Questo mio articolo è pubblicato oggi sul Sole-24 Ore. Lo ripropongo sul blog in versione più ricca ed estesa rispetto a quanto pubblicato sul quotidiano.
“La struttura militare di Cosa nostra è in gran parte in carcere ma il mio ottimismo si ferma qui”. Sono passate poche ore dalla commemorazione per la strage di Capaci nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e la scorta ma Ignazio De Francisci non ce la fa a vedere il bicchiere della lotta a Cosa nostra mezzo pieno.
Difficile essere ottimisti quando si scopre che i tombini di fronte a casa di un dei più preparati e straordinari pm di cui la Sicilia dispone, Antonino Di Matteo, pochi giorni fa sono stati saldati per il rischio di attentati mortali che corre lui e la sua famiglia. La vigilanza e l'attenzione dello Stato per questo Servitore dello Stato stesso deve essere altissima.
De Francisci, attualmente procuratore aggiunto a Palermo, che con Falcone lavorò fianco a fianco, separa i discorsi e lascia aperta la porta a rigurgiti di violenza imprevedibili. “I gruppi di fuoco – dichiara De Francisci – non girano più indisturbati per Palermo, sparando e portando la morte nei quartieri. Molto lavoro è stato fatto ma resta da costruire una coscienza sociale”.
E’ a questo punto che la riflessione si sdoppia. “Il mio ottimismo su quanto sta accadendo in Sicilia – dice – si ferma qui. Fino a quando i politici siciliani non cambieranno il loro modo di essere, di vivere, la Sicilia non farà un solo passo avanti”. Inevitabile che l’analisi cada sugli intrecci tra Cosa nostra e la politica. Quella politica che, in parte, ieri ha versato lacrime di coccodrillo. “Sino a quando i politici continueranno a chiedere voti ai mafiosi, ben sapendo che mafiosi sono e mafiose sono le mani che stringono e le alleanze che cercano – continua De Francisci – non faremo molta strada. Abbiamo ancora troppi politici che vengono intercettati mentre parlano con i mafiosi e alcuni di questi siedono nei consigli comunali. E’ dai Comuni che inizia la lotta alla mafia e su questo il mio ottimismo si affievolisce di nuovo”.
Antonio Nicaso, storico delle mafie internazionali, ricorda che è sempre stato così. “Salvatore Cancemi, il primo pentito della cupola di Cosa nostra – dichiara Nicaso – morto il 14 gennaio 2011, dichiarò che se Cosa nostra non entrasse in contatto con la politica sarebbe destinata a morire”. E di politica e Cosa nostra sembra stia parlando anche l’ultimo pentito catanese, Santo La Causa, che da questo mese ha cominciato a collaborare con la Procura.
Una miscela esplosiva che rischia di procurare ancora danni, magari con l’irruzione di schegge impazzite dello Stato, come sembra ormai profilarsi per le stragi del ’92. “L’ala militare di Cosa nostra – spiega De Francisci – è piegata e per far nascere una nuova stagione di stragi ci vogliono molti mezzi e molte risorse ma non nascondo che in cuor mio ho una paura tremenda del ritorno della politica stragista della mafia”.
Anche per questo, per recidere quel cordone ombelicale che lega mafia e politica, due giorni fa la Fondazione in memoria di Paolo Borsellino ha consegnato al ministro della Giustizia Paola Severino la proposta di legge che vuole dare scacco al voto di scambio con la mafia e che porti il nome del magistrato ucciso con la scorta in Via D’Amelio a Palermo il 19 luglio 1992. Non più solo promessa di denaro in cambio di una preferenza ma qualsiasi altra utilità o favore.
Nel corso di un incontro con alcuni studenti di Bassano del Grappa (Vicenza), Paolo Borsellino nel 1989 manifestò la difficoltà per la magistratura di punire il reato di voto di scambio. Difficoltà che permane ancora malgrado alcune modifiche di norme approvate negli anni.
La proposta così recita: «La pena stabilita dal primo comma dell'articolo 416 bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416 bis in cambio della erogazione, o della semplice promessa di successiva erogazione, di denaro o di altre utilità e favori».
Non resta che aspettare per capire se anche su questa semplice e facile modifica legislativa verranno (o meno) sparse lacrime di coccodrillo, che Giorgio Forattini utilizza per disegnare la Sicilia che tutto mangia e divora. A partire dai suoi Uomini migliori.
La criminalità organizzata va a braccetto con la politica ma anche con quella che oramai per consuetudine viene chiamata “zona grigia” ma che in realtà è la “materia grigia” delle mafie, fatta di professionisti, magistrati, Forze dell’ordine e apparati deviati. Poco o scarso risalto è stato dato al fatto che, appena 12 giorni fa, l’architetto Giuseppe Liga, arrestato due anni fa con l'accusa di associazione mafiosa perché ritenuto il successore dei boss mafiosi Salvatore e Sandro Lo Piccolo, è stato condannato a 20 anni di carcere. Liga, accusato di associazione mafiosa, estorsione e intestazione fittizia di beni, è stato assolto dal solo reato di intestazione fittizia.
I pm palermitani Annamaria Picozzi e Francesco Del Bene avevano chiesto la condanna a 22 anni mentre i giudici della terza sezione del Tribunale, presieduta da Fabrizio La Cascia, hanno confermato la sussistenza dei reati relativi all'associazione mafiosa e a sei dei sette episodi estorsivi contestati a Liga, ma non la fittizia intestazione di beni aggravata.
Liga, professionista conosciutissimo nei salotti della Palermo bene, ex reggente regionale del Movimento cristiano lavoratori (che è stato risarcito dal Tribunale con 7.500 euro) era stato arrestato il 22 marzo 2010 a seguito di un’indagine avviata da alcune intercettazioni di altre inchieste, nelle quali veniva citato un misterioso “architetto”. Un’espressione che saltò fuori anche tra le carte che i poliziotti trovarono il giorno dell’arresto dell’allora capomafia di San Lorenzo Salvatore Lo Piccolo.
Nei pozzi trovati nel covo del boss era indicato con il numero 013 mentre in un altro pizzino c’era quest’altra annotazione: “Architetto Liga 10.000”. Nel settembre 2008, con l’arresto dell’avvocato Marcello Trapani, legale dei Lo Piccolo, vennero trovati altri riferimenti. Il costruttore Piero Cinà, indicato come un esattore dei Lo Piccolo, nome in codice Alfa, scriveva in un pizzino: “cantiere scalea: continuano a ritardare il saldo, si tratta di 110mila euro. Ho parlato con Pippo ma tutto tace”. Pippo, secondo gli inquirenti, era l’architetto. In un’altra intercettazione il titolare della società di costruzioni e altre persone, tra le quali Pippo, discutevano sulla rata del pizzo:
mille euro ad appartamento.
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