Vincenzo Marino è un ex boss crotonese della cosca Vrenna-Bonaventura.
Con un percorso che non sta ai giornalisti giudicare ha cominciato a collaborare sino a diventare, qualche anno fa, collaboratore di giustizia. Che sia davvero pentito (come generalmente viene appellato colui il quale abbandona la violenza mafiosa per abbracciare le leggi dello Stato) oppure no – ancora una volta – non sta al giornalista giudicare.
Certo è che il suo è un percorso interiore tormentato, come dimostra il fatto che ha in corso la revoca del programma di protezione – per se e dunque, inevitabilmente, per l’intera famiglia – a causa di alcune presunte violazioni disciplinari. Ed ora sarà chiamato a pronunciarsi – dopo la revoca a opera del Viminale e il ricorso della famiglia Marino – il Tar del Lazio al quale potrebbe eventualmente succedere il Consiglio di Stato.
Fatto sta che delle sue dichiarazioni si avvale ancora la pubblica accusa nel corso di diversi processi in corso. E fatto sta che io la penso esattamente come il giudice Giovanni Falcone: l’esistenza (e la permanenza in vita) dei collaboratori di giustizia è vitale per sconfiggere le mafie. Scontato dire che – esattamente come diceva Falcone – ogni singola parola deve trovare riscontro probatorio.
Alla luce di queste considerazioni – dunque – do per scontato che quando lo Stato riconosce il ruolo ad una persona che decide di collaborare, deve fare di tutto per proteggere non solo chi collabora ma tutta la famiglia. Così è ovunque: a partire dagli Stati Uniti che vengono spesso citati come modello di efficienza nella Giustizia.
E questo ragionamento vale a maggior ragione in Calabria dove – fino a qualche tempo fa – i “pentiti” si potevano contare sulla dita di una mano. A maggior ragione lo Stato dovrebbe porre una cura maniacale e ossessiva nel “selezionarli”, “testarli” e corroborare le dichiarazioni con prove inoppugnabili. E successivamente curarli come avrebbe fatto il giudice Falcone che li considerava persone da rispettare non solo per le scelte di rottura fatte ma anche per le sofferenze interiori trasmesse, come in una catena, a familiari e amici.
Così – in Italia – spesso non è e sarebbe lungo richiamare la sfilza di collaboratori lasciati soli a se stessi e – con loro – i familiari.
Questa lunga e doverosa premessa per dirvi che ho ricevuto – e volentieri pubblico – la lettera di Tiziana Giuda, moglie del collaboratore di giustizia Vincenzo Marino (attraverso il suo avvocato Claudia Conidi).
Se – infatti – dovesse permanere la revoca del programma di protezione per Marino (e non mi permetto di giudicare minimamente la correttezza di tale scelta essendoci un organismo dello Stato preposto) l’intera famiglia sarebbe lasciata “nuda” di fronte alle cosche.
La mia domanda è molto semplice ed astrae com-ple-ta-men-te dal caso in questione che rappresenta solo il punto dal quale partire nella riflessione: è giusto che le colpe dei mafiosi ricadano su una famiglia che si dissocia completamente, concretamente e definitivamente dalla mafia, dal passato criminale del/i proprio/i congiunto/i e dunque sposa appieno la legalità? Il dubbio è l’anima del giornalismo e io ritengo che su questi “effetti collaterali” del pentitismo bisognerebbe aprire un dibattito serissimo.
Ecco dunque un contributo di riflessione che proviene da una moglie-madre, che sottopongo a voi, a me, alla magistratura e a coloro i quali devono decidere sul percorso che i “pentiti” e i loro familiari devono aspettarsi.
IL TESTO DELLA LETTERA
Sono Tiziana Giuda,
Giuda di cognome ma non di fatto.
Giuda “traditore” è stato chiamato mio marito, perché è un collaboratore di giustizia.
Ho avuto da lui tre figli. Una è ammalata e non vede il suo papà da circa due anni perché non può viaggiare per la sua patologia, ma nessuno le ha dato possibilità di vederlo.
Sono stata dietro quest’uomo che ha fatto parte dell’”onorata società” e continuo ad essere sua moglie e ad amarlo e ad amare i nostri figli. Ma lo Stato non ci vuole più.
Lo Stato ci ha “scaricato” come zavorre dopo che mio marito ha dato allo Stato e ha preso in cambio condanne gravi che oggi pesano anche su di noi, che nulla abbiamo fatto di male tranne che amare una persona che a sua volta aveva sbagliato ma che voleva rimediare, riscattarsi, cambiare.
Oggi io e i miei figli dipendiamo da un Tribunale amministrativo regionale, il Tar del Lazio, che deciderà se potremo continuare a vivere o, al contrario andare nella tana dei lupi da cui eravamo fuggiti.
Si, perché tornare in Calabria significa morire: non tornare in Calabria significa essere scovati da chi ci darà la morte, come è successo a Lea Garofalo, nostra compaesana.
Che abbiamo 1, 100, 10000 o un milione di nemici, nulla conta per lo Stato che vuole solo raggiungere i suoi fini, ottenere condanne, risultati processuali e poi se per te andare avanti significa “morire”, a nessuno importa più di tanto.
Il contratto lo fa il pentito con lo Stato ma i suoi figli, sua moglie ne seguono le sorti, anche se non hanno fatto nulla di male.
Si butta una zavorra anche se dentro ci sono persone innocenti, che hanno già patito ingiustamente: né casa, né assistenza sanitaria, né contributo economico, né istruzione, né documenti di copertura, né lavoro. Nulla.
Solo la strada e i cecchini dietro l’angolo pronti a darti la caccia ovunque tu sia.
Mi domando e ti domando Stato: è giusto tutto questo?
La responsabilità penale in Italia è personale?
In Italia è stata abolita o no la pena di morte?
La legge che dovrebbe tutelare i diritti dei cittadini ci porta alla morte sicura, silente, impassibile, nell’indifferenza di tutti. Eppure siamo in tanti, tutti con lo stesso destino.
Prima o poi. Senza pietà.
Io ho solo fatto la moglie e la mamma, non credo di meritare perciò la morte. Ho solo sperato di guardare il mondo con occhi nuovi, puliti, diversi, non impauriti, non velati dalla vergogna. Ho solo condiviso di stare dalla parte della legalità, finalmente.
Eppure li dove eravamo ci siamo dovuti auto tutelare. Ti guardano e dicono: siete “pentiti”…?
Perché arrivi dal nulla, non sei nessuno, non puo
i parlare con nessuno. Devi saper fingere, mascherare il tuo accento calabrese e se non sei pronta cadi nel tranello.
Ti “sgamano” subito.
E’ un gioco al massacro!!!
E se dici che qualcuno sospetta che fai parte di questa categoria, ti mandano subito via, via dal mondo che ti eri creata e con te i tuoi figli….zingari senza terra, né parenti, né amici. Solo finzione, e basta.
La legalità oggi tradita dalle lacrime dei miei figli, di nuovo pieni di paura.
Io sono Tiziana Giuda.
Oggi divorzio dallo Stato, perché lo Stato mi ha tradita, perché ha ucciso la speranza di tornare a vivere.
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