Anna Canepa, Francesco Curcio, Diana De Martino, Antonio Patrono, Roberto Pennisi, Leonida Primicerio, Elisabetta Pugliese, coordinati da Giusto Sciacchitano, sono i sostituti procuratori nazionali antimafia che hanno elaborato la parte relativa alla ‘ndrangheta bella relazione della Dna presentata due giorni fa a Roma dal capo della Procura Franco Roberti e dalla presidentessa della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi.
Mercoledì e ieri, su questo umile e umido blog, avrete seguito la parte relativa alla mafia “borghese” di Reggio Calabria e all’unicum rappresentato dallo scioglimento del consiglio comunale della città sullo Stretto, oltre al fatto che il “cervello” della ‘ndrangheta risiede a Reggio Calabria.
Oggi si prosegue sulla stessa falsariga, analizzando ancora la capacità delle cosche reggine di legarsi alla politica (e condizionarla). Un’analisi che, a mio modestissimo e fallace avviso, testimonia in pieno il male capitale della Calabria: vale a dire la conoscenza delle mani mafiose che vengono strette e, al tempo stesso, la gioiosa felicità nello stringerle e con esse firmare affari. Quand’anche fosse assente la felicità subentra una apatia che spinge a voltarsi dall’altra parte e prestare dunque il fianco, con questi atteggiamenti omertosi, alla morte inevitabile delle speranze di rinascita di un popolo soggiogato dai sistemi criminali e dal senso sbagliato di “appartenenza”. In questo gioco al massacro la politica, ben oltre i confini calabresi, è motore indispensabile.
Un caso emblematico, scrive la Dna, è quello che ha riguardato l’armatore ed ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena, condannato in via definitiva, il 5 giugno 2013 dalla Corte di cassazione, per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, nonché protagonista di una lunga e perdurante latitanza in relazione alla quale, fra gli altri, è imputato l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola, che a luglio 2014 è stato rinviato a giudizio proprio per avere agevolato Matacena a sottrarsi all’esecuzione della pena.
Si tratta di un caso che consente alla Dna di sviluppare alcune considerazioni che appaiono pienamente coerenti rispetto alla ‘ndrangheta borghese.
Innanzitutto dalla sentenza risulta accertato che Matacena era diventato il referente politico nazionale della cosca Rosmini, dunque di una quelle famiglie dell’elite ‘ndranghetista di Reggio città. «La sua elezione al Parlamento nazionale risultava, quindi – si legge nel documento a pagina 30 – propiziata dalla sua disponibilità ad appoggiare sia in sede politica che giudiziaria, le istanze e le richieste provenienti dalla cosca cittadina dei Rosmini ricevendo in cambio un incondizionato appoggio elettorale».
La Dda di Reggio Calabria, nell’indagine condotta dai pm Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio (quest’ultimo “ufficiale” di collegamento della Dna), sotto la supervisione del capo della procura reggina Federico Cafiero De Raho, ha evidenziato come il legame fra Matacena e le cosche reggine fosse confermato da recenti indagini il cui esito è stato depositato sia nel dibattimento a carico di Scajola e degli altri coimputati (per i reati di fittizia intestazione di beni e procurata inosservanza della pena) sia nel giudizio che si sta celebrando con il rito abbreviato.
Alla Dda di Reggio risulta in particolare che, a seguito di quel patto illecito, Matacena, attraverso una serie di schermi costituiti da società a lui riconducibili, ha acquisito un ruolo centrale nella realizzazione di quasi tutte le grandi opere svolte a Reggio Calabria nell’ultimo ventennio, opere in relazione alle quali risultavano preminenti non solo gli interessi della cosca Rosmini ma quelli dell’intera ‘ndrangheta cittadina. «Date queste premesse, la stessa vicenda della latitanza del Matacena in se’ considerata, caratterizzata dalla indiscutibile notorietà, anche mediatica, della conferma della sentenza di condanna definitiva per 110 -416 bis cp – si legge ancora nelle riflessioni delle Dna – assume, ai fini che qui interessano, un significato pregnante».
Emerge, infatti, al di là delle singole responsabilità penali che saranno accertate in sede giudiziaria che, nonostante questo (notorio) curriculum, addirittura divulgato dai mezzi d’informazione, rispetto al quale, in tutta evidenza, «nessuno poteva affermare di “non sapere” », Matacena, anche da latitante (e non solo da condannato per ‘ndrangheta in secondo grado) ha continuato ad avere rapporti intensi e stabili con esponenti di primo piano della politica e del mondo degli affari. «Matacena, insomma, oggettivamente, e partendo proprio dall’ultima osservazione che si è fatta – continuano i pm nella relazione della Dna – a prescindere dalla sua stessa volontà, rappresenta la perfetta concretizzazione – si direbbe, impermeabile a qualsiasi avversità – delle inossidabili caratteristiche relazionali che deve avere, per la ‘ndrangheta, il politico (e l’imprenditore) colluso. E la circostanza che il Matacena avesse un legame preferenziale proprio con la cosca Rosmini, spiega perfettamente – ed ancora una volta, in modo assolutamente esemplare – quello che si è cercato di dire nelle pagine precedenti a proposito della superiore e specifica capacità della ‘ndrangheta di Reggio città di intrattenere rapporti con soggetti di alto profilo che, a loro volta, sono punti di partenza potenziali per allacciare, direttamente o indirettamente, nuovi ed ulteriori collegamenti con altri soggetti insediati nei piani alti della politica, delle istituzioni e dell’economia, in modo da calare l’intero sistema ‘ndranghtistico in una rete di rapporti che consente una penetrazione sempre più profonda nella parte che conta del Paese».
Ma ancora altro, di questa vicenda, sempre per la Direzione nazionale antimafia merita di essere evidenziato.
La Dna si riferisce in particolare alla circostanza di fatto – emersa in altri procedimenti, ma acquisita poi in quello principale con i vari stralci – che Amedeo Matacena – a prescindere dalla valenza penale della vicenda – avesse contatti, anche, con esponenti di primo piano di cosche operanti nella Piana di Gioia Tauro e nel catanzarese (fra cui quella guidata da Francesco Pino, attualmente collaboratore di giustizia). Dagli atti d’indagine risultava che con loro Matacena aveva incontri diretti, finalizzati alla risoluzione e alla mediazione in complessi affari e dai quali riceveva l’impegno di un pieno appoggio in favore di candidati da lui sostenuti e a lui vicini in occasione di tornate elettorali. «Evidente, ai nostri fini – specifica la Dna – il rilievo dei fatti appena richiamati: tenuto conto della circostanza che (all’epoca) i gruppi di ‘ndrangheta in questione, erano certamente legati al “Crimine di Polsi”, si comprende come il fatto sia dimostrativo, ancora una volta, del ruolo svolto dalle cosche di Reggio città. Vale a dire quello di mantenere, nell’interesse di tutta la ‘ndrangheta, i rapporti con la politica “alta”. In questo caso infatti, seppure il legame forte del Matacena, accertato giudiziariamente, era quello con i Rosmini che creavano il canale diretto con il politico, questo legame, tuttavia, lungi dall’essere riservato esclusivamente alla predetta cosca e, quindi, gestito in modo monopolistico, si estendeva alle altre componenti della ‘ndrangheta, operanti in territori lontani e diversi».
Proprio questa particolare conformazione della ‘ndrangheta di Reggio città, questa sua specifica attitudine al rapporto con i ceti dirigenti, trova conferma e controprova nella diversa dislocazione e composizione delle proiezioni nazionali ed estere delle cosche del mandamento di centro, che anche in questo, presentano peculiarità rispetto a quelle dei mandamenti della Tirrenica e della Ionica.
Per ora ci fermiamo ma la prossima settimana si ricomincia.
r.galullo@ilsole24ore.com
3- to be continued (per la precedente puntata si legga http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2015/02/25/relazione-dna1-la-ndrangheta-borghese-di-reggio-il-comune-un-unicum-come-nemmeno-la-palermo-ruggente-di-cosa-nostra/