Cari e amati lettori di questo umile e umido blog, dalla scorsa settimana scrivo dell’indagine Mammasantissima della Procura di Reggio Calabria (ma molto ne ho già scritto sul Sole-24 Ore).
Come spiegavo nei giorni scorsi (rimando al link a fondo pagina) per capire a fondo questa indagine e tutte le sue variegate sfaccettature, una più importante dell’altra, bisogna riannodare il filo della storia e ripartire dal 4 dicembre 1992 e da una storica deposizione in Commissione parlamentare antimafia del pentito di San Cataldo (Caltanissetta) Leonardo Messina.
Messina in quella audizione parlerà del gioco a incastri – anche nelle posizioni, cangianti e mutevoli, di alleanze, dominio e predominio – tra le mafie mondiali. Vale a dire 24 anni fa parlò di cose che oggi appaiono scandagliabili ma che, con una più attenta regia istituzionale, avrebbero potuto essere immediatamente perseguite.
Oggi voglio spostare l’attenzione su un tema assai delicato e lo faccio ponendovi un indovinello. Qual è, a vostro giudizio, la capitale italiana della mafia? O perlomeno dove si sviluppano e gestiscono strategie criminali mafiomassonico deviate?
C’è chi risponderà Corleone, chi San Luca, chi Casal di Principe, chi Messagne. Magari a seconda della provenienza geografica, delle proprie convinzioni oppure delle singole conoscenze o convinzioni.
Nulla di più sbagliato.
Detto che è bene, a mio sommesso giudizio, rifuggere dalla nozione di “capitale” della mafia almeno per due buoni motivi – il primo è che in un’epoca di globalizzazione non ha senso ed è molto più logico descrivere una supremazia “liquida” a seconda del momento e della condizione mentre il secondo si lega al primo e cioè non esiste da tempo la singola mafia ma un insieme di organizzazioni criminali che si sposano e divorziano nel nome degli affari che arricchiscono e corrompono e al tempo stesso impoveriscono e depredano – ecco che una sorpresa ci viene riservata dall’interrogatorio del pentito Antonino Fiume (culo e camicia con la cosca De Stefano ai più alti livelli), in riscontro alle dichiarazioni di un altro pentito storico, Filippo Barreca.
Quest’ultimo aveva amabilmente intrattenuto il pm Giuseppe Lombardo sul “consorzio tra mafie”, con particolare riguardo alla componente riservata della ‘ndrangheta (che si interfaccia stabilmente con le omologhe componenti siciliane) e al ruolo delle cosche De Stefano (attraverso Franco Coco Trovato) e Papalia (attraverso Domenico, Antonio e Rocco Papalia)
Ebbene, cosa dirà Fiume nell’interrogatorio del 26 gennaio 2015?
Confermerà il ruolo strategico svolto dalle articolazioni territoriali della ‘ndrangheta operanti in Lombardia nella gestione di un circuito relazionale di più ampie dimensioni, in grado di creare stabili sinergie operative tra le grandi mafie italiane.
Sorpresa!
Come la Lombardia – dirà qualcuno tra voi, anzi più di qualcuno – ma il timone delle organizzazioni criminali non è al sud? La barra non viene tenuta dritta a Palermo, piuttosto che a Reggio o a Napoli?
Certo che si – in Calabria la “mamma è sempre la mamma” – ma i tempi cambiano, i figli crescono e le mamme invecchiano.
Ma invecchiano rapidamente, sarebbe il caso di dire!
Infatti il buon (si fa per dire) Fiume, a domanda risponderà:
«Parlando di armi senza alcun contrassegno è importante sottolineare che quelle di cui disponevano anche i De Stefano erano in realtà gestite dal “consorzio”, che è una mia definizione, che si identificava con un organismo collegiale di vertice composto da più soggetti appartenenti alla ‘ndrangheta, alla camorra, alla Sacra corona unita ed a una parte di Cosa nostra, che in tale organismo era rappresentata da Jimmy Miano e Turi Cappello. Se non sbaglio vi erano anche componenti riferibili ai Madonia.
I componenti di tale struttura di vertice, che aveva sede a Milano ed era stato costituita nel 1986/87, erano: per la ‘ndrangheta …omissis… Franco Coco Trovato e Antonio Papalia».
Si cari lettori di questo umile e umido blog: la struttura, riservata e di vertice, del consorzio tra mafie – chiamatelo Cosa unica, Cosa nuova o come diavolo volete – era a Milano. E non da oggi! Da 30 anni esatti a questa parte! Oggi Milano conta ancora di più, in uno scacchiere di capitali “liquide” e spesso interscambiabili – come accennavo sopra – delle mafie internazionali.
Fiume sciorinerà un’altra serie di nomi e cognomi che di questa struttura fanno parte, parlerà di fratture tra le organizzazioni poi ricomposte, descriverà una serie di accordi e favori reciproci, dipingerà sgarbi e controversie per poi concludere che «il “consorzio”, che era riconosciuto dal vertice del crimine nella persona di Antonio Pelle (e dallo stesso Mico Alvaro), serviva a coordinare tutte le attività illecite che si svolgevano sul territorio nazionale.
Ho avuto modo di apprendere dell’esistenza del “consorzio” direttamente, avendo preso parte ad alcune riunione dello stesso destinate a decidere varie azioni criminose.
Intendo precisare che del “consorzio” facevano parte anche Giuseppe e Carmine De Stefano, attraverso i quali io ho preso parte alle riunioni di cui ho parlato prima.
Il “consorzio” veniva convocato e prendeva le decisioni che riguardavano le azioni criminose più delicate, tra le quali le operazioni ai danni di appartenenti all’organizzazione di tipo mafioso o relative a soggetti che avevano rapporti con la stessa organizzazione. Per consumare gli omicidi eccellenti si verificavano anche scambi di killer tra le varie strutture criminali consorziate».
E qui la Dda di Reggio Calabria tira fuori il memoriale di un altro storico collaboratore di giustizia, Giacomo Ubaldo Lauro, del 10 febbraio 1993, nel quale scriveva: «Ritornando a Cosa Nostra devo ammettere che alcune famiglie calabresi erano e sono ancora oggi dentro a pieno titolo. Posso citarne alcune Piromalli, Rugolo (Nino). Il clan De Stefano tramite i Ferrera-Santapaola. Gli Iamonte, i Gioiosani (Gioiosa Jonica) ed un’altra famiglia di cui non intendo per ragioni personali fare il nome. Comunque ogni famiglia che ha bisogno di “favori”” dai siciliani o napoletani si rivolge a queste famiglie che sa vicine e dentro Cosa Nostra. Poi riferirò un particolare proprio su questo argomento che interessa un uomo d’onore di Bagheria e si riferisce all’agosto ‘92. Così “gira” la ruota. Nel catanzarese la più rappresentativa “Cosa Nostra” è la famiglia Mannolo di San Leonardo di Cutro. Un’altra famiglia importante è la famiglia dei Papalia Trimboli che vivono a Milano (vicino ai Ciulla ed ai Fidanzati) i loro rapporti con i Fidanzati ed i Vernengo sono stabili e duraturi. Altro, per il momento non intendo dire. Desidero però precisare che, nessuno, dico nessuno, può prendere iniziative importanti se non con il bene placido di alcune di queste famiglie le quali si ritrovano unite a Milano-Torino-Genova e trattano assieme il business della droga e delle armi. E lo stesso per le famiglie napoletane e calabresi da parte dei siciliani».
Chiaro no?
No? E allora continuiamo con l’interrogatorio del 26 gennaio 2015 nel quale Fiume continuerà così: «Ho appreso, prendendo parte ad alcune riunioni del “consorzio”, che il predetto aveva un ruolo sovraordinato, all’epoca, anche alla componente di Cosa nostra riferibile a Totò Riina e quindi ai corleonesi.
La componente campana di camorra faceva capo al gruppo Ascione, nelle persone di Raffaele Ascione e dei soggetti a lui legati da apporti di parentela».
Sorpresi che Milano funga da almeno 30 anni se non da capitale da cabina di regia tra le mafie italiane riunite in un “consorzio” o chiamatelo come vi pare?
Beh, allora leggete cosa riporta da pagina 291 e seguenti il Gip Domenico Santoro recependo il lavoro della Dda di Reggio Calabria. Il 20 febbraio 2014, il Pm Giuseppe Lombardo sente nuovamente Filippo Barreca.
Questo il tenore di quanto da lui dichiarato:
«…omissis…
Era Paolo Romeo il deputato (eletto con i nostri voti, gladiatore e che rappresentava l’anello di congiunzione fra Cosa nostra e ‘ndrangheta) di cui riferisco nel verbale del 3.2.1993 alla Dda di Reggio Calabria (…)
Confermo che a Milano – grazie ai Papalia, mi riferisco a Rocco e Domenico che ho personalmente conosciuto – si rinsaldarono i rapporti fra Cosa Nostra e ‘ndrangheta.
Ciò avvenne sulla base di comuni interessi nel settore del traffico di sostanze stupefacenti.
Su questa base di rapporti oramai saldi e pienamente operativi si innestò il c.d. progetto “separatista” voluto e sponsorizzato da Cosa Nostra e dalla ‘ndrangheta.
I collegamenti fra cosa nostra e ‘ndrangheta si intrecciavano in modo coordinato a Milano grazie ai Papalia e a Reggio Calabria grazie a Paolo Romeo. Insomma Paolo Romeo e i Papalia agivano, in questo ambito, come un’unica persona, in esecuzione di un unico disegno. Tutte queste sono circostanze che appresi dai De Stefano. Al momento non ricordo da chi di loro esattamente».
In altre parole, “Milàn l’è semper un gran Milàn!”. Anche per il consorzio tra mafie che sta uccidendo quel che resta di questo Paese.
Ora mi fermo ma domani continuo.
r.galullo@ilsole24ore.com
6 – to be continued
(si leggano
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