Come spiegare l’inarrestabile cavalcata della ‘ndrangheta al nord con la “legge dei fortini”

Spigolando qua e la nelle pieghe della ponderosa relazione conclusiva della Commissione parlamentare antimafia si trovano spunti di interesse, curiosità o riflessione.

Da questo ultimo punto di vista appare molto interessante un tema sul quale già nel passato ho scritto su questo umile e umido blog ma sula quale vale la pena tornare perché, ancora oggi, c’è chi crede di essere al sicuro dalla pervasività delle mafie se risiede in un piccolo centro.

Un discorso che, sia chiaro, vale per il centro nord, perché nei piccoli centri del Sud (per gran parte) la mano della criminalità organizzata è pesantissima.

Orbene, nel paragrafo titolato “La colonizzazione mafiosa del nord: la legge dei fortini” si trova una sintesi pertinente degli studi presentati alla stessa Commissione parlamentare antimafia dal gruppo di studio dell’Università Statale di Milano capitanato dal professor Nando Dalla Chiesa.

La premessa della Commissione parlamentare è impeccabile: quando si ammette l’esistenza della mafia nel Nord Italia si tende a spiegarla con meccanismi quasi automatici, a loro modo ineluttabili. Le organizzazioni mafiose, si dice, dispongono di liquidità eccedenti le possibilità di investimento offerte dalle economie delle proprie regioni di origine. E dunque cercano sbocco altrove, nelle realtà più produttive e dinamiche del Paese, per investire le proprie ricchezze in Borsa, o per approfittare delle possibilità di movimento e di speculazione assicurate dalle moderne architetture finanziarie.

Altrettanto impeccabile la conclusione di questo ragionamento: e dove altro dovrebbero andare se non nelle grandi capitali finanziarie, immobiliari e commerciali del nord?

Attenzione: questo modo di rappresentare la geografia delle organizzazioni mafiose, e in particolare della ‘ndrangheta, nel nord – che pure ha fondamenta – produce in vero distorsioni nell’analisi e nell’interpretazione delle dinamiche in corso da ormai almeno 30 anni. L’avanzata dei clan calabresi, spiega infatti la Commissione parlamentare rifacendosi alle analisi della Statale, non ha seguito infatti tanto la legge delle metropoli del riciclaggio, ha seguito soprattutto quella che può essere chiamata la “legge dei fortini”.

La diffusione ‘ndranghetista nell’Italia settentrionale si è affermata a macchia di leopardo con una particolare predilezione per i comuni minori (“minori” in relazione ai contesti economico­demografici). Questi comuni risultano infatti più facilmente espugnabili e controllabili, ed esprimono normalmente basse capacità di resistenza alla colonizzazione.

«Rivedendo l’intera traiettoria dell’avanzata dei clan calabresi – scrive testualmente la Commissione – ci si rende conto che questi paesi o centri minori finiscono per svolgere, una volta espugnati, una funzione di capisaldi strategici distribuiti sul territorio. Costituiscono cioè un potente strumento di consolidamento degli interessi mafiosi e di radicamento stabile, dello stesso tipo, anche se non della stessa intensità storico­sociale, espresso in Calabria. Può valere per tutti l’esempio di Fino Mornasco, comune di quasi 10 mila abitanti in provincia di Como, ove si realizza una fortissima influenza della comunità di  Giffone,  provincia di  Catanzaro, dove  negli  anni  Novanta  era  stata  rilevata  una  locale  di ‘ndrangheta. Sulla base delle risultanze dell’operazione “Crimine Infinito” del 2010, questa locale sembrava non essere più operante, ma le indagini successive hanno invece confermato quella presenza, mettendo così l’accento proprio sul fenomeno della continuità del radicamento, anche dal punto di vista generazionale».

I centri minori diventano dunque postazioni fisse nel cammino della conquista, alla stregua delle stazioni di posta ai tempi delle diligenze, quartieri generali pronti ad accogliere le ritirate, trampolini di lancio per nuove avventure, snodi per gettare reti più ampie. Nella mappa in continuo aggiornamento dell’avanzata ‘ndranghetista, svolgono il ruolo delle casematte in una guerra a bassa intensità, che è contemporaneamente di movimento e di posizione.

Molto aulica come descrizione ma, debbo dire onestamente, rende l’idea come meglio non si potrebbe.

Sono anche i luoghi in cui si spingono più avanti le forme della colonizzazione, e se ne sperimentano di nuove. Non è casuale che siano proprio i comuni più piccoli quelli in cui si sono verificati i più numerosi attacchi alle libertà politiche dopo quelli alle libertà economiche. La violenza a bassa intensità, ossia contro le cose, che non esclude le intimidazioni alle persone, è di lunga data e assai frequente.

Il caso di Brescello

Giunti a questo punto la Commissione fa un esempio ormai diventato un classico: la situazione del comune di Brescello, 5.500 abitanti in provincia di Reggio Emilia, colonizzato dal clan cutrese Grande Aracri e per questo sciolto per mafia (il primo in Emilia­Romagna) nel 2016.

«In questo caso è visibile – si legge nella relazione – come Brescello abbia fatto da casamatta in un processo di conquista progressivo di tutta un’area di confine tra Emilia e Lombardia, che ha interessato in modo impressionante, oltre la provincia di Reggio Emilia, anche la provincia di Mantova».

Comuni come veri e propri fortini, dunque, che operano in rete per muovere consensi elettorali anche fuori dai propri confini o per fornire candidati in comuni di cui avviare la conquista, secondo una logica che si sta ripetendo oggi nell’hinterland a sud di Milano. Mentre l’opinione pubblica discute della forza finanziaria della ‘ndrangheta, ci dice uin altre parole la Commssione, il concreto sviluppo della forza dei clan segue la logica dei fortini: da lì si fanno varare piani di governo del territorio per le proprie imprese, si ottengono benevolenze in agenzie bancarie, si trovano professionisti disponibili a operare nell’economia illegale, si raccolgono voti per condizionare le amministrazione regionali e scalare gli interessi.

r.galullo@ilsole24ore.com

  • bartolo |

    ci voleva la potenza accademica della Bindi, della Università di Milano e della Commissione antimafia per capire questo?
    lo si poteva benissimo comprendere e prevenire dagli anni settanta quando la mattanza indiscriminata operata tra clan in lotta tra loro nelle quattro regioni meridionali unita, successivamente, dopo l’infame inerzia, dalla repressione indiscriminata dello stato, che migliaia di “scappati” avrebbero infettato i “fortini” nordici come per decenni avevano infettato, impunemente, quelli meridionali.
    Per non parlare della legge sui pentiti; norma studiata ad hoc, grazie alla non previsione della possibilità di dissociazione.

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