Bologna sta vivendo ore febbrili. Un anno fa – correva il 18 febbraio 2010 – la città, travolta dallo scandalo rosa-chic del sindaco Flavio Delbono costretto ingloriosamente alle dimissioni, al suo posto si vide catapultare sulla scena una severa “nonnina”, il commissario prefettizio Anna Maria Cancellieri, in grado di capovolgere, nel giro di pochissimi mesi, una marea di luoghi comuni.
Per questo il suo no (definitivo?) alle lusinghe dei partiti che la volevano candidata-sindaco (a partire dal centrodestra) pesa ancora di più.
Il primo luogo comune sfatato è quello dell’età: erano anni che non si vedeva a Bologna un amministratore – per quanto commissario prefettizio a tempo – così attivo e determinato nonostante la (meritata) pensione dal 2009. Appena insediata, alla domanda sui timori che Bologna potesse restare "bloccata" con il commissariamento, l’ex prefetto disse: «Tranquillizzerò chi è preoccupato, il commissario non blocca nulla e in realtà ha la possibilità di adottare tutti gli atti necessari per la città. È poi questione di sensibilità politica fare atti a lungo o medio termine. Ma quello che voglio garantire è che i cittadini avranno tutto quello che spetta loro con il commissario».
Il secondo è quello della romanità scansafatica. Lei, romana, cominciò a far mangiare la polvere a tanti bolognesi a pochi giorni dall’insediamento.
Il terzo è quello del sesso: una donna a governare il Municipio che fu dal 1945 al 1966 di Giuseppe Dozza? Ma dico: siamo matti?
Il quarto luogo comune è che un buon candidato sindaco deve essere necessariamente nato, cresciuto e pasciuto in quella stessa città. Meglio ancora se da generazioni. Balle. E del resto lo stesso Delbono era mantovano ma non è certo stato costretto alle dimissioni per questo motivo.
Ma questi quattro luoghi comuni sono pinzillacchere, direbbe Totò, di fronte ai due che questa sessantasettenne ex prefetto di Vicenza, Bergamo, Brescia, Catania e infine Genova, è riuscita in un solo colpo a infrangere.
LA MORTE DELLA POLITICA
Una delle mie tante vite giornalistiche (ho iniziato a 22 anni a fare questo maledetto mestiere) l’ho passata raccontando – come capo del servizio “Enti locali e Pa” prima a Italia Oggi e poi al Sole-24 Ore – della legge 81/93.
Direte voi: e che cos’è? Per noi giornalisti – ma in primis per tutti gli italiani – fu una legge (apparentemente) rivoluzionaria: introduceva l’elezione diretta del sindaco. Fino al 25 marzo di quell’anno – data di entrata in vigore della legge – le candidature si svolgevano molto spesso lontano dal sentimento popolare e venivano decise dai partiti che molto spesso se ne fottevano tre quarti del merito e piazzavano e rigiravano talora figure di primo piano (solo per rimanere a Bologna come non ricordare Renato Zangheri, Renzo Imbeni e, a cavallo della legge, Walter Vitali, tutti del Pci). talaltra prestanome o utili idioti.
Quella legge – si disse all’epoca – apre alla selezione dei migliori da votare e innalza il livello dello scontro (gli schieramenti non potranno schierare, era il ragionamento, galoppini o brocchi ma fuoriclasse) e schiude le porte al federalismo (lo stesso anno, in troppi oggi lo dimenticano, fu infatti introdotta l’Ici, l’imposta comunale sugli immobili scimmiottata dall’esperienza francese che avrebbe dovuto portare ad un controllo ferreo del territorio non solo dal punto di vista dello sviluppo urbanistico ma anche della tassazione).
Come è andata a finire lo abbiamo visto: i partiti continuano a dettare legge, in questi 20 anni ormai quasi trascorsi la selezione è stata spesso al ribasso e del “falso federalismo” propagandato, nulla è stato fatto se non una sovrapposizione tributaria senza alcun governo del territorio (cosa che capiterà ancora con il nuovo falso e immondo progetto federalista recentemente approvato).
L’unica a trarre giovamento da questa legge è stata la Lega Nord che nelle competizioni poteva anche proporre un ronzino, che sarebbe stato comunque votato non sulla base della capacità e delle competenze e dunque della selezione della migliore classe dirigente, ma per il solo fatto di avere nel taschino un fazzoletto verde, sotto la giacca una fetida canottiera secessionista e nella bocca tre rutti sempre pronti a esplodere: “terun”, “Roma ladrona” e “secessione”, la vera e unica fede che oggi coltiva quel pizzico – su migliaia e migliaia di amministratori che hanno avuto – di classe dirigente che la Lega Nord è riuscita a portare (ahimè e ahinoi) al Governo nazionale.
Ebbene il peggior luogo comune che Cancellieri ha cancellato con il suo no è proprio quello relativo alla selezione della classe dirigente locale da parte dei partiti: i bolognesi, senza distinzione di colore politico, secondo i servizi che il Resto del Carlino ha ultimamente dedicato un giorno sì e l’altro pure alla vicenda, tifavano e tifano per averla come sindaco. Ma come, proprio nella patria del buon governo comunista e/o di sinistra, seppur inframezzata dalla sindacatura Guazzaloca, i partiti, i primis quelli di sinistra, non sono in grado di esprimere un nome che possa rendere inutile il tira-e-molla sulla candidatura Cancellieri?
Ebbene no. O meglio: la sinistra un nome ce l’aveva: quello di Maurizio Cevenini, costretto al ritiro a causa delle sue precarie condizioni di salute. Ma come è possibile che il centro-sinistra, che qui dovrebbe sfornare politici come una zucca i semi, ha un solo nome da proporre e che possa avere possibilità di vittoria?
La sinistra – all’ipotesi che Cancellieri potesse correre per il centro-destra – è stata solo capace di gridare: “Se così sarà scateneremo l’inferno”. Forse all’inferno hanno mandato la loro capacità di far crescere la politica e la società civile.
E il centrodestra? Zero carbonella. Ancorato a Guazzaloca, è capace solo di far rimbalzare qualche cognome di grido che, a occhio e croce, ha altri interessi che non propriamente quelli civici per accettare la sfida. Sotto sotto, ovviamente, prega un giorno sì e un giorno pure San Petronio, affinchè Cancellieri ci ripensi e scelga il centrodestra.
Cancellieri è la cartina di tornasole della morte della politica, ormai incapace di allevare e selezionare una classe dirigente e la paradossale controprova è che i bolognesi sarebbero pronti a votarla sperando che lei non si schieri con nessuna coalizione. Per questo ieri Cancellieri ha sentito il bisogno di dire: "Ringrazio della considerazione con cui da molte cittadine e molti cittadini è stata avanzata l’ipotesi di una mia candidatura a Sindaco di Bologna. Di questo sono profondamente grata ed onorata. Ritengo, però, che in alcun modo potrei mai essere “la candidata” di un partito piuttosto ch
e di un altro o di qualunque autorevole esponente politico locale o nazionale perché ciò confliggerebbe con il mio attuale ruolo di servitore terzo di tutti i cittadini bolognesi. Poiché da più parti mi si indica come candidato di parte, esprimo la mia indisponibilità ad essere espressione di qualsiasi schieramento politico nazionale o locale. Con queste premesse, non ci potrà essere alcuna mia candidatura, fermo restando il rispetto che ho per il ruolo dei partiti con i quali sempre ho avuto modo di collaborare lealmente nella reciproca considerazione dei ruoli istituzionali”.
Cancellieri con la sua frenetica ed apprezzata attività (al punto che si è anche “meritata” lettere intimidatorie e minacce di morte) ha sfatato un altro luogo comune: la povertà della cultura statalista – in supposta caduta libera – rispetto a quella localista e federalista.
Balle allo stato puro. La realtà è che tra i Servitori dello Stato (a partire dai prefetti, come dimostra anche l’esperienza di Luigi De Sena, ex superprefetto di Reggio Calabria, acclamato a gran voce, attenzione, da una parte della società civile e non dai partiti del centrosinistra, nel quale pure milita, come candidato sindaco) continuano ad esserci persone che della concretezza e della trasparenza – che non hanno colore politico – fanno il proprio disegno amministrativo quando vengono chiamati a espletarlo. Ciò che non accade tra i politici allevati dai partiti, che a parte qualche eccezione, non riescono più a esprimere persone di livello.
Indipendentemente dunque dalla scelta definitiva di Cancellieri – se correrà o memo e con chi – la lezione di Bologna è proprio questa: la sconfitta di troppi luoghi comuni a discapito della politica sempre più moribonda anche laddove il Pci era una scuola a cielo aperto e laddove il centrodestra pensava di aver sbancato solo per la capacità di proporre Guazzaloca di cui molti stanno ancora cercando di capire quale impronta abbia lasciato in città e quanti e quali allievi abbia coltivato.
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