Secondo me c’è una differenza sostanziale tra inquirenti e investigatori chiamati a contrastare e reprimere la criminalità organizzata e i giornalisti che di criminalità organizzata scrivono: i primi analizzano lo stato dell’arte; i secondi – anche a costo di sbagliare – cercano di spingersi oltre cercando di capire cosa accade oggi in un territorio ma, soprattutto, che cosa accadrà…domani. E, in questo modo, dare alla collettività strumenti di lettura, analisi e dibattito, che possano scatenare una reazione sociale. Forse è per questo che alle mafie danno spesso più fastidio i secondi che i primi.
IN SARDEGNA LA MAFIA NON ESISTE. ANZI: FORSE NON ESISTE.
Questa riflessione mi è tornata in mente nei giorni scorsi in due occasioni. La prima è stata una chiacchierata con il procuratore generale della Sardegna, Ettore Angioni, che manderò in onda nella mia trasmissione “Un abuso al giorno” su Radio 24 nei prossimi giorni. Sentirete – mi rivolgo a chi avrà la bontà di seguirla – che Angioni afferma che in Sardegna non esiste la mafia, nel senso classico del termine (ma qual è il senso non più classico ma moderno del termine? Su questo bisogna interrogarsi. Tutto il resto, come diceva il mio grande concittadino-filosofo Franco Califano, è noia). Nessuno lo mette in dubbio, tantomeno io, che la mafia bel senso classico in Sardegna non esiste: il paladino di questa teoria che i sardi portano al petto come uno sceriffo la propria stella è Pino Arlacchi. Scrissi di criminalità organizzata in Sardegna già alcuni mesi fa in questo blog e fui duramente attaccato da molti lettori sardi, alcuni dei quali mi hanno anche gratificato di graziosi insulti nati a catena sulla Rete, attraverso siti e blog che ripresero quell’articolo (si veda il post del 26 settembre 2008).
Siti, blog e insulti che ricevo con amore ma con eguale amore chiedo agli stessi estensori: ma è il caso o no, invece di cullarsi sugli allori di una inesistente isola felice, di affrontare il tema dilagante di una criminalità che, dimentica del romantico ma spietato banditismo, dilania sempre più il tessuto connettivo di questa splendida terra? Secondo me è il caso ma vedete voi. Io non devo convincere nessuno. Fatto sta, che la si voglia chiamare mafia o la si voglia chiamarla “patagarru” (parafrasando gli sketch di Aldo, Giovanni e Giacomo) non passa giorno che in Sardegna la criminalità organizzata (la chiamano così i giornalisti e gli inquirenti locali, non io) non colpisca con atti intimidatori un amministratore locale, no gestisca ogni losco traffico a partire dalla droga, non bruci l’azienda di un imprenditore o non costringa un magistrato a vivere blindato per le delicate indagini che sta svolgendo.
E sì, è il caso di Domenico Fiordalisi, capo della Procura di Lanusei in Ogliastra. Un calabrese che da quando è arrivato sull’isola, 8 mesi fa circa, ha cambiato volto alla Procura rivitalizzando inchieste scivolate da anni nei cassetti chissà perché. E, di conseguenza, rompendo parecchio le scatole alla locale criminalità (più o meno organizzata). Bene, il risultato è che dopo continue e vigliacche minacce, la famiglia del magistrato è stata costretta a tornare a vivere in Calabria, mentre Fiordalisi vive blindato nel locale carcere con misure di protezione senza precedenti. Ma in Sardegna la mafia classica (pardon: la criminalità organizzata) non esiste, anche se in Gallura e Costa Smeralda la cosca crotonese Ferrazzo, egemone a Mesoraca, stava (sta?) investendo milioni prima che intervenisse la Dda di Milano. E la mafia classica non esiste anche se il 3 marzo di quest’anno (non 100 anni fa) a Marbella in Spagna, paradiso dei latitanti, è stato arrestato Giuseppe Utzeri, re del narcotraffico sardo. Questo ex poliziotto – è stato nella scorta dell’ex ministro ballerino e riccioluto Gianni De Michelis ai tempi della Prima Repubblica – era, secondo le prime indagini, in stretto contatto con pezzi grossi di Cosa Nostra di Trapani e della ‘ndrine di Palmi. Fatto sta che lo stesso Fiordalisi – che di cosche se ne intende essendo nato in una terra dove la mafia la respiri nell’aria anche quando tira sabbia – timidamente accenna in contraddittorio radiofonico con il suo Procuratore generale che forse le cose stanno cambiando anche in Sardegna. Forse. In attesa di conferme, la mafia classica, in Sardegna, non esiste. E quella moderna?
NEPPURE IN TOSCANA LA MAFIA ESISTE MA INTANTO BRUCIA E UCCIDE
La seconda volta che mi è venuta in mente la riflessione sulla differenza tra inquirenti e investigatori da una parte e giornalisti dall’altra è stata quando ho letto la relazione sulla Toscana scritta dal sostituto procuratore nazionale antimafia Carmelo Petralia e consegnata a fine 2008 nelle mani del suo capo, il procuratore Piero Grasso che ha predisposto la relazione sulle mafie della Dna (ho il brutto difetto di leggere le carte). Petralia scrive testualmente a pag. 493 che in Toscana si conferma: 1) un tendenziale ricambio dei diversi soggetti criminali, 2) una loro sostanziale delocalizzazione, 3) l’impossibilità per i medesimi di praticare forme tipicamente mafiose di controllo del territorio. Scrive anche, a pag. 494, che esiste però la possibilità per “i gruppi criminali organizzati, di “confondere” le proprie iniziative, e in particolare quelle propriamente e direttamente a sfondo economico-patrimoniale (si pensi ai delitti di riciclaggio e di reimpiego di capitali di provenienza illecita, ma anche al condizionamento del mercato degli appalti pubblici), con quelle di operatori economici che si muovono nell'ambito della legalità, di talché si determinano situazioni nelle quali non solo si inseriscono fattori di inquinamento del mercato dei beni e dei servizi ma anche si determinano condizioni che rendono sostanzialmente indecifrabili i fattori di inquinamento medesimi. Sulla scorta di queste considerazioni introduttive non è difficile comprendere le ragioni per le quali le indagini della Procura di Firenze, a partire dagli anni ’80, debbano in tema di criminalità organizzata continuamente ottimizzare la messa a fuoco anche delle metodiche di investigazione, onde non compromettere un corretto allineamento con pratiche delittuose di diversa estrazione (e relative sub-culture criminali), talora riconducibili anche a realtà collegate a organizzazioni criminali storiche, quali “cosa nostra”, alla “camorra”, alla “‘ndrangheta”, alla “sacra corona unita” ed al banditismo sardo.” Ora, questa analisi – che giudico ottima anche nella parte in cui richiama come organizzazione criminale il “banditismo sardo”, oh yeah! – come ogni cosa al mondo (tranne la morte) è però opinabile. O meglio ancora: integrabile. E per argomentare quel che penso, parto da un a celebre frase di Agatha Christie: un caso è un caso, due casi fanno un indizio, tre forse sono una prova. E quattro? Lo scoprirete solo…leggendo.
UN CASO, DUE INDIZI, UNA PROVA E…
Ebbene. Il mio amico Pino Bianco, già alla Dda di Reggio Calabria (colgo l’occasione per salutare lui e Morena), sta seguendo le indagini sulla morte di Stefano Ciolli, morto carbonizzato il 15 giugno 2008 a San Casciano Val di Pesa. Da ciò che sembra emergere questo imprenditore-spedizioniere fiorentino, era in contatto con ambienti di Cosa Nostra. Bum direte voi! Bum lo anno fatto invece il 28 marzo 2009 gli otto camion di una ditta (ancora di spedizioni) a Calenzano (Firenze). Il rogo è avvenuto nella ditta Greco che – secondo quanto sta emergendo – ha visto entrare nel capitale societario Paolo Ciolli, fratello del morto ammazzato quasi un anno fa. Il 6 aprile 2009 a Per
etola (sempre in provincia di Firenze) 4 furgoni e 2 auto hanno ancora fatto bum-bum e hanno preso fuoco. Anche in questo caso la magistratura sta indagando. Bene: una ditta di spedizioni in provincia di Firenze con un morto ammazzato è un caso, due ditte di spedizioni colpite sono un indizio, tre possono essere una prova. La prova – forse – che le mafie hanno le idee chiare dei business e dei modi in cui penetrare fino a controllare (è questo l’obiettivo finale) parti intere dell’economia e della società. Ah dimenticavo, scusate: il 6 febbraio 2009 in Via Orazio Vecchi a Firenze, a due passi dalla sua ditta “Gass Express”, è stato gambizzato l’imprenditore Marco Garrisi. Su questo episodio, ovviamente, stanno proseguendo le indagini, anche se sembra che l'attentato sia opera di persone che volevano mettersi in proprio e rilevare in questo modo violento il pacchetto clienti (una delle persone arrestate era la segretaria dell'imprenditore). Qual era il suo ramo di attività? Toh: spedizioni nazionali e internazionali! Non sta a me dire se 4 casi sono una prova provata degli interessi delle mafie che aggrediscono economia e società toscana, la condizionano o la governano ma, senza starvi a tediare con le decine e decine di inchieste aperte in Toscana sulle infiltrazioni di Cosa Nostra, Camorra, ‘ndrangheta anche in cordata con le mafie straniere (a partire da quella russa e cinese), vi riporto, sinteticamente un splendido rapporto del mio amico Enzo Ciconte, studioso tra i più grandi della criminalità organizzata.
LE MAFIE IN TOSCANA: CARATTERISTICHE ED EVOLUZIONE
In questo studio – si badi bene: datato 19 dicembre 2008 – Ciconte enumera la bellezza di 78 famiglie di Camorra, Cosa Nostra e ‘ndrangheta presenti in Toscana: 15 in provincia di Lucca, 6 a Massa Carrara, 3 a Pisa, 4 a Livorno, 2 a Grosseto, 12 a Pistoia, 4 a Prato, 23 a Firenze, 9 ad Arezzo e 1 a Siena. Ma sono “fantastici” (ironizzo, ovvio) gli interessi che vale la pena riportare integralmente e che secondo me sono stati stimati in difetto:
1) esercizi commerciali nella Val di Nievole
2) bische, estorsioni ed edilizia nella provincia di Massa Carrara
3) turismo e bische in Versilia
4) terreni, immobili, commercio, credito e gioco d’azzardo in provincia di Livorno
5) soldi falsi e usura in provincia di Grosseto
6) alberghi, negozi e bische in provincia di Pistoia
7) aziende tessili, commercio di abiti usati e locali notturni in provincia di Prato
8) movimento terra, edilizia, controllo di agenzie bancarie di piccole dimensioni, gioco d’azzardo, riciclaggio e rapine in provincia di Firenze
9) truffe con aziende agricole e investimenti immobiliari in provincia di Arezzo
10) aziende agricole e appalti in provincia di Siena
Detto e riportato quanto sopra, in Toscana le mafie (non quelle classiche!) secondo voi stanno acquisendo sempre più il controllo del territorio? Io la risposta ce l’ho: e voi? Ma a non voler essere assertivi ma dubitativi (e il dubbio anima sempre il bravo giornalista) mi limito a indicarvi un’altra buona lettura (oltre alle pagine della Relazione 2008 della Dna che potete trovare su www.casadellalegalita.org). Si tratta del Rapporto annuale 2008 sulla legalità in Toscana della Fondazione Antonino Caponnetto di Firenze, che troverete sul sito www.antoninocaponnetto.it. Ebbene, la premessa al ricco indice è tutta un programma (da prendere sul serio): “La Toscana non è terra di mafia ma la mafia c’è e non dobbiamo abbassare la guardia.” E – aggiungo umilmente – la guardia non va abbassata neppure nelle altre regioni, isole comprese, come dicono nelle loro pubblicità…gli spedizionieri.
roberto.galullo@ilsole24ore.com