«Questo è il procedimento che ha affermato l’unitarietà della 'ndrangheta e ha tenuto sia in primo che in secondo grado. Si tratta di un’impostazione che in passato non è stata unanimemente condivisa, ma a partire da oggi si può dire che esiste una base giurisdizionale da cui partire, per cui non possiamo che definirla un successo»:
con la solita schiettezza, il capo della Procura di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, ha così commentato il 27 febbraio i 553 anni di carcere, le 33 condanne, le 20 assoluzioni confermate, le 24 condanne con inasprimenti di pena, le 23 condanne riviste al ribasso, le 7 assoluzioni riformate (mutate in condanne), le 8 nuove assoluzioni, le 2 pene ricalcolate in virtù della continuazione per un totale di 89 condanne e 28 assoluzioni, alle quali si aggiungono due non luogo a procedere per morte dell’imputato, attraverso le quali la sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria ha parzialmente riformato il giudizio di primo grado, pur confermando l’impianto accusatorio del maxiprocesso "Crimine”, scivolato con il gemello “Infinito” sull’asse Reggio Calabria-Milano.
La schiettezza del procuratore sulla “non unanime condivisione” del passato è un gesto straordinariamente semplice di vera “pacificazione” tra posizioni dialetticamente e concettualmente lontane. Di queste posizioni contrapposte negli anni ho raccontato con dovizia di particolari, non solo andando oltre la verità processuale in itinere (non è l’unica verità di cui un giornalista può e deve tenere conto pur tenendola sempre nel massimo e doveroso rispetto) ma spiegando che (personalmente) il dibattito sull’unitarietà della ‘ndrangheta mi appassionava nella misura in cui tutti gli sforzi investigativi e degli inquirenti fossero stati indirizzati a svelare quella cupola mafiosa, quel sistema criminale che (in Calabria come in Sicilia, in Campania come in Puglia ma ormai ovunque in Italia e nel mondo) rappresenta il motore, l’anima delle cosche e dei clan, “agenzie di servizio” della cinghia di trasmissione mafiosa.
Considero questa prova d’appello, concordando a pieno con Cafiero De Raho (ma ne ho già scritto, in vero, anticipandone il pensiero il 29 gennaio e forse questo tra qualche tempo darà la stura a qualche imbecille per congetturare una posizione preventivamente condivisa) un successo, perché finalmente, da questa base di partenza si può e si deve andare oltre (http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/processo-crimine-passa-dalla-corte-di-appello-di-reggio-calabria-il-punto-fermo-per-dare-la-caccia-a.html) .
Perché, vedete, se la ‘ndrangheta è unitaria allora lo è perché vive e si alimenta di quei pezzi che si celano dietro il sipario. Dietro quel tendone immaginario si nascondono – e l’ho scritto mille volte – innanzitutto servitori infedeli dello Stato (dalla magistratura alla Polizia, dai giudici ai Carabinieri, passando per dirigenti, funzionari e dipendenti che muovono le leve del potere o sanno come si schiacciano i bottone nelle stanze del potere), operatori dell’informazione a libro paga che fanno da grancassa, politici allevati a vangelo mafioso, uomini di Chiesa che hanno tradito la propria missione, (im)prenditori al riparo dalla concorrenza leale e dalle leggi di mercato, professionisti al soldo, uomini borderline dei servizi segreti, tutti appassionatamente al caldo di logge irregolari e deviate dove i grembiuli sporchi e i compassi storti prendono il posto di ciò che resta del fascino storico e contemporaneo (mai su di me esercitato) della libera muratoria.
E’ così – mi domando al netto delle verità giudiziarie che, ripeto allo sfinimento, non sono e non debbono rappresentare l’unica verità per un giornalista degno di questo nome – o non è così? Delle due l’una, tertium non datur.
Perché se non è cosi, allora continueremo a credere che le mafie (a partire dalla ‘ndrangheta) sono solo ed esclusivamente centri di potere affaristico e criminale che, nella loro scia, inciampano in mondi esterni (dalla politica all’economia, dalla finanza all’informazione, dalla Chiesa ai professionisti). In questa estemporanea e involontaria contaminazione le indagini giudiziarie incapperanno – di risulta – in politici, professionisti, servitori infedeli dello Stato, killer dell’informazione e via di questo passo.
Se così non è – e a mio giudizio, finché potrò esprimere liberamente un’opinione, del quale il blog rappresenta per un giornalista uno strumento principe, così è – allora ci vuole, prendendo l’abbrivo da questa sentenza, un percorso convergente rispetto a quello finora battuto (e che deve, dunque, essere ancora e pervicacemente battuto come è accaduto con le inchieste Crimine, Infinito, Minotauro, Maglio e via elencando sull’intera dorsale italiana).
Il pm è e deve essere il dominus (e non, invece, come spesso accade, il terminale) delle indagini di polizia giudiziaria e dunque le Procure (come un sol ufficio) debbono guidare le indagini alla ricerca di quei comportamenti messi in atto dai registi di quei sistemi criminali di cui le mafie sono parte in gioco. Politici corrotti, servitori infedeli dello Stato, professionisti al soldo, massoni deviati, non devono più o meno “casualmente” cadere nelle reti della Giustizia ma, con un’inversione a U epocale, si deve dar loro una caccia spietata nelle indagini investigative, quando notizie criminis e fili investigativi sapientemente intrecciati dal “dominus” in Procura, fanno emergere quei profili rimasti finora e troppo a lungo nell’ombra.
Politica, massoneria deviata, informazione al soldo o, peggio ancora, creata ad arte, servigi di uomini di Stato infedeli, in questi anni stravolto le regole del comune buon senso, del vivere civile e dell’idea di democrazia e di Stato di diritto in ampie parti del Sud e su per li rami del Nord Italia: i diritti sono diventati sempre più favori personali, le leggi di mercato sono state tramutate in regole di assistenzialismo protetto, la libertà di stampa, parola e opinione sono state vissute come le violazioni più grandi e intollerabili del “cemento mafioso”, vale a dire quell’omertà senza la quale le mafie non sopravviverebbero, la delegittimazione dei retti non è più un vizio ma è diventata una virtù e la ricerca della verità a tutti i costi (Palermo insegna) è diventato l’accontentarsi di una mezza bugia.
Per questo ora il momento che vive Reggio (ma lo stesso discorso, per analogia, può essere fatto per Palermo e Roma) è topico: se le mie antenne non si sbagliano (e, vi prego, anche in questo caso, lasciatemi sbagliare da solo) gli ambienti salottieri che finora sono rimasti dietro le quinte, dietro quel sipario, sanno che può (non è addetto che accada perché le forze centrifughe e centripete di sopravvivenza e autoconservazione stanno girando al massimo) arrivare il momento di cominciare a pagare dazio.
Per questo i segnali che arrivano da Crimine, Alta Tensione 2, Meta, Breakfast, o recentemente New Bridge (solo per citare quelli che mi girano in questo momento per la testa e senza contare quei fascicoli aperti o riaperti su vicende passate ma mai sopite e soprattutto mai scandagliate fino in fondo) sono di una sfida (spero) decisiva dello Stato alle mafie 2.0, ai loro sistemi criminali, che includono dalla
politica alla finanza in un unico enorme abbraccio.
Con ritardo, ma ce la può fare. Lo Stato proprio da Reggio può dare la scossa. Ringraziando quanto scoperto sull’asse Reggio Calabria dalle indagini Crimine e Infinito, andare avanti e oltre si può.
Io ci credo ma quel che dovrebbe rallegrare tutti è che ci crede anche la parte migliore dello Stato di Reggio Calabria, Roma e Palermo e quel che dovrebbe preoccupare tutti (investigatori, magistrati, giudici, me e chiunque tra i retti denuncia da sempre mettendoci la faccia per il bene supremo della sopravvivenza delle democrazia o quel che ne resta) è che le gabbie di allevamento dei sistemi criminali – le cosche De Stefano, Libri, Condello, i Corleonesi, le cosche di Cosa nostra palermitane che ruotano intorno a raffinate menti estranee alla cultura mafiosa di personaggi come Totò Riina e Binnu Provenzano, che ancora oggi stanno creando in batteria i loro campioni, come denuncia continuamente un pm come Roberto Scarpinato – sanno che il vento può cambiare. E sanno che qualcuno – tra Palermo e Reggio, passando per Caltanissetta e Catania ma ho la sensazione che il filo si stia snodando anche altrove, Roma per prima – sta provando a rileggere in un sol spartito le pagine più buie e devastanti della storia italiana.
Sta a tutti noi, persone rette e perbene (due aggettivi che non vanno più tanto di moda) supportare chi è alla ricerca della verità e vuole vedere cosa c’è davvero dietro quel sipario.
Personalmente, costi quel che costi. La libertà dai sistemi criminali, non ha prezzo.
r.galullo@ilsole24ore.com
(Si vedano anche http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/unitariet%C3%A0-della-ndrangheta-le-analisi-dei-pm-antimafia-de-bernardo-e-musar%C3%B2-e-le-lancette-mafiose-del-tempo.html, il 9 gennaio http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/lunitariet%C3%A0-della-ndrangheta-loligarchia-al-comando-secondo-lanalisi-dei-pm-antimafia-de-bernardo-e-musar%C3%B2.html, il 10 gennaio http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/i-pm-antimafia-de-bernardo-e-musar%C3%B2-sistemano-per-sempre-don-mico-oppedisano-non-%C3%A8-il-provenzano-della-calabria.html, il 14 gennaio http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/la-memoria-nel-processo-crimine-della-dda-di-reggio-calabria-e-il-detto-san-luca-regna-reggio-governa.html, il 16 gennaio http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/processo-criminedda-di-reggio-vuole-mettere-a-nudo-il-sistema-che-ha-rapporti-protegge-e-rafforza-la-ndrangheta.html; il 17 gennaio http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/processo-criminela-dda-di-reggio-calabria-apre-un-mondo-sul-sistema-zumbo-collaboratore-esterno-di-una-parte-del-si.html)