Pignatone: «Finora si è ritenuto che le mafie fossero un problema marginale a Roma» e Rosi Bindi porta al centro del problema i “palazzi”

Il 12 febbraio 2014 il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e il suo storico aggiunto Michele Prestipino Giarritta siedono davanti alla Commissione parlamentare antimafia.

La loro relazione spazia su molti temi e debbo dire che, da romano, ho condiviso la riflessione del senatore del M5S Mario Michele Giarrusso che, ad un certo punto ha dichiarato: «Sono un po’ sorpreso che si discuta ancora sul fatto che a Roma o nel Lazio ci sia la mafia, visto che risulta ormai un dato storico la presenza, oltre quarant'anni fa a Pomezia, di Frank “tre dita» Coppola, braccio destro di Lucky Luciano, che importò qui metodi e mafia».

Se Giarrusso è sorpreso, io sono sbalordito. Se ci si continua ad interrogare su questo tema vuol dire che (dai tempi della Magliana ad oggi) molto non ha funzionato nelle attenzioni poste da politica, organi investigativi, Forze dell’ordine e magistratura e moltissimo non ha funzionato nell’attenzione della cosiddetta società civile (ma perché, dovrebbe avere dignità anche quella “incivile”?). La stampa (almeno quella libera) al contrario, mi pare abbia continuamente scoperchiato il maleodorante calderone dei sistemi criminali a Roma.

Da romano e da italiano fa male, malissimo, leggere le parole di Pignatone: «Finora, invece, tutto sommato, si è ritenuto che quello delle organizzazioni mafiose fosse un problema marginale in una realtà come Roma».

Lui è arrivato il 19 marzo 2012 e la domanda dunque è: ma come è possibile e credibile che la penetrazione delle mafie sia stata ritenuta fino al 19 marzo 2012 un problema marginale? E, ancora più importante la domanda che segue: chi e perché lo ha eventualmente reso possibile?

Addirittura vitale la domanda che discende dalla seconda: sarà possibile invertire la tendenza? Da romano e da italiano ho paura di no. Non certo perché l’impegno di magistratura e forze dell’ordine manchi, anzi, ma per altri ordini di motivi.

I MOTIVI DI PREOCCUPAZIONE

Da romano so bene, benissimo, che la cultura mafiosa ha fatto devastanti passi in avanti nel cuore dei miei concittadini, da sempre avvezzi a triturare tutto.

Da romano, inoltre, so bene, benissimo, che la cultura mafiosa ha attecchito in maniera addirittura più veloce della penetrazione dei capitali mafiosi, che nella città eterna stanno distruggendo il libero mercato e la concorrenza in settori quali il commercio, la ristorazione, il turismo e molti servizi.

Da romano, so dunque bene, anzi benissimo, che la Capitale ha meno anticorpi di un tempo e il suo ventre – capace di digerire tutto nel corso dei millenni – è diventato ancor più molle e permeabile.

Da romano so bene, benissimo, che Istituzioni fondamentali come la scuola («la mafia non si combatte con un esercito ma con un esercito di insegnanti», insegnava Gesualdo Bufalino) è indietro anni luce nella percezione e dunque nella trasmissione delle conoscenza del fenomeno.

Da romano so bene, benissimo, che questo accade anche perché (fatte salve le eccezioni, che ho avuto la fortuna di avere in casa) le famiglie non sono alvei di dialogo e confronto su questi temi ma sono state (e credo siano ancora) allergiche al tema, che riguarda sempre e comunque il Sud e non invece (da sempre ragazzi, da sempre) la Capitale.

Da romano so bene, anzi benissimo, che quelle periferie che un tempo venivano tratteggiate con pazienza e benevolenza anche letteraria oggi sono “spugne” in grado di garantire una manovalanza a getto continuo.

Lo dico con la morte nel cuore ma nessuna città come Roma è in grado di amalgamare le culture mafiose ed elevarle a potere. Con il beneplacito, sia chiaro, di troppi.

IL MOTIVO PROFONDO

Il motivo profondo che, però, mi fa ritenere impari la lotta alle mafie ma, ancor più, alla cultura mafiosa, ai sistemi criminali e alla loro traduzione in una mafia 2.0, camaleontica e capace di farsi beffe di tutto e di tutti, è il fatto che Roma ha un virus che la sta distruggendo a sua colpevole (in)saputa: la politica che, da queste parti, viaggia ormai in coppia fissa (e non più sperimentale come ai tempi della Banda della Magliana) con poteri deviati dello Stato e logge coperte e deviate che sono il vero motore dell’elica mafiosa.

Tutta la politica mi chiederete? Ovvio che no ma credere che la percentuale collusa, corrotta o intranea sia oggi minore di un tempo vuol dire credere ancora, da adulti, a Babbo Natale. Roma è il punto di partenza e arrivo (ma se preferite di arrivo e partenza) dei moderni sistemi criminali, fatti di mafie che fungono da agenzie di servizio legate da un cordone ombelicale alla cupola mafiosa, laddove siedono, pezzi infedeli dei servizi segreti, magistrati e giudici corrotti, professionisti al soldo, preti sordi e ciechi, mondi dell’informazione venduti, politici allevati a vangelo (no, non quello degli evangelisti) ma quello delle mafie. Le “vecchie” organizzazioni criminali, nella “mafia 2.0. spa”, sono azioniste di minoranza.

Per questo fa male ma dà segni di speranza leggere che la presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosi Bindi, senza curarsi troppo di protocolli e procedure, ad un certo punto chiede rivolgendosi a Pignatone e Prestipino Giarritta: «Sorge la domanda su questa città: sul basso Lazio qualche luce c’è già stata, ma sulla città, sulla Capitale, a che livelli siamo in termini di compromissione della politica? Sono quelli locali o anche all'ombra dei palazzi della politica nazionale possono avvenire serenamente e tranquillamente queste cose? Questa è una domanda che dalle sue parole mi nasce spontanea».

Una domanda rimasta per ora senza risposta anche se io, una risposta l’avrei, diversa da quella, strettamente legata alle prove giudiziarie.
Se Roma è marcia lo Stato è infetto e se lo è, si deve ad un quadro da sistema criminale che non può certo essere ridotto al potere del narcotraffico o del riciclaggio del denaro sporco. Se a Milano la mafia è “anche” economia e finanza, a Roma è “anche” politica, con un’accezione ampia che abbraccia gangli vitali del potere. Insomma, i cosiddetti “palazzi”, messi al centro del dibattito da Rosi Bindi,  che non sono un’invenzione ma sono, sempre più spesso, la “grande bruttezza” di uno Stato e della sua Capitale amorale ancor prima che immorale.

A domani, con il proseguimento dell’analisi della Procura di Roma.

r.galullo@ilsole24ore.com

1 – to be continued