Questo è un post – lo metto subito in chiaro – che non avrei mai voluto scrivere. E dico subito il motivo: segna due punti a favore delle mafie. Due a zero e palla al centro nel momento in cui la repressione dello Stato mette a segno colpi importanti. La prevenzione, ahimè, invece si divide.
Un “uno-due” sul ring dell’antimafia terrificante che – sono certo – farà godere come pazzi coloro i quali soffiano sul fuoco delle divisioni interne dei tanti fronti che in tutta Italia, giorno dopo giorno, pazientemente e certosinamente, cercano di tirare su un muro di legalità più alto di quello dell’illegalità. In modo da guardare i criminali e i mafiosi dall’alto in basso e vederli per quello che sono: vermi la cui nudità ne evidenzia pavidezza e debolezza.
Dico subito che non mi interessa prendere parte alle contese che ora denuncerò anche perché non appartengo a nessuna parrocchia dell’antimafia e non mi interessa farne parte. Mi piace schierarmi solo ed esclusivamente con il mio lavoro: i miei articoli, le mie inchieste sul Sole-24 Ore, su Radio24 e le riflessioni su questo blog.
Mi interessa però – da osservatore e cittadino – gridare il mio stupore e invitare chi lotta contro le mafie a non spaccarsi e offrire un facile gioco di sponda per il colpo in buca dell’avversario.
Mi interessa – infine – affermare che non ci sono totem dell’antimafia, c’è solo l’esempio giornaliero di tante piccole formiche operose che si rifanno – nell’opera quotidiana – ai principi e ai valori di legalità di uomini di fronte ai quali mi sento piccolo, piccolo, piccolo…
Sul ring dell’antimafia sale Benny Calasanzio Borsellino, giovane giornalista che anni fa – adolescente – ha perso in Sicilia zio e nonno per mano della mafia. Da allora conduce una battaglia senza quartiere contro Cosa Nostra che gli ha rubato la giovinezza e dalla Toscana – dove vive e lavora – lancia il suo integralismo morale contro chi si “macchia”. Basta leggere il suo libro “Disonorevoli nostrani”, commentato in questo blog, per comprendere la sua rettitudine.
Benny Borsellino Calasanzio ha visto una macchia sul vestito immacolato della Fondazione Antonino Caponnetto e l’ha chiamata (o forse è stato chiamato, non lo so e non mi interessa) a salire sul ring dell’antimafia vera. Non quella parolaia. E giù botte da orbi tra un giornalista-uomo da una parte e, dall’altra, il presidente della Fondazione e la vedova di Antonino Caponnetto, padre del pool antimafia di Palermo, che io non ho mai conosciuto ma che ho sempre sentito accanto a me. Io, figlio di un generale dell’Esercito tutto “Dio, Patria e Famiglia”, nipote di internati nei campi di concentramento e con un albero genealogico zeppo di appartenenti alle Forze dell’Ordine che hanno sempre tenuto alto il vessillo della legge e della legalità, vedevo in lui il custode dei valori e dei principi innaffiati su chi voleva assorbirli.
La macchia – per Calasanzio Borsellino – ha un nome e un cognome: Maria Grazia Laganà, onorevole del Pd, vedova di Francesco Fortugno, vicepresidente del consiglio regionale calabrese, trucidato dalla ‘ndrangheta il 16 ottobre 2005. Laganà – sostiene Benny Calasanzio Borsellino – non avrebbe dovuto partecipare a un vertice antimafia organizzato a novembre a Firenze dalla Fondazione. Troppe ombre sul suo passato, anche giudiziario e sul suo presente – sostiene il giovane giornalista scrittore – e troppe ombre sul suo futuro, come dimostrano alcune inchieste della magistratura che la chiamano direttamente e indirettamente in causa attraverso il fratello, vicino (almeno telefonicamente) a un indagato per concorso esterno in associazione di stampo mafioso: l’ex sindaco calabrese (arrestato) di Gioia Tauro, Giorgio Dal Torrione. Difficoltà – passate, presenti e future – che l’hanno lasciata fuori dall’ultima Commissione parlamentare antimafia, dove sedeva fino alla scorsa legislatura (per lei, la prima).
Gli invitati – gli ha risposto in sintesi “nonna Betta Caponnetto” come lei stesso si definisce, e la sua lettera vergata a mano è visibile sul sito www.bennycalasanzio.blogspot.com – li decido io. Punto. Tutti giù dal ring.
Dalla Toscana alla Liguria, dove su un angolo del ring sono saliti questa volta i ragazzi della “Casa della legalità” (www.casadellalegalita.org) e, nell’altro angolo, suo malgrado, avrebbe dovuto salire un pezzo di storia contemporanea: Libera che, come molti sapranno, è nata dalla mente di don Luigi Ciotti, un prete bellunese nei confronti del quale mi sento piccolo, piccolo, piccolo…
Ebbene, senza tanti giri di parole, l’accusa nei confronti di Libera (www.libera.it), che piove dal sito di questi ragazzi e ragazze liguri che ogni giorni denunciano a squarciagola il malaffare delle mafie al Nord, è che l’Associazione presieduta da don Ciotti è diventato un partito, un totem, vincolato dagli uomini di potere e dalla sete di potere. Un’associazione nata in Liguria il 23 novembre (alla guida è stato chiamato il 32enne Matteo Lupi), che avrebbe fatto a meno di dialogare e confrontarsi con molte associazioni antimafia radicate sul territorio come, a esempio, proprio la Casa della Legalità, animata da Christian Abbondanza e della sua compagna Simona Castiglion. “L‘asse Unipol-LegaCoop-Cgil-Arci si è fagocitata Libera in Liguria”, scrive testualmente il Comitato di presidenza della Casa della Legalità. Peggio. Scrive – rilanciando il titolo di un servizio del sito www.democrazialegalita.it diretto da Elio Veltri, un tipino talmente integralista
da essersi staccato dal pasdaran Antonio Di Pietro con cui faceva fino al 2001 coppia fissa – che Libera “è fagocitata dal Partito del Cemento”. Una frase fatta, presa in prestito dal libro di Marco Preve e Ferruccio Sansa.
Libera non ha neppure preso in considerazione l’idea di salire sul ring, ma non ha gettato la spugna prima di salire. No e so (almeno credo di sapere) perché: a don Ciotti interessano i fatti e non le parole. Ancor meno le botte da orbi tra chi dovrebbe stare dalla stessa parte.
Riprendo, però dal sito di Libera, proprio una frase di Don Ciotti: "non fare sconti a nessuno". Ecco, perdonerete adorati amici del blog, ma da sempre non faccio sconti a nessuno (neppure a me stesso) e ricordando le parole di Giovanni Falcone, secondo il quale "la mafia ha paura della scuola non della giustizia", mi domando e vi domando: ma questa scuola di violenza verbale a chi giova?
roberto.galullo@ilsole24ore.com