Che Dio mi perdoni – come sapete infatti, di ciò che pensano gli uomini mi interessa poco – ma anche io ho un sogno per il 2011: la Calabria senza i calabresi.
Se mi seguirete fino alla fine (dedicherò due articoli al tema) scoprirete che il mio è un atto d’amore per questa terra e soprattutto per l’Italia intera.
Da ben 22 anni frequento e studio questa regione e da molti anni la descrivo e la racconto per professione e ogni volta che penso che sia stato toccato il fondo debbo ricredermi. Questa è una terra che non conosce fondo. E non conosce vergogna.
Nonostante i sofismi di alcuni analisti locali questa terra è – salvo miracoli – irrimedibile.
Anzi: il tempo non potrà che peggiorarne la situazione. E la data della fine è sull’etichetta virtualmente posta a Villa San Giovanni, futuro pilastro del (futuribile) Ponte: 2013.
In quell’anno (alle porte), i fondi europei, finora elargiti dalla mala-politica e pappati a quattro ganasce dalla cupola massonico-politico-‘ndranghetistica calabrese, cominceranno rapidamente a scemare fino ad annullarsi o quasi.
Tra due anni la Calabria sarà uno yogurt: o verrà mangiato in tempo dalla politica italiana così da digerirlo e acquistarne uno nuovo a più lunga scadenza o sarà talmente acido e mortale da essere sputato dall’intera Italia e dall’Unione europea, che di certo non vorranno morirne per avvelenamento.
LE PREBENDE CHE ALLUNGANO L’AGONIA
L’anima nera della Calabria sa che potrà contare su altre due prebende che potrebbero allungare il tempo della (fittizia) conservazione: i fondi del decreto Reggio (vera e propria manna dal cielo che finora ha portato musica in piazza per rincoglionire le menti e zero sviluppo) e quelli che potrebbero venire dal Ponte sullo Stretto, che non c’è ancora ma per il quale la ‘ndrangheta, la politica marcia e la imprenditoria collusa hanno già mosso gran parte delle pedine (si vadano a vedere alcune società di servizi che sono sorte e che per il momento sono scatole vuote pronte a riempirsi al momento giusto).
Queste due prebende allungheranno l’agonia e, si badi bene, questo alla ‘ndrangheta non frega assolutamente nulla. Dopo aver asfissiato la regione anche nel più piccolo e “babbo” paese persino dell’entroterra cosentino, da decenni la ‘ndrangheta parla spagnolo con accento sudamericano, portoghese con cadenza brasileira, francese, inglese, tedesco, russo. E per chi fosse rimasto fermo al provincialismo italiano (a partire dai politicanti che ipocritamente fanno finta di aver scoperto la ‘ndrangheta al nord grazie a Vieni via con me), gli uomini delle cosche parlano ligure, valdostano, lombardo, piemontese, toscano, veneto, laziale, emiliano, romagnolo.
HASTA LA SECESSIONE SIEMPRE!
Gli investimenti delle cosche non conoscono confini geografici e – come ho già scritto in questo blog il 27 luglio e il 19 novembre 2010 – le mafie se ne infischiano della secessione. Anzi. Spaccare in due l’Italia facilita i compiti perché diminuisce i centri di potere a cascata che caratterizzano la politica e la burocrazia, sui quali esercitare il proprio potere (con le buone o con le cattive). Meglio, molto meglio la secessione che il federalismo, troppo complicato da capire e digerire e la ‘ndrangheta Spa (51 miliardi di fatturato all’anno come testimonia uno studio che l’Istituto Demoskopika non ha mai voluto diffondere, chissà perché) non ha tempo da perdere. Uè, terun d’un calabrot, gli affari sono affari. Parola di ‘ndranghetista!
Alla ‘ndrangheta che domina l’edilizia in Lombardia, Piemonte, Liguria e Lazio, che controlla il narcotraffico da Amsterdam a Bogotà passando per Gibilterra e l’Africa, che regola i flussi delle merci agricole da Rosarno, passando per Fondi fino a Milano o che ricapitalizza imprese da Bucarest a Toronto passando per Caracas, cosa volete che gliene fotta del futuro della Calabria e dell’Italia?
Se il registro non cambierà, dunque, le cosche (dalla Sicilia alla Campania) saranno ben felici di veder sventolare la puzzolente canottiera secessionista che Umberto Bossi e la sua cricca indossano sempre sotto la giacca con il fazzoletto verde-ramarro nel taschino.
LA DEMOCRAZIA SOSPESA
L’editorialista del Corriere della Sera, Angelo Panebianco, recentemente ha scoperto l’acqua calda, paventando sostanzialmente, nel Sud e dunque in Calabria, la sospensione dei diritti costituzionali e la cacciata di (quasi) tutti gli amministratori pubblici.
Non posso che dirmi a malincuore d’accordo con questa idea primordiale e terrificante che – pur non essendo fortunatamente Panebianco – avevo già declinato 14 mesi fa su questo blog chiedendo però che la Calabria venisse quasi completamente commissariata da “non calabresi”: dal più piccolo Comune al più sperduto ospedale pubblico (si veda in archivio l’articolo del 9 ottobre 2009). Con la contemporanea forte presenza dello Stato che deve “occupare” questa terra sottratta alla democrazia e alle leggi dello Stato (come del resto gran parte del Sud e, via via, accadrà con il resto della Penisola). Ma la Calabria non è più “un” problema. E’ “il” problema dell’Italia e dell’Europa.
Non c’è nessuna “idiozia razzista” in questa proposta (come qualcuno blatera) che potrebbe essere applicata anche ad altre zone del Sud, dove però, a differenza che in Calabria, la coscienza e la resistenza civica e civile sono dotate di anticorpi che permettono di fare in qualche modo fronte alla cultura mafiosa e lasciare il varco aperto alla speranza. E’ solo una presa di coscienza: la Calabria non può farcela da sola. O viene aiutata – fosse anche dai caschi blu dell’Onu – o rischia di trascinare l’Italia nel baratro. L’Italia non può correre il rischio di calabresizzarsi all’attuale velocità e se l’Unione europea non aprirà gli occhi, si sveglierà presto a pasteggiare con ‘nduja e Cirò senza sapere perché.
LA PUNTA DELL’ICEBERG
In Calabria la politica non è in grado di riformarsi. Non abbiamo fatto in tempo a lasciare una giunta e un consiglio regionali tra i più inquisiti e fetidi della storia calabrese che, zacchete, un filone di inchiesta della Procura antimafia di Reggio Calabria ha portato in gattabuia il consigliere regionale Santi Zappalà, uno dei tanti pizzicati in processione a San Luca presso la cosca Pelle e ha scoperchiato una parte (infinitesimale) della politica alle dipendenze dei boss.
La Dda di Reggio ha scoperto la processione dei candidati perché aveva infilato cimici e telecamere dappertutto. Si profilava come il colpo investigativo e giudiziario del secolo in Calabria ma una mano maligna (che ha nomi e cognomi negli ambienti che gravitano nel magma putrido dei servizi segreti deviati che qui da sempre pascolano a proprio agio) ha stroncato la segretezza e
ha fatto sì che in fretta e furia si arrestassero nei mesi un pugno di scalzacani e si mandasse all’aria un’operazione che oltre a Zappalà avrebbe tirato, come un rosario laico, altri e ben più importanti grani.
Volete che la dica tutta? La politica in Calabria è Zappalà: a destra, al centro e a sinistra. E badate bene che non mi assumo il compito di giudicare chicchessia (tantomeno Zappalà) giudiziariamente. Per quello ci penserà la magistratura e gli eventuali processi.
Mi riferisco alla pressoché totale assenza di etica, morale, trasparenza e principi di legalità nella politica della Calabria. Il più pulito ha la rogna e chi è pulito davvero è un’eccezione destinata a scappare, morire o desistere.
La politica calabrese e l’imprenditoria deviata (si veda quanto sta accadendo da anni in Confindustria Reggio Calabria) non possono troncare il cordone ombelicale con la ‘ndrangheta: se lo facessero morirebbero e questo lusso non se lo possono permettere. Anzi. Le vecchie classi dirigenti hanno infettato dello stesso virus le nuove e oggi le leve politiche che si affacciano alla politica locale sanno che le regole sono quelle: prendere o lasciare. Chi tenta la sorte lo fa a proprio rischio ma, soprattutto, pericolo.
Per il momento mi fermo qui ma nelle prossime ore mi soffermerò sulle ultime mosse della politica calabrese che dovrebbero far capire anche ai sordi che in questa terra i sui esponenti ignorano totalmente il concetto di bene pubblico. Senza distinzione tra destra, centro e sinistra.
1 – to be continued
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