Nelle udienze relative al processo Archi-Astrea tenute a Reggio Calabria il 31 gennaio e il 14 febbraio 2013, il collaboratore di giustizia reggino Antonino Fiume, incalzato dalle domande della pubblica accusa, ad un certo punto sbottò: «Era Giuseppe (De Stefano, ndr) che diceva, sempre utilizzava… “Questo ‘ndi l’amu a tiniri ‘mmucciatu”: cioè, “Questo dobbiamo cercare sempre di tenerlo più… più… meno in vista possibile”, perché la forza di alcune persone della ‘ndrangheta sta proprio in questo: che c’erano quelli riconosciuti… che io dico sempre la parola ingenuo… che era conosciuto, “uomo d’onore”, “killer”, quello che vogliamo. E poi c’era – diciamo – quest’altra categoria di persone, che, anche se non sparavano, erano dentro lo stesso, perché aiutavano i De Stefano in tutti quelli che erano discorsi economici ed erano tanti altri».
Quando c’è da fare «cose più grosse» le mafie fanno sempre riferimento ad un gruppo di “riservati” e “invisibili”. Di loro – e solo di loro – si possono fidare i capi della cupola mafiosa, che la governano con la quota parte di Servitori infedeli dello Stato, professionisti al soldo, politici allevati a santini e vangelo, massoni deviati e imprenditori collusi.
E’ quanto – anche – la Procura di Caltanissetta ha parzialmente ricostruito (pm facente funzioni Lia Sava e aggiunto Gabriele Paci, che hanno delegato le indagini alla Dia guidata dal colonnello Giuseppe Pisano) e il Gip Alessandra Bonaventura Giunta ha certificato, nel provvedimento che individua Matteo Messina Denaro come mandante delle stragi di Capaci e via D’Amelio.
LA SUPER COSA NOSTRA
A Messina Denaro è contestato il concorso morale, per aver aderito al piano stragista e alla sua attuazione, partecipando ad un «gruppo riservato» creato da Totò Riina e alla sue dirette dipendenze. Un gruppo di “riservati” disposto a tutto pur di uccidere i nemici giurati di Cosa nostra: in primis Giovanni Falcone e Paolo Borsellino di cui, dopo l’assassinio del giudice, veniva temuta l’ascesa alla Procura nazionale antimafia.
Una “supercosa” composta da due gruppi di pretoriani di Riina che non doveva conoscere le mosse dell’altro. Di uno – oltre a Giuseppe Graviano, Fifetto Cannella, Lorenzo Tinnirello, Vincenzo Sinacori e Francesco Geraci – faceva parte proprio Messina Denaro. Fu questo gruppo – secondo la ricostruzione di investigatori e inquirenti coadiuvato ad un certo punto dal clan camorristico Nuvoletta – a partecipare alla missione romana (dal 24 febbraio al 5 marzo ’92, un mese dopo la sentenza nel maxiprocesso emessa il 30 gennaio) impegnata ad uccidere Falcone o, in subordine, l’allora ministro Claudio Martelli o personaggi invisi come Maurizio Costanzo, Enzo Biagi, Andrea Barbato, Michele Santoro e Pippo Baudo. Una “super Cosa nostra” che era il sintomo dell’ansia parossistica con la quale Riina perseguiva l’eliminazione di Falcone, strettamente collegata alla strategia di guerra allo Stato.
La ”supercosa”, come raccontò il pentito Vincenzo Sinacori il 25 maggio 1997, doveva essere la risposta alla “super procura antimafia” e doveva servire per «chiudere, nel senso di chiudere i discorsi, saperli sempre meno persone…sì era un gruppo che dipendeva solo ed esclusivamente da Riina. Era una super Cosa dentro Cosa nostra». In un precedente interrogatorio del 14 febbraio 1997, aveva dichiarato che «la struttura prevedeva la costituzione di gruppo molto ristretti i cui componenti non avevano alcun obbligo di informare delle loro azioni i rispettivi rappresentanti e capi mandamento».
COSA NUOVA
Guarda tu i casi della vita – quando si dice la coincidenza! – nello stesso periodo storico in cui in Sicilia nasceva, secondo quest’ultima ricostruzione nissena, la “super Cosa nostra”, in Calabria un manipolo di pm che poi per questo pagheranno anche costi elevati, tentò di dimostrare che la ‘ndrangheta cercava di riunirsi intorno a quella che venne chiamata “Cosa nuova”. Per la precisione, perché nella vita professionale bisogna essere precisi, “Cosa nuova” datava estate 1991.
La sentenza d’appello del processo Olimpia – del 19 gennaio 1999 – non riconobbe però l’immane sforzo dei pm (ricordo Vincenzo Macrì).
L’operazione Olimpia tentò di ricostruire l’esistenza di un vertice unitario della ‘ndrangheta calabrese ma – si legge nella sentenza di secondo grado relativa allo specifico capo di imputazione –: «Disattesa è stata, inoltre, anche l’ipotesi d’accusa di cui al capo F 18 relativa alla sussistenza di un organismo decisionale verticistico posto in essere a decorrere dall’estate 1991 (e, cioè, alla fine della guerra di mafia che ha insanguinato la città di Reggio Calabria per oltre cinque anni) all’interno dell’associazione mafiosa denominata Cosa Nuova, allo scopo di assumere le decisioni più importanti, di risolvere le più gravi controversie insorte tra i vari clan, di tenere i rapporti con altre organizzazioni criminali nazionali ed internazionali, con la massoneria e con le Istituzioni.
Sono, pertanto, stati assolti dal delitto anzidetto con la formula relativa all’insussistenza del fatto, applicata anche al deceduto Romeo Sebastiano, gli imputati Bellocco Umberto (cl. 33), Barbaro Francesco (cl. 27), Iamonte Natale (cl. 27), Araniti Santo (cl. 47), Cataldo Giuseppe (cl. 38), Ursino Luigi (cl. 33), Alvaro Domenico (cl. 24), Piromalli Giuseppe (cl. 21), Papalia Rocco (cl. 50), Pelle Antonio (cl. 32), Morabito Giuseppe (cl. 34), Serraino Paolo (cl. 42), Serraino Domenico (cl. 45), Nirta Antonio (cl. 1919), Libri Domenico (cl. 34), Tegano Giovanni (cl. 39), Mammoliti Antonio (cl. 37), Imerti Antonino (cl. 46), Condello Pasquale (cl. 50), Piromalli Gioacchino (cl. 34).
La decisione appellata ha sostenuto che, pur non potendosi escludere che dopo la fine del cruento conflitto i capi delle singole organizzazioni mafiose avessero avuto la possibilità di incontrarsi allo scopo di trattare affari criminali di comune interesse e per dirimere contrasti potenziali o in atto tra le cosche, purtuttavia non potesse dirsi raggiunta la prova che tali riunioni avessero avuto come presupposto la struttura organizzativa in contestazione, potendo le stesse essere state volute solo da alcuni clan e potendo anche essere state caratterizzate dal fatto che ciascuno dei partecipanti non si fosse sentito vincolato dalla deliberazione adottata dalla maggioranza, affermando, da ultimo, che probabilmente l’eco di tali simili riunioni era arrivato all’orecchio dei collaboratori in modo deformato, ossia istituzionalizzando in un ente mafioso inesistente gli stessi partecipanti».
In altre parole: non era vero che l’allegra brigata costituisse un organismo decisionale verticistico all’interno della associazione mafiosa, denominata “Cosa nuova”, con il compito di assumere le decisioni più importanti nell’ambito dell’attività criminale della stessa “Cosa nuova”, di risolvere le più gravi controversie insorte tra le varie cosche che ne facevano parte, di tenere i rapporti con le altre organizzazioni criminali nazionali e internazionali, con la massoneria e con le istituzioni, di gestire i più rilevanti affari di interesse per la associazione e, comunque, di conseguire profitti e vantaggi ingiusti, avvalendosi della forza intimidatrice che gli imputati mutuavano dalle cosche di appartenenza al cui vertice essi si trovavano, e delle conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano.
L’impianto accusatorio che si sorreggeva sulle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia e su di una intercettazione ambientale in casa della moglie del defunto boss Paolo de Stefano, ebbe dunque la peggio.
Visto che la verità giudiziaria non marcia – anzi! – di pari passo con l’informazione, le ricostruzioni giornalistiche e la libertà di stampa, ricordiamo quali furono le voci interne che si levarono per rivelare l’esistenza della “Cosa nuova” calabrese che – ripeto – nasceva (sarebbe nata, visto che la Giustizia all’epoca la cassò) nello stesso identico periodo storico in cui, in Sicilia, nasceva sotto l’ala corleonese la “Super Cosa nostra”.
LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI: FONTI
All’udienza del 22 novembre il collaboratore Francesco Fonti, appartenuto al gruppo Pelle-Romeo di San Luca e da anni defunto, riferì che sentì parlare, nel carcere milanese di Opera dove si trovava, del sorgere di una nuova organizzazione che comprendeva un gruppo ristretto di personaggi della ‘ndrangheta incaricato di assolvere a compiti nuovi, tra i quali anche quello di porre fine ad eventuali faide. Aggiunse che l’idea di istituire quella che chiamò una “Commissione” (altra coincidenza, visto che la Commissione è l’organo di governo interno di Cosa nostra) nonché l’indicazione dei suoi futuri componenti (Natale Iamonte, Domenico Libri, Domenico Alvaro, Giuseppe Piromalli, Giovanni Tegano, Giuseppe Morabito detto Peppe “tiradritto” di Africo, Antonio Pelle detto “gambazza” o forse al suo posto Sebastiano Romeo detto “stacco”) nacque nel corso della riunione tenutasi a Sinopoli per porre fine alla guerra mafiosa che imperversava a Reggio Calabria.
LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI: COSTA
All’udienza dell’8 novembre 1997 il collaboratore di giustizia Gaetano Costa, appartenuto alla malavita messinese ma con agganci nella realtà criminale reggina, ha innanzitutto evidenziato l’introduzione nella gerarchia mafiosa del nuovo grado (superiore a quello di sgarrista) di santista (carica che consentiva di aver rapporti con la massoneria , gli imprenditori e le istituzioni in genere) ed ha riferito che apprese nel 1992, mentre era ristretto nel carcere di Cuneo, da Mommo Raso del sorgere di un organismo di vertice denominato Cosa Nuova e incaricato di dirigere tutte le attività criminali della ‘ndrangheta, che si articolava in due “camere di controllo” , una della zona ionica (costituita da esponenti delle famiglie Nirta di San Luca, Morabito di Africo, Mammoliti di San Luca, Papalia e Barbaro di Platì) e una della tirrenica (ovvero della Piana costituita dai Tegano, Libri, Condello, Piromalli, Mammoliti, Mazzaferro, Pesce, Bellocco ed Alvaro).
LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI: SPARACIO
All’udienza del 14 novembre 1997 il collaboratore di giustizia Luigi Sparacio, premettendo di aver iniziato a collaborare dal gennaio del 1994 e di aver fatto parte di un clan messinese che ebbe contatti con la cosca De Stefano, riferì di aver appreso dell’esistenza di una struttura verticistica della ‘ndrangheta paragonabile a Cosa Nostra siciliana della quale faceva parte Giorgio De Stefano, persona del cui ruolo di capo dell’omonimo gruppo mafioso gli parlò tale De Blasi (compare di Paolo De Stefano) nel 1981 e Saraceno Vincenzo nel 1986. Quindi addirittura retrodatata rispetto al momento – ricordiamolo: estate 1991 – cristallizzato dall’accusa.
MA SEMPRE NEGLI STESSI ANNI…
La storia, a volte, si ripete. Quella giudiziaria non fa eccezione e va dato atto a chi – in questo momento, tra le altre, le procure di Caltanissetta e Reggio Calabria – continua, nonostante le sconfitte incassate in un’aula di Tribunale a cercare ostinatamente “l’altra metà della verità”. Quella che non è stato possibile dimostrare e per la quale tutti, coralmente, dovremmo tifare, anziché lasciare soli i pm. Quell’altra metà della verità in base alla quale le due mafie indigene – Cosa nostra e ‘ndrangheta – si muovono coralmente nel nome degli affari, della distruzione socioeconomica e sotto una regia unica che vede prevalere quella che, a seconda del periodo storico, è la più forte.
SISTEMI CRIMINALI
Il 21 marzo 2001 l’allora sostituto pm Roberto Scarpinato, dopo aver cercato pervicacemente le prove e aver passato la palla per la sua quota parte anche alla Procura di Reggio Calabria, scrisse a pagina 11 del decreto di archiviazione relativa all’indagine “sistemi criminali” che il “«sistema criminale» – che avrebbe dovuto azzerare il quadro politico istituzionale nazionale vigente fino al 1992 e destabilizzare il Paese per agevolare un golpe – «non ha costituito oggetto di questo procedimento nella sua interezza, essendo ovviamente estraneo all’oggetto delle investigazioni di questo Ufficio (anche per difetto di competenza) l’indagine sull’intero complesso delle organizzazioni mafiose operanti in Italia, delle altre organizzazioni illecite ad esse collegate e delle relazioni esterne di ciascuna di esse. Ciò che ha costituito oggetto di specifica verifica è, invece, il ruolo svolto, non solo da Cosa nostra ma anche da entità esterne alla stessa, nell’elaborazione della strategia del terrore messa in atto dal 1992, verificando, in particolare, se pezzi di questo sistema criminale abbiano costituito e/o fatto parte di un’associazione finalizzata all’eversione dell’ordine costituzionale mediante atti violenti». Il «sistema criminale», dunque «non è stato esaminato nella sua interezza». Quel sistema che, si legge testualmente a pagina 11, avrebbe dovuto «prendere il potere nel modo più idoneo alla realizzazione degli interessi illeciti mafiosi».
C’è un errore – a mio modesto parere e di cui ho già scritto nel passato – della procura di Palermo che diverrà successivamente frutto di incomprensioni ma anche di salvacondotti giudiziari. Un errore sul primo, vero, inequivocabile e trasparente atto di «azzeramento del quadro politico-istituzionale» e «destabilizzazione del Paese» a opera del “«sistema criminale».
La Procura di Palermo segna la prima tappa del disegno del «sistema criminale» nell’uccisione a Palermo, il 12 marzo 1992, alla vigilia delle elezioni politiche, dell’onorevole Salvo Lima, eurodeputato democristiano e capo della corrente andreottiana in Sicilia. A mio modestissimo avviso (e ovviamente è un’opinione, come tutte, fallace) quell’omicidio fu la seconda tappa: la prima fu quella dell’omicidio a Piale, il 9 agosto 1991, del giudice in Cassazione del maxiprocesso a Cosa nostra Antonino Scopelliti. Fu quell’omicidio a sconvolgere – per sempre nella vita democratica contemporanea – gli equilibri tra politica, mafie, massoneria deviata e Stato deviato.
Quell’omicidio fu verosimilmente il capolavoro strategico-politico proprio della supercosca De Stefano/Condello/Tegano/Libri. La repressione dello Stato si sarebbe – da quel momento in avanti – spostata su Cosa nostra lasciando campo libero al rampantismo politico ed eversivo (in primis) dei De Stefano.
Fatto sta che con l’archiviazione vennero messe da parte le posizioni di Licio Gelli, Stefano Menicacci, Stefano Delle Chaie, Rosario Cattafi, Filippo Battaglia, Salvatore Riina, Giuseppe e Filippo Graviano, Benedetto Santapaola, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Giovanni Di Stefano, Paolo Romeo e Giuseppe Mandalari.
SULLE ORME DI PALERMO
Fili carsici: ‘ndrangheta, Cosa nostra, massoneria deviata, eversione nera e servizi segreti deviati (accusati all’epoca di voler sovvertire l’ordine costituzionale).
Caso archiviato dunque ma, la storia, non si archivia. Resta.
E la storia, a pagina 11 di quella corposa e dolorosa richiesta di archiviazione del pm palermitano Scarpinato, svela ciò che doveva (avrebbe dovuto) essere recepito e seguito nelle altre Procure – a partire da quella di Reggio – ma non lo fu. Per tanti motivi. A partire da quello che sintetizza il pentito siciliano Tullio Canella (culo e camicia con il boss Leoluca Bagarella) nell’interrogatorio del 28 maggio 1997: “Ciancimino mi disse che a questo progetto (alla strategia politica di azzeramento e e destabilizzazione del Paese ndr) aveva collaborato fortemente la ‘ndrangheta calabrese. Specificò al riguardo: “devi sapere che la vera massoneria è in Calabria e che in Calabria hanno appoggi a livello dei servizi segreti”. Queste dichiarazioni di Ciancimino mi fecero capire meglio perché si era tenuta a Lamezia Terme la riunione di cui ho riferito in precedenti interrogatori e alla quale ho partecipato personalmente tra esponenti di Sicilia Libera e di altri movimenti leghisti o separatisti meridionali, riunione alla quale erano presenti anche diversi esponenti della Lega Nord”.
Inutile o quasi ricordare che la Dda di Reggio Calabria – con le indagini Meta, che non ha certo esaurito il suo effetto, Breakfast, Archi-Astrea ed altre ancora – sta faticosamente cercando di svelare l’altra “metà della verità” nella quale i “riservati”, ai quali viene garantito un acceso esclusivo nella cupola, governano molti processi criminali di questo Paese.
Così come non è un mistero per nessuno che le l’asse privilegiato tra le procure di Palermo, Caltanissetta e Reggio Calabria sta portando alla luce (come del resto provò a fare Scarpinato senza successo) nuove evidenze e tracce del sorgere contemporaneo di due entità nuove e riservate che si sono rese protagoniste – grazie a Servitori infedeli dello Stato, logge deviate e politica alimentata dai sistemi eversivi – in Sicilia e Calabria di pagine mortali per la democrazia italiana.
Super Cosa nostra e Cosa nuova – che nelle aule di giustizia tornano o si apprestano a tornare – ad un umile e umido blog come quello che leggete, non appaiono coincidenze in una fase storica (gli anni Novanta) nei quali gli scenari italiani vennero completamente stravolti sul fronte interno e internazionale.
Così come non appare una coincidenza il venire a galla di un nocciolo primario (ampiamente sconosciuto nelle sue ramificazioni) di “riservati” e “invisibili” tanto nell’una quanto nell’altra associazione mafiosa evoluta.
Non sappiamo quale sorte giudiziaria avranno queste evidenze (vecchie e nuove) ma è dovere della stampa libera darne conto e interrogarsi sulle pagine nere (e insolute) di questo Paese.
r.galullo@ilsole24ore.com