Chissà se il pm Stefano Luciani che il 10 novembre ha chiuso a Caltanissetta quella parte della requisitoria nel quarto processo per la strage di via D’Amelio in cui ha affrontato le ipotesi alternative sulla fase esecutiva della strage e all’eventuale coinvolgimento dei servizi segreti, ha mai letto il verbale dell’8 ottobre 2014 nel quale la Procura di Catanzaro, presso la Dia di Roma, ha sentito Gianfranco Donadio, già sostituto procuratore nazionale antimafia.
«Uno spunto utile – ha sostenuto il deputato Pd Davide Mattiello, tra i pochi che si batte come un leone per far approdare la questione stragi in Commissione e che ha acquisito il verbale, già depositato dai pm, agli atti della Commissione – per comprendere se ci siano e come agiscano tutt’ora i garanti di indicibili accordi».
Questo umile e umido blog ha avuto la possibilità di leggere quel verbale di informazioni assunte, depositato agli atti del processo istruito a Catanzaro per calunnia verso Donadio nei confronti di Nino Lo Giudice (a capo di una «pseduo ‘ndrina», «una ‘ndrina senza territorio» dirà letteralmente lo stesso Donadio alla Procura di Catanzaro) e questo stesso umile e umido blog si pone la domanda di cui sopra perché i contenuti di quel verbale sono interessanti per un cronista e per l’opinione pubblica tutta: raccontano un pezzo di lavoro di Donadio per ricucire la storia dei rapporti tra Cosa Nostra e ‘ndrangheta nel periodo delle stragi che hanno insanguinato l’Italia, sempre sotto la costante e attenta vigilanza dell’allora procuratore capo della Dnaa Pietro Grasso.
La stessa attività di impulso realizzata tra il 2008 e il 2013 da Donadio su mandato di Grasso – ricorda Mattiello – «è stata oggetto di un ricorso al Pg di Cassazione, firmato dai magistrati Sergio Lari e Giovani Salvi, che ad oggi risulta ancora pendente: non sarebbe opportuno definire anche questa vicenda tempestivamente?».
Ora – giusto per capire di cosa stiamo parlando – sarà lo stesso Donadio a dichiarare alla Procura di Catanzaro che gli atti di impulso investigativo della Dnaa in materia di stragi, nei confronti delle Procure italiane interessate, sono stati oltre 30. «Si è trattata di una azione costante e particolarmente intensa – dirà testualmente Donadio che ora è consulente della Commissione sul rapimento di Aldo Moro – era sostanzialmente il nostro core business».
Il lavoro di Donadio (sul quale non sarà questo umile e umido blog a giudicare e che dunque si limita ad una mero racconto di cronaca e informazione) segue un filo logico, partendo dalle dichiarazioni dei siciliani Giuseppe Graviano a Gaspare Spatuzza, secondo le quali «i calabresi si erano già mossi». Questa dichiarazione ha portato la Dnaa e il suo delegato Donadio a concentrarsi su una serie di eventi collocati tra la fine del ’93 e gli inizi del ’94, a partire dal duplice omicidio dei Carabinieri Vincenzo Garofalo e Antonino Fava avvenuto allo svincolo autostradale di Bagnara il 18 gennaio 1994.
La prima svolta arriva quando agli inizi dell’estate del 2012 giunge in Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dnaa) una nota della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria a firma di Michele Prestipino Giarritta. La nota ha in allegato una lettera scritta al computer apparentemente riferibile a Giuseppe Calabrò, attuale collaboratore di giustizia e riconosciuto dalla Giustizia come uno degli autori di quel duplice omicidio e indirizzata all’allora capo della Procura Pietro Grasso.
LETTERA MAI ARRIVATA IN DNA
Strano ma vero (anche se in Italia non c’è nulla di strano e lo vedremo anche con quanto racconterò domani), quella lettera non era mai arrivata alla Dnaa. E cosa dice Calabrò nella missiva? Il brav’ uomo (spero che si capisca l’ironia) riprende il tema del movente esterno, cioè di una azione suggerita e gestita da ambienti esterni alla ‘ndrangheta e si ricostruisce tutta la serie delittuosa nei confronti dei Carabinieri come un’azione in qualche modo inserita in scenari e momenti non immediatamente contestualizzabili a Reggio Calabria.
Bene. Il 27 novembre 2012, a Milano, presso la Dia, Donadio – sempre dietro rigida osservanza degli schemi dell’allora capo della Procura Grasso – si reca ad un colloquio investigativo con il brav’uomo. Sarà l’ultimo di una serie di colloqui, dopo quelli espletati il 18 settembre 2014 con un detenuto comune, nello stesso carcere di Calabrò, che addirittura avrebbe messo a disposizione dello stesso il computer sul quale scrivere la lettera e l’11 ottobre a Consolato Villani (ci ritornerò nelle prossime puntate).
CALABRO’ SA
E cosa succede? Succede che Calabrò entra nell’aula della Dia e gela tutti: «So per quale motivo sono stato convocato».
Calabrò riconosce come propria la lettera e anche se nessuno si preoccupa di capire per quale motivo non fosse mai arrivata in Dna, Donadio, rotto il ghiaccio per opera e virtù dello spirito di Calabrò, entra nel tema a lui delegato: l’individuazione di personaggi esterni alla ‘ndrina o alle ’ndrine negli anni bui di Reggio Calabria.
E chi è il soggetto che – ricostruisce Donadio – è in contatto con Nino Lo Giudice? Quel Giovanni Aiello – che tanto di fronte ai pm della Dda di Reggio Calabria quanto di fronte a quelli di Caltanissetta si avvarrà della facoltà di non rispondere in quanto dichiaratosi estraneo ai fatti contestati – e che per Donadio è «….un personaggio i cui profili criminali erano stati altri contesti e in altri scenari ampiamente visitati. Un personaggio appartenente ad ambienti dei servizi e ritenuto intraneo a vicende di grande significato».
Per il momento mi fermo qui ma domani proseguo.
r.galullo@ilsole24ore.com
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