Mafia: la linea della palma si alza (dalla Sicilia a Legnano)

San Giorgio su Legnano, Sinopoli, Foggia 27 e 28 settembre 2008. E poi ancora – solo per restare negli ultimi mesi – Gallura, Cesena, Firenze, Bologna, Padova e Fondi. A questo secondo appello mancano Campania, Calabria e Sicilia dove la violenza e la morte non fanno più notizia. Nell’elenco completo ci sono invece una metropoli e una data lontana nella clessidra delle politica ma vicinissima nel cronometro delle mafie: Milano-Expo 2015.

Luoghi e date diverse, un solo filo comune avvalorato dalle inchieste della magistratura e dalle indagini delle Forze dell’Ordine: la criminalità organizzata che sta divorando ovunque parti sane dell’economia e della società civile senza guardare in faccia a nessuno: supremazia sul territorio (Sinopoli) speculazione immobiliare (Gallura), traffici di droga e mattone (San Giorgio su Legnano), droga (Foggia), investimenti commerciali e finanziari (Cesena), aziende di trasporto (Firenze), locali notturni (Bologna e riviera romagnola), speculazioni immobiliari e  commerciali (Padova), mercato ortofrutticolo (Fondi).  Prima e dopo queste date e queste località – geograficamente cosi lontane tra loro eppure così vicine nel mondo globalizzato dell’economia criminale – centinaia di altre grandi, medie e piccole città sulle quali le mafie vecchie e nuove hanno puntato e stanno ingrassando i loro profitti che valgono – solo in Italia – almeno 44 miliardi all’anno (stime Eurispes).

E’ la linea della palma che si alza. Era il 1970 quando Leonardo Sciascia descrisse a Giampaolo Pansa della “Stampa” questo paragone: così come le palme, da piante esotiche, troveranno nuovi terreni fertili verso il nord del pianeta su cui mettere radici man mano che il clima diventerà più caldo, così la mafia risalirà la Penisola.

Previsto, detto, fatto. Da anni l’Italia è stata fertilizzata con il concime naturale su cui Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra crescono e si espandono fuori dalla Sicilia, dalla Calabria e dalla Campania: Governi e opposizioni cieche, Parlamento addormentato, amministrazioni locali disattente, Chiesa isolata o divisa, classe imprenditoriale impaurita e società civile apatica.

Dall’agenda della politica nazionale il tema delle mafie sembra ormai cancellato. L’ultima campagna elettorale ne è stata la dimostrazione: la parola mafia non esisteva né a destra né a sinistra. Al centro non ne parliamo.

Il Parlamento ha assecondato negli anni il comportamento dei leader politici nazionali. Le leggi che avrebbero potuto e dovuto mettere gradualmente nell’angolo la criminalità organizzata si sono fatte prima attendere e poi sono rimaste nel cassetto. La lotta al riciclaggio, la tracciabilità dei flussi finanziari nelle grandi opere e l’aggressione ai patrimoni delle cosche attraverso rapide confische erano e rimangono un’utopia.

Eppure già negli anni Ottanta un giovane magistrato trasferito da Trapani a Palermo capì immediatamente che per colpire Cosa nostra si dovevano inaridire i portafogli dei boss, perché un mafioso può mettere nel conto carcere e morte ma non il sequestro delle ricchezze, segno del comando e del rispetto sul territorio. Quel giovane magistrato si chiamava Giovanni Falcone.

Un Parlamento che – si badi bene – continua a dormire e che questa settimana dovrebbe varare l’ennesima e forse ormai inutile e debole Commissione bicamerale antimafia. A chi scrive, due anni fa, l’onorevole Maria Grazia Laganà, vedova di Francesco Fortugno, vicepresidente del consiglio regionale calabrese trucidato dalle cosche di Reggio il 16 ottobre 2005, dichiarò che “in Commissione antimafia stava imparando tante cose”. Ma c’è bisogno di imparare e o di agire? Di studiare ancora (e cosa che già non si sappia?) o di proporre? L’ultima Commissione bicamerale che (almeno) mise al centro del proprio operato il legame fra mafie e politica fu quella presieduta da Gerardo Chiaromonte. Correva l’anno 1988.

Le amministrazioni locali tirano a campare. Quelle del Sud sono spesso conniventi o tenute sotto scacco, quelle del Nord ritengono ancora che la pervasività delle mafie sia “cosa loro” e non “cosa di tutti”. Eppure basta girare nel milanese, nel reggiano, nel padovano, nel forlivese, nel mantovano, a Genova, Firenze, Roma e Torino per interrogarsi su improvvise ricchezze, attentati alle attività imprenditoriali e commerciali, curiose migrazioni di imprese edili dal Sud e diffusione di racket e usura. Tutto normale? No, eppure Milano – che secondo Vincenzo Macrì, sostituto procuratore nazionale antimafia è la nuova capitale della ‘ndrangheta – si interroga ancora sull’opportunità di istituire una commissione comunale antimafia quando ormai appare chiaro anche ai ciechi che cosche, clan e ‘ndrine hanno messo nel mirino i ricchissimi subappalti in vista di Expo 2015. “Stiamo assistendo a scosse di assestamento della ‘ndrangheta in vista dei lavori di Expo 2015”, ha detto Macrì commentando l’omicidio del mammasantissima “Don” Carmine Novella avvenuto il 14 luglio di quest’anno a San Vittore Olona (Milano), freddato in un bar del centro, come nei film americani che raccontavano la vita dei gangsters con bonomia. Facile prevedere un terremoto se la politica continuerà a girarsi dall’altra parte.

Balbettano anche la Chiesa e la società civile. Per anni le parrocchie del Sud e del Nord sono state in posizione di stallo: sospese tra la denuncia e il calvario. Per la prima volta in decenni – nella Pasqua 2008 – la diocesi di Reggio Calabria, attraverso il messaggio dell’arcivescovo Vittorio Mondello, ha denunciato con forza la ‘ndrangheta. Un segnale incoraggiante, ma una rondine che non fa primavera. Decine di sacerdoti – nel napoletano, nel milanese, nel foggiano e nel reggino – alzano la voce e fanno tuonare quella del Signore contro la violenza. Molti, però, tacciono e spiace ch quest’anno – per la prima volta – il quartiere Brancaccio di Palermo e la parrocchia locale si siano divisi, anziché unirsi, nel nome di un sacerdote che il 15 settembre 1993 ricevette il colpo di grazia dai sicari con un sorriso e una frase “vi stavo aspettando”. Quel prete era Don Pino Puglisi. E spiace che la società civile – che pure a Locri e a Palermo è stata capace di esprimere movimenti incoraggianti – sembri addormentata o forse (maliziosamente) piegata ad altri fini. Ma la società civile, la borghesia del Centro e del Nord dove sono? Dov è la reazione dopo l’omicidio di due giorni fa alle porte di Milano? E dov è l’indignazione nel novarese, nel lodigiano, nel fiorentino e nel bolognese dove pure la cosche si stanno arricchendo con la movimentazione delle terra e il nolo a caldo e a freddo nella costruzione delle linee ferroviarie per l’Alta velocità? Nessuno si interroga s
ul fatto che a Firenze un imprenditore toscano (attenzione: non era del Sud) è stato ucciso perché stava importando tecniche di espansione mafiosa sul territorio con la complicità dei siciliani di Cosa Nostra? Nessuno si interroga in tutte le metropoli e medie città d’Italia che spesso dietro le sale scommesse e le improvvise ricchezze dei gestori ci sono capitali sporchi? Nessuno ha dubbi sulla girandola a Roma delle licenze commerciali nelle vie del centro? E le agenzie di money transfer – come testimonia l’inchiesta 2007 della Guardia di finanza di Ancona – non sono spesso le nuove lavanderie del riciclaggio?

L’imprenditoria, il commercio, i professionisti, il sindacatao, l’agricoltura e i servizi si stanno – infine – scrollando di dosso la paura. Molto è stato fatto (in Sicilia), qualcosa si sta facendo (in Calabria) e da Roma (con Confindustria nazionale, le associazioni dei commercianti e degli agricoltori) l’appoggio non manca. Ma un tassello non c’è ancora: la reazione degli imprenditori grandi e piccoli del resto d’Italia, perché le infiltrazioni dei capitali sporchi e il riciclaggio non si fanno a Crotone, ad Agrigento, a Caserta o in Capitanata, ma nel Centro-Nord, ancora ricco e appetibile.

Imprenditori, costruttori, politici, Chiesa, società civile, levate (leviamo) la vostra (la nostra) voce dal Nord e dal resto d’Italia, perché l’Expo 2015 per le mafie è ormai alle spalle e mentre le pistole sparano, le Forze dell’Ordine e la magistratura fanno i conti con i tagli agli investimenti e la gente comune è disorientata, i boss pianificano, investono e mangiano: la nostra vita e il nostro futuro.

roberto.galullo@ilsole24ore.com

  • GIUSEPPE IACOPINELLI |

    Mi domando perchè solo tre persone delle 15 che sono parte offesa nel processo sciacallo si sono costituite parte civile . O agli altri tredici è venuta la sindrome di Stoccolma , oppure non si possono pagare un legale! Perchè il paradosso sta proprio qua : se un imputato chiede il patrocinio gratuito lo può ricevere , se invece lo chiede una parte offesa non gli è consentito. Mi domando dove è finita l’ associazione antiraket e antiusura di Licata presieduta da don Totino Licata!!!!!

  Post Precedente
Post Successivo