fatto Quotidiano) altrettanto evidentemente ed inequivocabilmente non eravamo stati i soli a leggerli nei mesi.
I soli – però – ad avere il coraggio di raccontarne subito i contenuti nel nome del diritto di cronaca, della libertà di stampa e del diritto di informazione dei lettori. Le notizie raccontate erano certe, verificate e, soprattutto, di uno straordinario e superiore interesse generale. Oserei dire di un interesse addirittura oltre i meri limiti geografici italiani.
La mia passione, quel giorno, non fu spenta (del tutto). Quella di Consolato sì.
La sera del 12 settembre gli sequestrarono infatti il suo mondo, frugando perfino nella rimessa dei genitori, e poco mancò che lo arrestassero in ceppi.
Nei giorni successivi, in giro per l’Italia, anche alcuni iscritti all’Albo dei giornalisti (!) si sbizzarrirono, chi invocando pari trattamento (ma vi rendete conto? Venivano invocati e auspicati, pure da parte di presunti colleghi, sequestri anche da parte della Procura di Milano nei miei confronti!), chi tagliandosi gli attributi umani o professionali (che non ha) affermando che, beh, Consolato Minniti se l’era andata a cercare. E che diavolo (scrivevano questi esseri) un giornalista deve darsi dei limiti! Le notizie, per Dio, si danno, ma autocensurandosi e con moderazione, per non disturbare i tanti manovratori in giro per i Palazzi grazie ai quali si sono costruiti o cercano di costruirsi inesistenti carriere giornalistiche e non solo! O magari si danno, ma solo quando sono “autorizzate” e “vidimate”! Questa è (per costoro, alcuni dei quali, ahimè, appartengono al mio stesso Ordine) la libertà di stampa! E' la fine della democrazia, signori miei, la fine…
Ricordo bene quella sera del 12 settembre. Piansi per una violazione che sentivo sulla mia pelle anche se la mia non era, come la sento ogni qualvolta (si veda il caso di Palermo che poi svilupperò) viene leso un diritto costituzionalmente garantito, quale la libertà di stampa, bene supremo della democrazia. Esattamente come ho pianto due giorni fa nel leggere quanto riportato dall’avvocato difensore del collega Consolato, Aurelio Chizzoniti, il quale con un comunicato stampa ha ricordato che la Corte, nel decidere, ha «stigmatizzato anche l’uso improprio dell’aggravante di cui all’art. 7 legge 203/91 alla quale spesso si ricorre per giustificare tutto e il contrario di tutto».
Sapete cos è l’articolo 7 della legge 203/91, cari lettori? Lo sapete? No? Ve lo dico io: l’aver agevolato un’associazione mafiosa. Capite, cari lettori? Aver dato una notizia certa, vera, verificata e di straordinario interesse generale, ancora oggi (rectius: oggi più che mai) è ritenuto un delitto degno di essere “caricato” dell’infamia peggiore che possa esistere per un Uomo! Aver cioè agevolato un’associazione mafiosa!
So cosa ha passato e sta ancora passando il collega Minniti e con lui quanti, oggi, da Milano a Palermo, da Roma a Bari, da Napoli a Torino, nel nome della libertà di stampa, stanno sopportando questa e altre infamie nel nome di quella libertà costituzionalmente garantita!
Le Procure di Reggio Calabria e Palermo, conoscendo alcuni autori delle firme al decreto di sequestro, lo hanno fatto in nome del diritto. Una parte del diritto, mi permetto educatamente di dire, solo una parte e oltretutto prevedibilmente soccombente di fronte ad un diritto superiore. Un altro diritto, quella della libertà di stampa, infatti, era stato (momentaneamente) spento.
Il 30 settembre il Tribunale della libertà di Reggio Calabria emise una sentenza che – per quanto mi riguarda – rappresenta il volto drammatico dell’episodio. I giudici rigettarono la richiesta di riesame contro il decreto di sequestro, con la motivazione che «nella vicenda devoluta sussistono in modo evidente assai stringenti esigenze investigative che impongono il mantenimento del sequestro probatorio, atteso che quanto posto sotto sequestro non solo risulta indispensabile al fine di accertare i fatti di reato oggetto di contestazione ma anche necessari ad impedire che vengano commessi ulteriori ed analoghi delitti», richiamando anche l’articolo 253 comma 1 del codice penale, che statuisce che «l’autorità giudiziaria dispone il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato per l’accertamento dei fatti».
A nulla valse, per i giudici del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria, la tonnellata di carte con le quali i-ne-qui-vo-ca-bil-men-te e in-con-tro-ver-ti-bil-men-te l’avvocato aveva dimostrato che altri Tribunali, numerose volte la stessa Cassazione e perfino la Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo, grazie alla Convezione europea dei diritti dell’uomo e della salvaguardia della libertà fondamentali (articolo 10), dal 1996 (sentza Goodwin controt Regno Unito) negli anni hanno respinto ogni tentativo di limitare i diritti dei giornalisti!
Eppure le sentenze di Strasburgo sono vincolanti per i giudici nazionali salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità.
Nulla da fare. Nulla.
Ora la Cassazione – in attesa del prossimo attentato alla libertà di stampa – ha riportato (ancora una volta) le cose nell’alveo naturale ma quello di cui non mi capacito (al di là di quanto scritto sinora che sarebbe già abbastanza per riempire un’enciclopedia) è il metro di giudizio abissalmente diverso in Procure e Tribunali che pure (fino a parola contraria e Bossi e Grillo permettendo) fanno parte dello stesso Paese.
Poche settimane fa il Tribunale del Riesame di Palermo ha infatti segnato ancora una volta una via di non ritorno di cui le Procure (così abili nel “passarsi” legali pratiche-bavaglio) non potranno non tener conto come e quanto le pronunce della Cassazione e della Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo.
Orbene, il 5 marzo 2014, Il Tribunale del riesame di Palermo (Giacomo Montalbano presidente, Gaeta
no Scaduti giudice relatore) si è pronunciato su una vicenda simile a quella descritta, che vedeva involontario protagonista il collega Riccardo Lo Verso che su www.livesicilia.it aveva dato la notizia di un incontro presso il carcere milanese di Opera di un pm palermitano con Vito Roberto Palazzolo, ventilando nel servizio la possibilità di una sua collaborazione con la Giustizia (cosa che, tra l’altro, si mormora da circa un anno).
Tralascio tutti i richiami dei giudici alla Suprema Corte e alla Corte di Cassazione che da soli bastavano a evitare qualunque tipo di invasività nel sequestro e veniamo a quanto scrivono i giudici a proposito delle garanzie da accordare alla stampa (si badi bene: non da contrattare o elemosinare ma da accordare), ricordando la storica sentenza della Cassazione 48587/2011 sui limiti all’interferenza rispetto ai diritti dei giornalisti. Ebbene, il «diritto del giornalista di proteggere le proprie fonti fa parte della liberta di “ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche”». Chiaro? «Senza ingerenze da parte delle autorità pubbliche», ricordano i giudici di Palermo, rammentando la garanzia assicurata dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il provvedimento di una qualunque autorità giudiziaria che dispone il sequestro di materiale posseduto da un giornalista, che può ricondurre alla individuazione delle fonti alle quali il reporter aveva garantito l’anonimato (e cosa altro sarebbero se non quanto contenuto in pc, cellulari, utenze, tablet, pen drive e via di questo passo?) può costituire una violazione della libertà di espressione garantita dalla Convenzione, anche perché pregiudica (sottolineano i giudici palermitani) la futura attività del giornalista e del giornale, «la cui reputazione sarebbe lesa anche agli occhi delle future fonti; un provvedimento di tal genere, si è affermato, non sarebbe compatibile con la Convenzione neanche nei casi in cui l’acquisizione di documenti possa condurre alla individuazione degli autori di altri reati; qualsiasi ingerenza nel diritto alla tutela delle fonti giornalistiche e delle informazioni atte a condurre alla loro identificazione, per non vulnerare la Convenzione, in quanto “prevista dalla legge”, deve essere accompagnata da garanzie proporzionate».
Il giudice (ma solo se ignora Strasburgo!) può ordinare al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni solo in determinate condizioni previste dalla legge. L’autorità giudiziaria (ignorando Strasburgo) può richiedere al giornalista l’atto, il documento o il file ritenuto necessario ai fini delle indagini ma a quel punto il giornalista ha la facoltà di scegliere se consegnare quanto richiesto oppure opporre il segreto professionale.
In caso di opposizione del segreto, l’autorità giudiziaria, se ha motivo di dubitare della fondatezza del segreto, provvede agli accertamenti necessari e, se questi danno esito negativo, dispone il sequestro (ma sempre ignorando Strasburgo!).
Nel caso del collega Lo Verso (e di Minniti, che oltretutto aveva immediatamente consegnato il documento “incriminato”) tutto questo è mancato (ordine di esibizione, opposizione del segreto, controlli e verifiche e solo da ultimo l’eventuale sequestro) previsto a tutela del segreto professionale. Al collega Lo Verso (e Minniti) era stata sottratta la “vita” con un’intollerabile e umiliante intrusione nella sfera professionale, vista la possibilità autogarantitasi dall’Autorità giudiziaria di scandagliare tutto il suo lavoro (di anni e anni) e di conoscere tutte le sue fonti.
A fronte di tutto ciò c’è da scandalizzarsi se il Tribunale del Riesame di Palermo ha annullato il decreto di sequestro della Procura?
A fronte di tutto ciò c’è da scandalizzarsi se la Cassazione ha (ancora una volta) richiamato i limiti all’intrusione nella vita di chi dà anima e corpo ad un principio costituzionalmente garantito e richiamato come fondamentale dalla stessa carta europea?
A fronte di tutto ciò c’è da scandalizzarsi di una cosa, cari lettori: che i metri di azione (nel caso della disposizione di un sequestro) e di giudizio (nel caso del riesame) siano così abissalmente lontani da una parte all’altra dell’Italia (e chissà perché Reggio Calabria fa sempre scuola) e debba essere necessario perdere mesi di vita e ricorrere alla Suprema Corte (se non addirittura a Strasburgo) per vedersi riconosciuto l’ovvio diritto a esercitare senza ingerenze il proprio mestiere.
A fronte di tutto ciò c’è da meravigliarsi che ci siano ancora persone che hanno voglia di fare questo straordinario e meraviglioso mestiere. Non per se stessi ma per un bene superiore che si chiama democrazia.
Buona Pasqua ma attenzione: la prossima settimana torno con una nuova puntata sulla libertà di stampa (negata).
r.galullo@ilsole24ore.com