Eccole qui – cari amici di blog – due proposte stagionate (gallina vecchia fa buon brodo) per capire veramente chi è dalla parte della legalità e chi no.
Visto che non c’è nulla di più inedito del già scritto (è un vecchio adagio giornalistico) vi sottopongo un test facile facile: basta barrare virtualmente la casella “sì” e non prendere neppure per un istante in considerazione la casella “no”.
Il test lo giriamo paro paro ai nostri parlamentari e a nostri magistrati impegnati nella lotta alla mafia, che potrebbero metterci un secondo ad aderire alle proposte.
Andiamo con il primo test. Ho sempre sostenuto – a partire da ciò che ho scritto in questo blog il 4 luglio e che vi invito a rileggere – che il regime di carcere duro, il cosiddetto 41bis, non solo è importante, ma è vitale. Ma il carcere duro – che qualcuno continua a ritenere inumano a disumano – a mio avviso non basta.
Il motivo è semplice e l’ho scritto e detto tante volte, “rubando” il pensiero a persone più competenti di chi scrive: eludere il 41 bis è la cosa più facile del mondo. Non mi dilungo su questo argomento e rimando al post di luglio ma ricordo – a titolo di esempio – i coloqui con gli avvocati.
Ora aggiungo di più e so che mi farò una nuova categoria di “amici” (non bastassero quelli che ho già): gli agenti di polizia penitenziaria sono una categoria facilmente “avvicinabile”. Non dico coruttibile (ma attenzione, c’è anche questo), ma sicuramente avvicinabile.
Sapevate a esempio – diletti amici di blog – che gli agenti di polizia penitenziaria nel 99,99% dei casi non vengono perquisiti né all’ingresso né all’uscita dal penitenziario in cui prestano servizio? E se anche lo sono è di fatto un controllo formale e non accurato, atteso che viene svolto da colleghi?
Ma dico di più: la preparazione professionale e culturale degli agenti è (salvo eccezioni lodevoli) scarsissima e – nota dolentissima – nelle carceri del Sud gli agenti sono spesso originari proprio delle regioni e persino delle province e dai paesini da cui provengono boss o mezze calzette delle mafie, reclusi.
Facilmente ricattabili: ecco cosa sono gli agenti. Loro e le loro famiglie. Direte: ma se la maggior parte dei capi mafia si trova nelle carceri del Nord (specialmente a Milano) cosa c’entra il tuo discorso? Beh, provateci voi a trovare a Milano un agente di custodia che non sia campano, siciliano, sardo o calabrese. E per carità di Dio non voglio sentire il discorso che lo stipendio non vale la candela e dunque è difficile resistere alle tentazioni. Zero, ecco cosa vale questo discorso. Un Uomo (nel senso sciasciano del termine) non ha prezzo.
E vengo al dunque: per isolare i boss delle varie mafie (comprese quelle internazionali) vanno riaperte le carceri di Pianosa, Gorgona e Favignana, accompagnando la permanenza dei boss con direttori di Istituto preparati e un corpo scelto di agenti. Magari, perché no, si potrebbe anche costruire qualche carcere in qualche altro isolotto italiano. La proposta – di una banalità sconcertante – non è nuova. L’ha rilanciata Nicola Gratteri, magistrato della Dda di Reggio Calabria, il 31 ottobre nel corso della trasmissione “Viva voce” a Radio24, ma il giorno prima l’aveva già lanciata il parlamentare del Pd Beppe Lumia (ex presidente della Commissione nazionale antimafia).
Ora: siete d’accordo o no su questa proposta? I boss e i loro quaquaraqua vanno “isolati” non solo all’interno dei penitenziari ma anche fisicamente. Vanno accerchiati solo ed esclusivamente da personale preparato e al di sopra di ogni sospetto. Cari parlamentari che ne pensate? Non sarà il caso di cambiare il codice penale? Una birra insieme al bar – destra e sinistra – e dopo via, si vota tutti insieme per il carcere duro, anzi durissimo.
E veniamo alla seconda proposta semplice semplice per condurre una lotta seria al fenomeno della criminalità organizzata. Questa volta faccio mia l’idea di Alberto Cisterna, magistrato della Direzione nazionale antimafia. Cosa dimostrano le ultime retate contro le mafie? E parlo di quelle odierne contro il clan Gionta, di quelle in Calabria contro le cosche Piromalli e Pelle? Che quando lo Stato vuole colpisce e colpisce duro ma, soprattutto, in maniera mirata (a partire, ricordatevelo sempre, dai patrimoni, il segno del comando).
Ebbene: c’è bisogno di concentrarsi con un forzo superiore di intelligence sue quelle “poche” famiglie di ‘ndrangheta, Cosa Nostra e Camorra che infestano il territorio nazionale (e non solo).
Cisterna ricorda che se ogni anno si combattessero 10 cosche diverse in Calabria, ci vorrebbero 10 anni per aggredirle tutte (le cosche sono infatti più o meno 150 in Calabria). E con quali risultati? Che dopo 10 anni bisognerebbe ricominciare tutto daccapo dalle prime. Morale: il lavoro si disperde e gli obiettivi pure.
Meglio allora concentrasi sulle cosche “fuoriclasse”, quelle che dominano il mercato della droga, degli appalti e di ogni altro commercio illegale. Quante saranno mai in Calabria? 10-15? Bene: va condotta una lotta spietata contro quelle 10 o 15 cosche fino a prosciugare non solo la manovalanza e i capi ma soprattutto i patrimoni. Inutile rincorrere per il campo 150 avversari: meglio inseguirne pochi ma decisivi. E via con lo stesso discorso in Sicilia, in Campania, in Puglia e su per li rami in tutta Italia.
Certo che qui il sostegno dello Stato è fondamentale: uomini e risorse innanzitutto per rafforzare l’operazione di intelligence e l’impegno quotidiano: nei commissariati così come nelle Procure.
Ma con i tagli che il Governo ha introdotto come si fa? E allora cari parlamentari, via, altro giro di birra e altro intervento in Parlamento: più soldi e strutture e a chi combatte davvero il fronte marcio delle mafie. Il resto deve farlo l’organizzazione dei magistrati e qui si apre un altro capitolo, dove le gelosie spesso prendono il sopravvento sul lavoro di squadra (ricordate i pool palermitani? Ebbene non ci sono più, neppure a Palermo). Da qualche parte, però, biosgna pur cominciare.
roberto.galulo@ilsole24ore.com