Dietro l’attentato a Nino De Masi: a Gioia Tauro dalla “scimmietta” alla “scimmia” – La lettera dell’imprenditore – Lo Stato si schiera

Diciamoci la verità: Antonino De Masi, imprenditore di Rizziconi che opera nella Piana di Gioia Tauro, non sta simpatico a chi “conta”.

Non sta simpatico alle Istituzioni perché rompe le scatole in una Piana dove le scatole non le rompe nessuna impresa. Un motivo ci sarà. O no?

Non sta simpatico alle banche contro le quali sta conducendo battaglie epocali.

Sta simpatico – nel senso etimologico del termine greco, vale a dire “patire insieme”, “provare emozioni comuni” e dunque “affezione”, “sentimento”– a pochissimi.

Pochissimi, infatti, “patiscono” con lui e lo si è visto – drammaticamente – alla manifestazione di solidarietà organizzata per venerdì 3 maggio davanti allo stabilimento di Gioia Tauro preso di mira pochi giorni fa da 44 colpi di khalashnikov (ma su questo poi ci torniamo).

Quel giorno – a parte i solito noti attivissimi di Libera dell'impareggiabile don Pino De Masi (la Chiesa lì è lui e pochi altri) e due parlamentari come Dalila Nesci e Doris Lo Moro – in tutto circa 200 persone, dipendenti e familiari di De Masi compresi. Tanti? No, pochi. Un mezzo flop (per la cosiddetta società civile). Sufficienti…mah! Sarà, ma in una regione che vive di simboli l’assenza è un simbolo. Vuol dire che – per i cittadini comuni – esporsi è rischioso. Dargli torto? Beh ognuno è padrone del proprio destino e delle proprie azioni ma un dato è certissimo: la popolazione trova (più) coraggio quando lo Stato c’è. E se continuerà ad esserci sulla lunga, lunghissima distanza, quei 200 saranno di più. Altrimenti meno. O nessuno. Forse non ci sarà più neppure De Masi, espatriato.

Quel giorno, però, lo Stato c’era ed era annunciato (alcuni di loro avevano seguito in mattinata a Palmi il processo All Inside che ha condannato decine di persone e messo sotto ulteriore scacco la potentissima cosca Pesce di Rosarno che ringraziando Iddio sta vacillando sotto i durissimi colpi della Giustizia, tra arresti, condanne, sequestri e confische).

Lo Stato al gran completo (nella lettera di De Masi di quel giorno ai manifestanti troverete l’elenco completo e ad essa rimando). C’era la Procura, c’era la Questura, etc etc. Un colpo straordinario perché le fila erano compatte e mandavano e mandano un messaggio inequivocabile: noi ci siamo, lo Stato c’è.

Certo, facciamo attenzione: vince chi resiste e non chi sfila o appare una volta e – dunque – la presenza dello Stato deve essere messa alla prova sulla lunga distanza e non in un solo giorno di primavera.

La presenza di un fuoriclasse come il questore Guido Longo (solo per citare un nome senza mancare di rispetto agli altri) lascia però sperare che le indagini su quell’attentato – vedrete se sbaglio – proseguiranno spedite e con buone possibilità di capire quali mani criminali abbiano lanciato quel messaggio di morte inequivocabile all’imprenditore. Anche perché – cari amici calabresi – purtroppo non è che le Forze dell’Ordine abbiano da spaziare tra mille denunce. Da giugno 2012 a oggi una sola denuncia: quella di De Masi. Fantastico no?

Resta il fatto che resteranno da capire i motivi di quell’attentato.

E qui mi sbilancio su quel che penso io: 1) ingresso nel Porto; 2) traffico di droga e armi.

Ricapitolo brevemente perché a buon intenditore poche parole: 1) nel Porto, De Masi non deve entrare, non deve rompere con le sue attività un equilibrio delicatissimo (usando un eufemismo) e meccanismi rodatissimi (usando un altro eufemismo); 2) i traffici di droga e armi (che a Gioia Tauro proliferano) vengono messi a rischio se De Masi arriva a rompere le uova nel paniere con il ricovero dei container vuoti. Punto. Oltre non vado anche se potrei andare.

Ora, proprio il narcotraffico mi dà la possibilità di usare un gioco di parole usando un bellissimo ricordo di De Masi sulla scimmietta che il padre regalò a lui e ai fratelli di ritorno dalla Fiera del Levante di Bari. Ci fu chi pensò di far pagare (in tutti i sensi) quella sfacciata ostentazione di un animale esotico quando sulla Piana si moriva di fame.

Beh, è il caso di dire che l’evoluzione della Piana di Gioia Tauro in 40 anni è tutta qui: dalla “scimmietta”, usata come obiettivo per un’estorsione alla famiglia De Masi denunciata e fallita, alla “scimmia”, vale a dire il modo in cui molte generazioni hanno chiamato (e forse chiamano ancora) il ricorso alle sostanze stupefacenti. Tutto nacque dal libro “La scimmia sulla schiena” (“Junkie”, edito nel ’53 ma arrivato in Italia nel ‘62) di William Burroughs, capostipite della beat generation, che in maniera fredda, impassibile, con obiettività scientifica sperimentò su se stesso e descrisse gli effetti del ricorso alle droghe.

Buona lettura, visto che di seguito troverete il discorso tenuto da De Masi. E’ educativo e formativo e aggiungere altro non è necessario. In questi due aggettivi c’è tutto.

r.galullo@ilsole24ore.com

LA LETTERA LETTA DA ANTONIO DE MASI

Illustrissimi Signori, Autorità tutte, vi ringrazio di Cuore per la vostra presenza.

Ognuno di voi che oggi è qui ha contribuito con la sola presenza a rafforzare la speranza di un cambiamento, e certamente a dare anche un segnale molto forte e chiaro della presenza dello Stato e cosa ancor più importante della società civile; una società fatta da uomini e donne che vogliono riprendersi la libertà ed il diritto di vivere in una terra libera da vincoli, soprusi ed angherie, senza più padrini e padroni.

Grazie a nome mio e di tutta la mia famiglia, dei miei dipendenti che forse possono ancora sperare in un domani lavorativo.

La mia famiglia ha dietro le spalle oltre 35 anni di lotte alla criminalità; era il dicembre del 1987 quando ai media e subito dopo, davanti alle telecamere della Rai, abbiamo fatto le prime denunce pubbliche delle aggressioni mafiose subite. Così facendo abbiamo portato all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale la violenza della ndrangheta, mettendoci la faccia in maniera forte e chiara. Siamo stati i primi in Italia ad aver chiuso l’azienda per mafia e quella vicenda creò molto scalpore per i servizi giornalistici fatti dall’allora direttore del Tg2 Alberto La Volpe, dimostrando in tale vicenda anche il ruolo primario che possono avere i media in queste battaglie .

Quegli anni erano contrassegnati dai sequestri di persona e da un’assenza quasi totale dello Stato; ebbene in quegli anni, in Calabria, un’azienda disse basta all’aggressione criminale, arrivando a chiudere. Ciò è stato un capitolo importante, certamente doloroso, della storia della mia famiglia sia per i sacrifici e le privazioni
subite che per essere stati emarginati in quanto, avendo sempre denunciato, fummo considerati all’epoca e non solo dal tessuto sociale degli “infami”.

Rammento alcuni episodi al riguardo che riaffiorano alla mente. Episodi che danno il senso di alcune cose, come quando, con noi figli ancora piccoli, mio padre portò a casa, di ritorno dalla Fiera del Levante di Bari, che era la più importante manifestazione fieristica d’Italia, una piccola scimmietta. Quell’animaletto era la gioia di noi 5 figli ma l’arrivo della scimmietta è stato seguito da una lettera estorsiva che diceva testualmente: “tu hai la scimmietta e noi moriamo di fame, portaci i soldi sotto la pietra del mulino”. Mio padre lo fece, ma avvertendo prima i carabinieri che arrestarono gli estortori con i soldi in mano. Ricordo quest’episodio come fosse ieri, anche perché in quel periodo mio padre era a letto malato, e due grandi marescialli dell’arma raccolsero la denuncia ed agirono subito. Questo è avvenuto circa 37 anni fa non al nord ma nel sud in Calabria, a Rizziconi .

Negli anni successivi poi, sempre in presenza di lettere anonime con richieste di danaro e nostre denunce, i carabinieri prepararono la confezione con il denaro utilizzando i primi segnalatori, che in quell’occasione si danneggiarono a causa delle vibrazione del frigo sul quale l’estortore poggiò il pacco. Per non parlare delle intimidazioni subite facendoci trovare la dinamite sul tavolo ed i fiammiferi a lato ed i diversi attentati dinamitardi subiti. Potrei raccontarne decine di queste storie come numerosi sono i volti di questi criminali che ci hanno rovinato la vita facendoci vivere privati del valore primario della libertà.

Questa è una parte della storia della famiglia De Masi in questa terra dove 40 anni fa parlare di legalità era come bestemmiare in chiesa.

Io ed i miei fratelli siamo stati educati e cresciuti in questo contesto, passando notti con mio fratello sul balcone di casa, o dormendo all’aperto su un materassino, con il fucile sottobraccio a fare la guardia. In quegli anni ricordo bene come tenevamo in casa i fucili in bella vista perché così facendo chiunque fosse venuto avrebbe avuto ben chiaro il fatto che non avevamo paura delle minacce.

Dal dicembre del 1987 alla sera del 12 aprile del 2013 sono cambiate molte cose.

All’epoca la posta in gioco era l’estorsione criminale: volevano i soldi, volevano rubare il frutto del nostro lavoro. All’epoca abbiamo risposto con un braccio di ferro molto duro e resistito, in quanto era difficile che per una mancata estorsione ti ammazzassero.

Oggi quello che è successo è tutt’altra cosa.

Chi conosce la tipica escalation dell’aggressione criminale sa bene che dietro 44 colpi di Kalashnikov e due proiettili a terra inesplosi, non c’è una semplice estorsione, ma molto di più, qui infatti l’intimidazione subita è partita dal massimo livello, con l’impiego dell’arma militare, per far capire che il prossimo obiettivo potrebbe essere la tua vita.

Questo messaggio credo sia chiaro a tutti e di fronte a ciò siamo chiamati ad essere razionali, al di là di avere coraggio o meno.

Nei primi giorni è prevalsa in me non la rabbia, l’odio o sentimenti analoghi, ma la ragione e la rassegnazione, e per questo motivo ho detto ai media che il messaggio è stato recepito, e che lo stesso era stato chiaro e forte. E’ stato un momento di grande sconforto ed amarezza e forse anche di voglia di gettare la spugna, ma il guardarmi intorno e vedere i volti di tanta gente, i nostri lavoratori e le loro famiglie, gli attestati di stima e solidarietà ricevuti, la vicinanza concreta, autorevole ed intelligente dello Stato in tutte le sue forme, i richiami ai miei doveri di imprenditore e certamente il mio carattere, la mia rabbia e la consapevolezza che in gioco sono valori primari come la libertà ed il futuro di tutti, mi hanno portato, ci hanno portato insieme, a dire: “andiamo avanti”.

Noi tutti, la mia famiglia, siamo qui a metterci la faccia per dire che continueremo il nostro lavoro, stiamo qui dicendo con forza di lasciarci in pace perché noi vogliamo lavorare, fare impresa e far crescere le aziende per contribuire a dare un futuro a questa terra disgraziata. Io non ho paura, noi non abbiamo paura; noi siamo qui, come hanno fatto i nostri antenati partigiani, a combattere una lotta per la liberazione di questa terra da quei padrini che l’hanno massacrata, che hanno distrutto il futuro dei nostri e vostri figli.

De Masi è e vuole continuare ad essere il nome di una famiglia di imprenditori che fa impresa e crea occupazione nel nome della “legalità” vissuta e praticata e della vicinanza allo Stato.

Io credo che al di là delle autorevoli presenze e delle gravissime assenze, oggi la posta in gioco è altissima; noi non possiamo perdere, questa battaglia deve avere un solo ed unico risultato, la vittoria! Credo che stare al fianco delle aziende sia un fatto importante e determinante e forse oggi proprio da qui può avere origine quella rivoluzione culturale che in Sicilia, anche partendo dal mondo delle imprese, ha cambiato le cose.

Finisco questo mio intervento, ringraziando di cuore tutti: le forze dell’ordine tutte, il Procuratore di Reggio Calabria Cafiero De Raho, S.E il Prefetto Piscitelli , il Questore Dr Longo ed in modo particolare il Col. Falferi e tutti i suoi uomini, il Capitano Cinnirella, ed a il Ten. Ceccagnoli e gli uomini della scorta e l’autorevolissima presenza degli uomini dell’Esercito italiano qui rappresentato dal comando logistico di proiezione agli ordine del Col. Francesco Cardone.

Un Grazie particolare va poi a Libera, a don Luigi Ciotti ed all’Osservatorio sulla ‘ndrangheta rappresentato da Claudio La Camera.

Poi io non sarei qui se non avessi avuto la presenza al mio fianco di Don Pino De Masi a cui molto devo, sia per avermi sopportato con le mie ansie ed angosce che per avermi sempre dato la speranza e la fiducia. Da cattolico credo che la Chiesa, in territori difficili come il nostro, debba riprendersi la missione di “condurre il gregge” sulla dritta via, ed uomini come don Pino sono l’esempio concreto dell’agire.

Don Pino tu hai rappresentato per me la strada ed il punto di rifermento, grazie di tutto e scusami.

Infine una parola la debbo a tutti i miei familiari che con la mia caparbietà ho spinto ad un forte coinvolgimento, forse oltre il dovuto.

Grazie ancora a tutti

  • Mario Congiusta |

    Mi spiace Bartolo ma non sono d’accordo con Lei.Intanto non mi risulta che migliaia di cittadini vengono arrestati a caso, a me non è mai successo. E’ vero invece che per molti cittadini rilasciati non si è raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio. Questo non vuol dire che erano innocenti.

  • bartolo |

    caro congiusta, le piazze saranno piene quando il popolo calabrese riconoscerá nello stato il proprio protettore. le pare sia questo quello giusto? non credo proprio, questo é uno stato in cui migliaia di cittadini sono stati arrestati per poi dopo anni duri di carcerazione preventiva vedersi riconosciuti innocenti. anche l`altro ieri a palmi nel processo alla cosca pesce, la notizia principale avrebbe dovuto essere ventuno innocenti assolti, quella secondaria quaranta condanne. ancora, che questo sia uno stato protettivo dei suoi cittadini basta vedere il trattamento riservato ai familiari di paolo borsellino. la saluto, con profonda tristezza per la tragedia che vive

  • Mario Congiusta |

    Caro Roberto,è vero,non eravamo in tanti ma ti dirò che qualcuno in più c’era.
    Il giorno precedente,avevo fatto un “intervento bastardo” come lo chiama una mia amica,dicendo che siamo come le famose “vacche di fanfani” e che ero stanco di pacche sulle spalle da parte di quella “società civile” che rimane alla finestra come se il problema fosse dei marziani e non nostro.
    Sono andato anche oltre, quando ho chiesto ai presenti di spiegarmi in cosa consiste “l’orgoglio di essere calabrese” che io non sento proprio. Sono solo nato in Calabria come potevo nascere in qualunque altro posto.
    Voglio ancora sperare, come anche tu speri, che le cose cambino.
    Buon lavoro a noi amico mio.
    Mario Congiusta,papà di gianluca,vittima innocente di un criminale indultato.

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