Mondo cane: 739 giorni di scorta civica al pm Nino Di Matteo (e al pool palermitano)

739 giorni vi sembran tanti? Vi sembran pochi? Dipende.

Sono – ad esempio – cinque giorni in più della media necessaria per un programma di trattamento di un tossicodipendente che fuma cocaina (”Cocaina e servizi per le dipendenze patologiche – Interventi e valutazioni in Emilia Romagna”, Franco Angeli editore, 2010).

Un altro esempio? Dalla data in cui è stata depositata la richiesta della cittadinanza, le autorità hanno 730 giorni per concludere la procedura per la concessione o il diniego sulla base alla valutazione fatta. Una volta trascorsi i 730 giorni, lo straniero può inviare solleciti alla pubblica amministrazione per richiedere la conclusione della pratica. Sarebbero, dunque, già nove giorni che uno straniero starebbe li a sollecitare la burocrazia per diventare un nostro connazionale.

L’ultimo esempio non è certo meno importante dei precedenti: 739 giorni addietro – per la precisione il 20 gennaio 2014 – è nato a Palermo un coordinamento di associazioni e liberi cittadini, all’indomani dell’anniversario del compleanno del giudice Paolo Borsellino. Si chiama “La scorta civica” ed è sorta per iniziativa del fratello, Salvatore Borsellino. Il suo scopo è promuovere una mobilitazione permanente di cittadini e cittadine a difesa del pm antimafia palermitano Antonino Di Matteo e degli altri magistrati minacciati di morte in Sicilia.

Un esempio del genere – in altre regioni – non sarebbe neppure ipotizzabile. La Sicilia – dal punto di vista della rivolta delle coscienze – continua ad essere un esempio illuminante per il resto del Paese. In Calabria, tanto per dirne una, sono all’anno zero e qualche fronda si agitò solo quando Giginiello  ‘o sciantoso – al secolo Luigi De Magistris – tentò di rivoltare il sistema calabrese come un calzino (ovviamente subito azzoppato dal sistema criminale che lì detta legge all’ombra di logge deviate).

Scrivo questo perché non mi sentirei apposto con la mia coscienza se non tornassi a scrivere – grazie a questo spunto che chiunque di voi può approfondire sul bel profilo facebook  del coordinamento “La scorta civica – dell’indifferenza, più volte denunciata dallo stesso pm, con la quale l’Italia intera vive (salvo, appunto, eccezioni) il dramma del pm Di Matteo.

Certo, per viverla – o anche solo per formarsi un giudizio – quella situazione gli italiani dovrebbero, quantomeno, conoscerla. E invece – nel migliore dei casi – i media la ignorano (e l’indifferenza, diceva mio nonno, è la maggiore forma di disprezzo) mentre nel peggiore la minimizzano o la stravolgono per dare fiato e voce a quanti ritengono che Di Matteo sia un folle visionario che non solo non merita alcuna scorta di Stato (che pure, tra mille peripezie, ha) ma che andrebbe relegato nel dimenticatoio.

Lo Stato, si diceva. Fa la sua minima parte anche se – mi risulta e magari sbaglio – che l’ultima risposta sui dispositivi di protezione del pm Di Matteo contro le minacce della criminalità organizzata sia del 4 giugno 2015. Quel giorno il sottosegretario all’Interno Filippo Bubbico, in risposta ad alcune interpellanze (dei senatori Bartolomeo Pepe, Elisa Bulgarelli, Francesco Campanella e Vincenzo Santangelo)  rispose che  «a partire dal giugno del 2013 il sostituto procuratore è divenuto destinatario di un apparato di protezione di 1° livello (cosiddetta protezione eccezionale). Tale dispositivo è anche integrato da un servizio di vigilanza fissa e dinamica dedicata presso l’abitazione, nonché da una vigilanza fissa in prossimità di quella dei genitori; misure a loro volta potenziate da impianti di videosorveglianza presso le predette residenze. Il complessivo assetto tutorio è stato rafforzato con l’impiego di un’ulteriore autovettura specializzata, nonché di due unità cinofile anti-esplosivo per la bonifica preventiva di entrambe le predette abitazioni (…) Pertanto, dallo scorso 8 maggio le misure di protezione a tutela del dottor Di Matteo sono state integrate dall’impiego del bomb jammer. Su un piano più generale, informo che tutti i magistrati della procura distrettuale antimafia e della procura generale della Repubblica presso la corte d’appello di Palermo, impegnati nella conduzione delle indagini e dei processi concernenti la cosiddetta trattativa, sono protetti attraverso dispositivi tutori commisurati alle specifiche esigenze cautelari singolarmente individuate e ai diversi livelli di accertata esposizione a rischio personale».

Da allora un lungo silenzio – rumorosissimo – rotto solo qualche giorno fa allorché (per l’ennesima volta e come era facile prevedere) lo Stato, nella figura del Csm, ha negato a Di Matteo di proseguire le sue indagini dalla Dnaa anziché a Palermo, dove ormai lo attende solo la morte. Fisica e/o psicologica. Entrambe – per Cosa nostra e per la cupola criminale che governa ampie parti di questo Paese – sarebbe l’ideale.

Eppure – in questo clima di pressoché totale isolamento nel quale Di Matteo vive e che coinvolge l’intero pool del cosiddetto processo sulla trattativa Stato-mafia – accade che una parte vitale di quello stesso Stato che spesso lo isola, si attivi per raccogliere testimonianze importanti. E’ il caso dei magistrati che, a conclusione dell’incidente probatorio nel procedimento sull’omicidio dell’agente Antonino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio, il 19 gennaio avrebbero raccolto da Vito Galatolo l’ennesima testimonianza del rischio che corre Di Matteo in primis.

Non so se Vito, figlio di Enzo Galatolo, capomafia dell’Acquasanta coinvolto nelle stragi del’92 e in omicidi eccellenti, sia tecnicamente un pentito. E non sta comunque a me e a nessuno al di fuori dell’ambito giudiziario – per lui come per tutti gli altri collaboratori di giustizia o aspiranti tali  – attribuire patenti di credibilità. Io diffido per natura dei pentiti (per quel che mi riguarda l’ultimo degno di questo nome e, comunque, sempre “parziale”, fu Tommaso Buscetta) ma mi domando cosa avrebbe da guadagnarci a ripetere quel che avrebbe raccontato nel corso di quell’incidente probatorio, vale a dire che «non c’è mai stato un contrordine, il progetto dell’attentato a Di Matteo è ancora operativo» (fonte: www.antimafiaduemila.it).

Galatolo, già a novembre 2014, quando cominciò a rispondere in videoconferenza dal carcere di Tolmezzo alle domande dei pm del pool, rivelò agli inquirenti il progetto di attentato Di Matteo, voluto, a suo dire, da personaggi esterni alla mafia.

Il 7 maggio 2015  tornerà ancora sull’argomento, con dovizia di particolari, raccontando anche che l’ordine era partito dal superlatitante Matteo Messina Denaro che, pochi giorni fa, è stato raggiunto dall’ennesimo ordine di arresto per essere considerato dalla Dda di Caltanissetta il mandante delle stragi di Capaci e via D’Amelio. «Per l’attentato a Di Matteo – disse come riporta ancora wwww.antimafiaduemila.it – non era come negli anni ’90, eravamo coperti. Alla riunione commentammo le lettere di Messina Denaro e Biondino parlò anche di questo processo in merito al fatto che Di Matteo si era portato troppo avanti. Io inizialmente non capii che si trattava di questo processo Stato-mafia. Avevamo l’ordine che non dovevamo presentarci con questa persona (ha detto Galatolo riferendosi all’artefice che avrebbe dovuto mettere a disposizione lo stesso Messina Denaro, ndr). Questo ci stupiva, il fatto che non dovevamo sapere chi era questo uomo di Messina Denaro. Noi capimmo che era esterna a Cosa nostra e che poteva essere qualcuno dello Stato che era interessato a fare questa strage. Secondo noi non era una cosa solo di Messina Denaro, c’era qualcuno al di fuori di Cosa Nostra. Questo serviva a far capire a tutti che la mafia era ancora viva. Era arrivato il via libera di Messina Denaro per fare questo attentato. A Cosa Nostra non conveniva fare queste cose, sarebbero tornati gli anni ’90 con gli arresti e l’esercito nelle strade, ma c’era l’ordine che si doveva fare. Il fatto delle coperture che erano presenti era proprio scritto nella lettera. Era scritto che facendo quell’attentato non ci dovevamo preoccupare perché questa volta non sarebbe stato come negli anni ‘90 e saremmo stati coperti. E quindi abbiamo accettato».

Ripeto per l’ennesima volta: ai pm l’obbligo riscontrare e trovare le prove ma, fatto sta, che non è solo l’ex boss dell’Acquasanta Vito Galatolo a parlare del piano di morte nei confronti del pm Nino Di Matteo. A darne notizia in un verbale – reso noto il 26 febbraio 2015 da antimafiaduemila.it – è anche il collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), ritenuto abbastanza attendibile – secondo quanto riportano le cronache locali – per le sue dichiarazioni su mafia e massoneria nel messinese.

Ai pm di Messina Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo ha raccontato che nell’aprile dello scorso anno alcuni boss siciliani rinchiusi nel carcere milanese di Opera si aspettavano «da un momento all’altro» la notizia del nuovo attentato. «Me lo disse il capomafia Nino Rotolo – avrebbe ha detto ai pm –. Era con lui che facevo socialità. Avevo sentito Rotolo che parlava di qualcosa di grave con Vincenzo Galatolo facevano riferimento a una persona che citavano con un nomignolo. Un giorno gli chiesi di saperne di più. E mi disse che Di Matteo doveva morire a tutti i costi».

Di fronte a tutto ciò, le tracce di solidarietà che i suoi colleghi sono riusciti a esprimergli negli ultimi due anni sono in questi due comunicati stampa dell’Anm . Giudicate voi. Il primo, del 13 novembre 2014 recita: «L’Anm, a fronte delle notizie secondo cui collaboratori di giustizia avrebbero rivelato che famiglie mafiose palermitane starebbero concretamente preparando attentati contro magistrati, rinnova a Nino Di Matteo e ai colleghi impegnati nel contrasto alla criminalità organizzata la sentita solidarietà e la vicinanza di tutti i magistrati italiani. Nel ringraziare quanti ad ogni livello si stanno adoperando per l’incolumità di giudici e pm, l’Anm chiede con forza che le Istituzioni mantengano stabilmente i dispositivi di sicurezza nella massima allerta e pongano al centro dell’agenda politica la lotta a tutte le mafie».

Il secondo, del 5 ottobre 2015, dice: «L’Associazione nazionale magistrati, avendo appreso che in questi giorni alcuni collaboratori di giustizia hanno riferito della presenza di tritolo a Palermo destinato a un attentato nei confronti del collega Nino Di Matteo, gli esprime forte e affettuosa  solidarietà, per impedire che la perdurante esposizione a rischio si tramuti in assuefazione e isolamento, e auspica che – per lui e per i colleghi che dovessero trovarsi in tali situazioni estreme – oltre alla protezione personale già  assicurata, ogni altro disagio connesso all’espletamento della funzione venga affrontato da tutti gli organi competenti in modo concreto, tempestivo e tale da limitare pregiudizi ulteriori».

Diciannove righe secche (nel 2013 c’erano stati altri 3 comunicati stampa) che forse meritavano miglior approfondimento e generale levata di scudi dell’intera categoria e dello stesso Csm.

Chissà, forse avrà pesato il fatto che Di Matteo, a fine 2012, si era dimesso polemicamente dalle cariche di presidente e componente della Giunta sezionale di Palermo dell’Anm, accusando di «collateralismo al potere» e «opportunismo politico» l’associazione che, con un comunicato stampa del 12 dicembre 2012, si era detta «sorpresa e amareggiata», respingendo le insinuazioni.

Chissà, forse avrà pesato il fatto che Di Matteo, se l’è dovuta vedere con lo stesso Csm. Il 2 aprile 2014 il Csm archiviò infatti all’unanimità l’azione disciplinare nei suoi confronti. Prosciolto da ogni accusa. Il procedimento (avviato il 19 marzo del 2013) riguardava una sua intervista rilasciata alla Repubblica il 22 giugno 2012. Secondo l’accusa il pm avrebbe rivelato l’esistenza delle telefonate intercettate tra l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino e l’allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, violando il dovere di riserbo a cui era tenuto.

Una scorta di Stato non basta.

Una scorta civica è tanto ma neppure quella basta. Serve per scuotere le coscienze ma troppe coscienze di Stato non si sentono minimamente scosse da questo appello.

r.galullo@ilsole24ore.com

  • Frances China |

    Pensare che una parte dello Stato non è ancora “sazia” del sangue di ci in nome dello Stato ha combattuto le mafie, fino alla morte, mi ripugna, mi addolora .
    Nino Di Matteo non deve essere lasciato solo..

  • bartolo |

    beh… galullo, non ho saputo difendere me stesso (anche se il nemico, troppo feroce, era il nulla) figuriamoci se posso difendere il popolo calabrese dall’accusa di inerzia rispetto al marcio che lo soffoca. comunque, a scuoterlo, ci sta già pensando il procuratore cafiero de raho con i suoi continui appelli alla riscossa. l’ultimo, stamattina alla conferenza stampa dopo l’arresto di due pericolosi latitanti della piana di gioia tauro. speriamo bene: non vorrei che alla fin fine ad ascoltare le sirene di de raho siano soltanto quei disperati che non avendo più nulla da perdere si accodano anch’essi, muniti di pugnale, al macello, dove il porco ndrangheta ormai (e per fortuna) da tempo giace squartato.

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