Cari lettori sto analizzando da alcuni giorni la minuziosa ricostruzione contenuta nelle 2.079 pagine di memoria depositate a fine 2013 dai pm della Dda di Reggio Calabria Antonio De Bernardo e Gianni Musarò nel processo d’appello Crimine. Non tutta ovviamente (gli spunti sono tantissimi e di livello) ma solo alcuni aspetti (rimando per questo anche al post di ieri e ieri l’altro http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/unitariet%C3%A0-della-ndrangheta-le-analisi-dei-pm-antimafia-de-bernardo-e-musar%C3%B2-e-le-lancette-mafiose-del-tempo.html e http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/lunitariet%C3%A0-della-ndrangheta-loligarchia-al-comando-secondo-lanalisi-dei-pm-antimafia-de-bernardo-e-musar%C3%B2.html) .
Ieri ci siamo lasciati con un dubbio. Il mio dubbio, sia ben chiaro, che da sempre esprimo e che (lo ripeto) soltanto i poveri di spirito, quelli in malafede o quelli animati da un distorto, velenoso e interessato animus pugnandi, in questi anni hanno scambiato per mancanza di rispetto per il lavoro della magistratura. Un’organizzazione così potente, globalmente potente come la ‘ndrangheta, può (poteva) essere retta da don Mico Oppedisano da Rosarno e da una struttura oligarchica fatta di suoi “replicanti”? Questa è la domanda delle domande, inutile girarci intorno.
La verità giudiziaria lo dirà (in primo grado ha già emesso un verdetto che l’accusa rappresentata dai pm De Bernardo e Musarò reputano insufficiente: 10 anni di carcere rispetto ai 20 chiesti per Domenico Oppedisano).
Non esiste solo lo verità giudiziaria, però. Esiste anche la lettura giornalistica di un fenomeno vieppiù raffinato, che a modesto avviso di chi scrive, si fa fatica a immaginare innanzitutto nelle mani di colui il quale – con amara ironia – ho spesso descritto come un “coltivatore di piantine”. Descrizione paradossale, forzata, pompata perché i paradossi, le forzature aiutano straordinariamente a far capire la differenza, le differenze nei confronti. Ma scoprirete che il copyright di quella espressione, non è il mio…
La differenza, le differenze che ho sempre legittimamente portato avanti (anche) con i paradossi erano, sono e saranno sempre, quelle tra un “venditore di piantine” o chi per lui (il discorso, infatti, non cambierebbe se ci fosse un altro soggetto al posto di don Mico, anche fosse, come prima di lui, il potente gambazza) e una raffinata cabina di regia della ‘ndrangheta 2.0 in cui le cosche (rappresentate anche da don Mico Oppedisano o chi per lui, prima e dopo il suo avvento) sono solo una componente di un puzzle criminal/borghese in cui siedono Stato deviato, professionisti al soldo, Chiesa corrotta e politica allevata da questa miscela esplosiva.
Legittimo e reale pensarlo e chiederselo? La legittimità la rivendico. Sulla realtà penso che neppure le indagini giudiziarie riusciranno a provarlo, in un’Italia che fa di tutto per remare contro chi – da Palermo a Caltanissetta, da Reggio a Milano – cerca di scoprirlo. In Italia chi vuole andare “oltre” muore. O fisicamente o, peggio ancora, moralmente attraverso il ricorso alla delegittimazione. Nel primo caso fa scuola Palermo. Nel secondo caso è Magnifica Rettrice Reggio Calabria.
Ma torniamo a don Mico Oppedisano.
Con puntualità, da pagina 76 della memoria, la ricostruzione dei due pm della Dda di Reggio Calabria, ci dice che don Mico Oppedisano non era un illustre sconosciuto, bensì un soggetto che ereditò la carica di Antonio Pelle, alias gambazza. Insomma, un pezzo da Novanta della ‘ndrangheta. «Se allora volessimo replicare con gli stessi argomenti difensivi – scrivono i pm da pagina 77 – potremmo dire che l’importanza del ruolo di capo-crimine si desume chiaramente dal fatto che tale carica era detenuta da Pelle Antonio cl. 32 e che il conferimento della stessa a Oppedisano Domenico fu accolta con rabbia dal figlio Pelle Giuseppe cl. 60».
Ma vi é di più, scrivono i pm. Le risultanze in atti dimostrano che Domenico Oppedisano é un vecchio “patriarca” della ‘ndrangheta, il cui nominativo compariva già nelle conversazioni captate nel corso del procedimento Armonia, quando però non si era riusciti ad identificarlo.
Domenico Oppedisano, per sua stessa ammissione, sostiene l’accusa (« … guardate, io… è da 62 anni… 64… però da 30 anni a questa parte che non è la pasta a livello della provincia»), praticamente da sempre è un elemento di vertice della ‘ndrangheta e, come riferito a G.A e D.F. il 31 agosto 2009, per molti anni era stato uomo di fiducia di Antonio Romeo (classe 1904, defunto e storico capomafia del locale di San Luca («A questi 30 che io vi dico, ne ho passati 22 / 23 con lui»).
A ben vedere, ruotiamo sempre intorno a San Luca e alla sua sfera di influenza (prodigiosa) ma andiamo avanti.
Le risultanze investigative acquisite hanno permesso di accertare, secondo l’accusa, che già prima del 19 agosto 2009 Domenico Oppedisano ricopriva una carica “a livello di provincia” ed era l’elemento di vertice della società di Rosarno.
La circostanza che Domenico Oppedisano ricoprisse un ruolo di vertice nella ‘ndrangheta già prima del 19 agosto 2009 trova conferma, sempre per l’accusa, in una conversazione tra presenti registrata in data 29 febbraio 2008 nell’ambito dell’indagine Infinito, nel corso della quale il capo-locale di Cormano parlava di Mico Oppedisano con il capo-locale di Bollate e lo definiva soggetto “responsabile della Provincia” e “capo locale di Rosarno”:
Dalle operazioni tecniche, inoltre, é emerso che Domenico Oppedisano, é un personaggio legato a personaggi di altissimo livello del mandamento tirrenico, come Vincenzo Pesce (classe ’59) e Domenico Alvaro (classe 24).
Vi é, infine, per l’accusa, un ulteriore elemento da evidenziare, che dimostra che Domenico Oppedisano fosse una persona di prestigio e di riconosciuto spessore all'interno dell'organizzazione: la lettera sequestratagli il 13 luglio 2010, al momento del suo arresto.
«Se vogliamo confrontarci con le risultanze processuali, allora, dobbiamo concludere nel senso che Oppedisano Domenico – si legge nella memoria depositata in appello – non é una testa di legno nominato capo-crimine per dare placare Pesce Vincenzo ed evitare discussioni, ma un personaggio di altissimo livello della 'ndrangheta, conosciuto in tutte le locali del mondo già da prima di ess
ere nominato capo-Crimine: per usare le parole degli stessi appartenenti all'organizzazione, era "il capo-locale di Rosarno", un "responsabile della Provincia", uno che "li tiene tutti".
Certo, era una persona anziana, e questo faceva sperare che lasciasse qualche "spiraglio di comando", come osservava Longo Bruno nel corso della conversazione del 2 novembre 2009, a riprova del fatto che il ruolo di capo-crimine non aveva un mero valore simbolico, ma ad esso erano connessi poteri e responsabilità».
I POTERI
Del resto, l’assunto secondo il quale al ruolo di capo crimine erano connessi poteri concreti e responsabilità, per l’accusa emerge già da una conversazione captata il 20 gennaio 2009, quando i più importanti affiliati della Lombardia si riunivano al Crossodromo di Cardano al Campo per discutere il da farsi. Nella circostanza il capo-locale di Limbiate, facendo esplicito riferimento alla possibilità che la carica di capo-crimine passasse dal mandamento jonico a quello tirrenico, affermò: «noi prendiamo disposizioni dal Crimine… dal responsabile del Crimine… fino adesso siamo andati a Platì perché i responsabili erano a Platì, se i responsabili li fanno alla Piana andiamo alla Piana…».
Altre attività di indagine eseguite negli anni successivi – si legge nella memoria – hanno confermato che Domenico Oppedisano é soggetto di indiscutibile levatura criminale, dotato di poteri e autorevolezza adeguati al ruolo apicale della ‘ndrangheta da esso ricoperto. Ci si riferisce – si legge ancora nella memoria – alle risultanze compendiate nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip. presso il Tribunale di Reggio Calabria il 6 luglio 2011 (Crimine 3), da cui emerge che a Domenico Oppedisano era stato riconosciuto un ruolo di vertice anche all’interno di un’associazione dedita al narcotraffico.
Per cui non é esatto dire, conclude l’accusa, che la nomina di Domenico Oppedisano abbia rappresentato un compromesso: il compromesso ha riguardato non la scelta della persona, ma del mandamento, ma una volta deciso che la carica spettava al mandamento tirrenico Domenico Oppedisano era il candidato naturale.
PERO’…
Fin qui la ricostruzione, puntuale, della Dda di Reggio Calabria.
La vita, però, come una catena, ha senso se tutti i giorni sono legati uno all’altro. Se un anello si slega dall’altro, la catena si spezza e diventa più corta e meno forte.
In questi anni, infatti, la figura di don Mico Oppedisano (e con esso quello della “Provincia”) è passata al vaglio di analisti di indubbia capacità critica e delle cui considerazioni non si può non tener conto e, alla fine, rimanere confusi.
Lo dico – ripeto – con spirito costruttivo e mettendo al bando gli eccessi dialettici che (io, anche, faccio ammenda) hanno contraddistinto la ricerca della verità sull’evoluzione ‘ndranghetista. Eccessi dialettici piovuti da ogni dove, che non devono far perdere di vista la mission di togliere la maschera odierna della ‘ndrangheta 2.0 che (e lo vedremo la prossima settimana) anche i pm De Bernardo e Musarò hanno molto bene in testa.
Prima di andare avanti, ricordiamo che, secondo la Procura di Reggio Calabria, all'interno della “provincia” sono previste una serie di cariche (capo-crimine, capo-società, mastro generale, mastro di giornata, contabile) che vengono attribuite a turnazione ad esponenti di vertice di ciascun mandamento e che entrano in vigore in occasione della festa della Madonna di Polsi. Le cariche riprendono quelle delle strutture inferiori, come spiegato dallo stesso capo-crimine Domenico Oppedisano. Secondo la ricostruzione dell’accusa a completare ilo quadro c’erano Antonino Latella (capo-società), Rocco Morabito (mastro di giornata), Bruno Gioffrè (mastro generale) e un soggetto non meglio identificato di Platì come contabile.
GRATTERI
Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, sostenne l’accusa in primo grado e leggete cosa disse testualmente: «Lui – affermò il pm Gratteri durante la requisitoria l’8 aprile 2012 rivolgendosi al ruolo di don Mico Oppedisano – è il custode delle 12 tavole, è il custode delle regole, apre e chiude i locali, osserva e fa osservare le regole, anche i locali al nord ed all’estero fanno riferimento al crimine. La nomina di Oppedisano è il frutto di un compromesso, dopo la morte di ’Ntoni Pelle Gambazza; compromesso tra le forze della ndrangheta jonica e le forze della ndrangheta della Piana, e come in tutti i compromessi non si sceglie mai il migliore. Ma Oppedisano non è anche il povero vecchio, morto di fame che si vuol fare apparire. Ha una storia antichissima di ndrangheta. Ed era di casa a Polsi».
E qui – lo dico con molta franchezza – mi perdo perché mentre una pubblica accusa in primo grado (Gratteri) parla di custodia delle regole, di apertura e di chiusure di locali, di compromesso, la stessa pubblica accusa in appello (De Bernardo e Musarò) scrive testualmente nel paragrafo “conclusioni” da pagina 68 della memoria: «E' evidente, quindi, che non si può dire che la Provincia abbia semplicemente il potere di aprire e chiudere locali, conferire cariche speciali, dirimere controversie fra locali: la Provincia non é semplicemente un "custode delle regole" e continuare a sostenere questo assunto vuol dire ignorare le emergenze processuali, che depongono inequivocabilmente nel senso che quest'organo ha poteri concreti su materie di fondamentale importanza, nei termini indicati dai collaboratori e per come riscontrato dalle altre risultanze in atti».
Dunque – lo dico con un paradosso di cui spero si colga l’essenza – era il “mosè” delle tavole ‘ndranghetistiche secondo Gratteri (pubblica accusa) mentre per De Bernardo e Musarò (pubblica accusa anch’essa) «il ruolo di capo-crimine non aveva un mero valore simbolico, ma ad esso erano connessi poteri e responsabilità» (pagina 79 e seguenti della memoria e abbiamo visto quali nei servizi di questi giorni).
Ma a fine maggio 2012, nel corso di un convegno a Reggio Emilia, Gratteri andrà oltre.
«Don Mico Oppedisano – dichiarò Gratteri lasciando tutti di stucco e le registrazioni a cura della Provincia di Reggio Emilia sono lì a testimoniarlo – vendeva piantine al mercato. Ma come lo si può paragonare a Totò Riina, come si fa dico io. Oppedisano per un momento storico è stato il capo crimine della ‘ndrangheta ma non faceva affari, era semplicemente il custode delle regole. Era il custode delle 12 tavole della ‘ndrangheta. Chi fa business, chi fa affari nella ‘ndrangheta, non vende piantine e non gioca a San Luca con Osso, Mastross
o e Carcagnosso».
Ora capite perché usavo l’ironia: quella frase (“venditore di piantine”) ha un copyright che non è il mio (ubi maior minor cessat).
Non credo di dover aggiungere una sola parola in più a quanto dichiarato dal numero 2 della Procura a Reggio Calabria quasi due anni fa.
A pagina 98 della memoria depositata si legge però che ci si sono stati «tentativi di ridimensionare il processo ironizzando sulla figura di Oppedisano Domenico, anche se le risultanze processuali dimostrano che si trattava di un personaggio storico, rispettato all'interno dell'intera 'ndrangheta, capo-locale di Rosarno e responsabile della Provincia già prima di essere nominato capo-crimine».
Gratteri ha poi profilato, in quell’incontro a Reggio Emilia, la ‘ndrangheta imprenditrice, quella che sa come fare affari e che siede al tavolo del potere. Quella – in altre parole – che alleva politici, imprenditori, professionisti, magistrati, giornalisti e via di questo passo. Quella “vera” come scrivo spesso con un paradosso dialettico. Quella alla quale – tanto per fare un esempio – sta dando la caccia da anni in Calabria (e tra mille difficoltà) il pm Giuseppe Lombardo il quale ha capito una verità elementare: la cosca De Stefano ha allevato una genia di politici e professionisti e ha corrotto una genia di servitori infedeli dello Stato e ha sguinzagliato i propri cani in tutto il territorio nazionale. «La ‘ndrangheta che fa affari – ha spiegato Gratteri di fronte a studenti e studentesse – si muove tra Reggio, Milano e il Belgio, solo per citare una nazione dove è di casa, parlando quattro lingue. Ci è capitato di arrestare uno di questi boss che addirittura parlava il fiammingo, che è una lingua difficilissima anche per chi è madrelingua» (http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/05/sabato-scorso-mentre-la-mano-di-un-folle-colpiva-il-futuro-dei-ragazzi-e-delle-ragazze-di-brindisi-ero-a-reggio-emili.html).
NON E’ COSA NOSTRA
Ma c’è qualcosa di altrettanto sorprendente in questi anni in cui – e lo dico con amarezza – il partito di “don Mico Oppedisano capo dei capi”, che ha una regia occulta e segreta e dunque di tipo massonico, ha inquinato e avvelenato l’ambiente giudiziario, processuale, investigativo e giornalistico.
Un partito silente e silenzioso, subdolo e strisciante, orchestrato da mani sapienti. Da una regia che non mi sorprenderebbe essere all’interno di quel sistema criminale che rappresenta l’evoluzione delle mafie.
Come abbiamo letto sopra Gratteri si è scatenato contro chi ha paragonato Totò Riina a don Mico Oppedisano ma – lo ricordo lucidamente – in quei giorni caldi del luglio 2010 i giornali facevano a gara a sbattere in prima pagina la foto di don Mico, arrestato e in manette in una macchina delle Forze dell’ordine, con sotto la didascalia “il capo dei capi”.
Ricordo – come fosse oggi – che in nottata, quel 13 luglio 2010, fui chiamato dalla caporedazione centrale del Sole-24 Ore, che stava chiudendo la prima edizione. In prima pagina c'era la foto di don Mico Oppedisano in manette e consigliai chi mi aveva chiamato di non avventurarsi in didascalie tipo: "arrestato il capo dei capi".
Ma chi aveva lanciato quell’input diabolico del quale – spesso inconsapevolmente talaltra colpevolmente talatra forse a libro paga – i media avevano rilanciato il messaggio rassicurante? Come a voler dire: “niente paura, ormai la ‘ndrangheta è finita. Abbiamo preso il capo dei capi che tremare il mondo fa”?
La domanda non è retorica ma – credetemi – fa parte di quel circuito di veleni che ha attraversato le vene di alcune Procure (a partire da quella di Reggio) dal luglio 2010 a oggi. Anche “domani”, se non si porrà fine a quel clima e a quel ciclo di veleni e antidoti, controantidoti e nuovi veleni, che ancora non si arrestano.
Fatto sta che qualcuno deve aver suggerito all’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni (di solito uomo moderato e misurato nelle parole ma che quella volta è caduto nella trappola) una roboante e tonitruante dichiarazione come quella che ciascuno di voi può ancora leggere oggi su www.corriere.it del 13 luglio 2010: «Un’operazione importante per il numero degli arrestati e perché rivela che la 'ndrangheta ha una struttura simile alla mafia in cui c'era un capo dei capi, Domenico Oppedisano, che è stato arrestato». Nero su bianco, cari lettori, da parte di chi allora rappresentava lo Stato ai massimi livelli: “capo dei capi”. Fine della ‘ndrangheta, anche alla luce dell'alto numero degli arrestati (per i quali, poi, se non ricordo male, la metà o forse più vedrà cadere, per mano della stessa pubblica accusa, l'aggravante mafiosa)? Ma da quando in un'indagine quantità è sinonimo di qualità?
Il ministro, verosimilmente consigliato e sono certo che oggi andrebbe diversamente, diede al popolo quel che il popolo voleva sentirsi dire ma per fortuna oggi (e quanto scritto in questa memoria non è di secondo piano ma di altissimo profilo) i pm De Bernardo e Musarò mettono una pietra tombale (spero) su quella follia (anche) mediatica.
Ecco cosa scrivono a pagina 68: «Questo non vuol dire che la Provincia é come la Cupola di Cosa nostra: la tentazione di accostare i due organi é inevitabile quanto sbagliata.
E' sbagliata perché Provincia e Cupola sono due organi di vertice di due organizzazioni diverse: essendo diverso il fenomeno alla base ('ndrangheta e Cosa Nostra), non può che essere diverso l'organo che lo governa.
Alla luce di quanto finora esposto appare evidente la differenza esistente fra Cosa Nostra e 'ndrangheta: la prima é un'organizzazione radicata pressoché esclusivamente sul territorio siciliano, la seconda é un'organizzazione molto più complessa in quanto ha articolazioni territoriali ovunque.
E' evidente che con questo sistema i poteri della locale si riducono: la 'ndrangheta, quindi, ad un certo punto si é data una serie di regole che da un lato hanno ridotto i poteri della singola locale e, dall'altro, hanno reso più governabile l'intera organizzazione, concentrando il maggiore potere nelle mani di poche persone».
Ora, si potrebbe stare a discutere per giorni sul fatto che Cosa nostra sia «un’organizzazione un'organizzazione radicata pressoché esclusivamente sul territorio siciliano». Credo che di fronte ad un’affermazione del genere, ad esempio, i pm Roberto Scarpinato e Nino Di Matteo trasalirebbero ma quel che conta è che la Procura
di Reggio Calabria fa strame dell’improvvido paragone quando, a pagina 80 della memoria si legge chiaro e tondo: «Questo non vuol dire che Oppedisano Domenico sia il Bernardo Provenzano della Calabria.
Una conclusione di questo tipo é frutto dell'inevitabile accostamento fra 'ndrangheta e Cosa Nostra che abbiamo già definito sbagliato perché si tratta di due organizzazioni che presentano innegabili profili di analogia, ma anche profondissime diversità».
Bene, benissimo. Alla prossima settimana, con nuove analisi sulla preziosa memoria depositata nel processo di appello Crimine.
3 –to be continued (la precedente puntata è stata pubblicata l’ 8 gennaio http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/unitariet%C3%A0-della-ndrangheta-le-analisi-dei-pm-antimafia-de-bernardo-e-musar%C3%B2-e-le-lancette-mafiose-del-tempo.html e ieri, 9 gennaio http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2014/01/lunitariet%C3%A0-della-ndrangheta-loligarchia-al-comando-secondo-lanalisi-dei-pm-antimafia-de-bernardo-e-musar%C3%B2.html)