Un anno in più. E fanno 24. Esattamente 24 anni senza il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta.
A ricordarsene, anche oggi, saranno tanti, tutti. Compresi quelli – come ha affermato nelle scorse ore il pm palermitano Nino Di Matteo – che in vita lo avversarono.
Così come è facile riempirsi la bocca di Falcone e Borsellino è altrettanto facile riempirsela con la parola antimafia. Zero fatica e grande ritorno, soprattutto d’immagine. Senza dimenticare la carriera, che lievita se dietro la scrivania ci sono le foto dei due eroi morti per la nostra democrazia, oggi avvilita. Una foto appesa, che cosa costa?
Vale allora, forse, rompere un velo di ipocrisia e dire, chiaro e tondo, che le ricorrenze di un’ora, ogni giorno, lo stesso, il 23 maggio, da 24 anni a questa parte servono, soprattutto a Palermo e sotto quella stele che ricorda la strage di Capaci, solo per le foto sui giornali dei coccodrilli di varia natura, in posa per piangere. Presunti servitori dello Stato, presunti colleghi di quei magistrati e di quegli uomini e donne delle scorte, presunti politici, presunti giornalisti, presunti amministratori, tutti appassionatamente uniti col vestito della festa e il viso contrito ad uso di flash e telecamera. Con buona pace di chi a volte organizza, con tanta sensibilità, quei momenti di ricordo e memoria che dovrebbero diventare patrimonio di un’intera nazione e invece sono ricchezze di un pugno di persone.
Un’ora di contrizione a cottimo – per lor signori in posa – e passa la paura.
Le stesse scene si ripeteranno anche quest’anno e forse – anche se ogni volta ci ritroviamo a pensare e scrivere le stesse cose – mai come quest’anno sarebbe giusto fermarsi a riflettere su un mondo che la cultura mafiosa sta permeando a propria immagine e somiglianza.
Un anno, quello che sta trascorrendo, nel quale la grandezza di uomini come Falcone e Borsellino e degli uomini e delle donne che con loro hanno combattuto in vita nel nome di principi e ideali, si scontra con la pochezza di una società sull’orlo della frantumazione sociale.
Fermiamoci, dunque, un attimo a pensare su quattro-cose-quattro semplici semplici.
Partiamo allora con quella più d’impatto mediatico e che repelle le coscienze. Il signor (si fa per dire) Matteo Messina Denaro è latitante da appena 23 anni. Un anno dopo le stragi palermitane ma in piena stagione di stragi su per la Penisola, costui, criminale della peggior risma, nemico in vita di Falcone e della Sicilia e dell’Italia onesta, ha detto bye bye alla luce del sole e ha preferito nascondersi tra le tenebre del potere occulto. Ma vi pare, ci pare possibile che possano esistere in natura 23 anni di latitanza di una simile canaglia, senza coperture devastanti da parte di quegli apparati statali deviati e massonico-mafiosi che gli permettono di continuare giorno per giorno ora per ora, secondo per secondo, di pugnalare la memoria di Falcone e offendere le nostre coscienze?
Bene (anzi, male). Questo Stato, il nostro Stato, questa classe dirigente, la nostra classe dirigente, in 23 anni non è riuscita a stanare questo rifiuto della società e, badate bene che, se anche fosse catturato oggi, il ragionamento e le riflessioni non si sposterebbero di un millimetro. La prima domanda da porsi, infatti, sarebbe: chi, ora, ha preso il posto del boss di Castelvetrano nei salotti marci e occulti di questa nazione infetta?
Andiamo avanti, con la seconda riflessione. L’antimafia sociale, quella che vive di simboli – giornalisti, professionisti, imprenditori, politici – mai come quest’anno si è disgregata e ha fatto “puf puf”. Via, dissolta, volatilizzata, liofilizzata da polemiche, sceneggiate, botte da orbi, denunce, contro denunce e, infine, indagini della magistratura. Dobbiamo aggiungere altro? Si: che l’antimafia è una cosa troppo seria (e intima) per poterla affidare a chiunque altro che non sia le nostra personale coscienza. L’antimafia quotidiana dei fatti non si delega a movimenti, associazioni, ricchi portafogli o partite Iva.
Proseguiamo con la terza riflessione. Mai come quest’anno il volto giudiziario e processuale ha fatto, fa e farà da apripista, viatico e coda di questo anniversario. Il peggio è che le vicende che escono scosse dalle aule di giustizia – da ultima quella che ha visto per la seconda volta assolti il prefetto Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu – vengono stabilmente e indegnamente utilizzate come gabbie chiuse per allestire incontri a mani nude tra fazioni contrapposte, pronte a darsele di santa ragione con un solo obiettivo: non fare prigionieri e lasciare vittime sul campo della vera antimafia. Ovviamente la vera antimafia è quella di chi rimane in piedi nella gabbia, magari pesto, sanguinolento e a sua volta moribondo ma, tant’è, il vincitore prende tutto.
E veniamo, infine, alla quarta e ultima riflessione, che, come in un cane che si morde la coda, riconduce alla canaglia Messina Denaro di cui sopra e, soprattutto, al suo mondo lercio.
Ma vi pare – amati lettori di questo umile e umido blog – che in questi lunghissimi 24 anni senza il giudice Falcone e le vittime sacrificali della strage di Capaci e di via D’Amelio, la lotta alle mafie abbia fatto concreti e tangibili passi in avanti? E vi pare, ci sembra, che in questi ultimi 12 mesi la ‘ndrangheta – che ha preso dall’anno precedente alle stragi palermitane il posto di Cosa nostra nel cuore dello Stato deviato – abbia fatto sostanziali e visibili passi indietro nella sua strategia di assalto al cuore della società, grazie a quella cupola fatta di soggetti ipocritamente definiti “concorrenti esterni”?
Riflettiamo con calma. Avremo almeno un altro anno prima di rispondere “no”. E saranno 25. E dire che c’è ancora il coraggio spudorato di dire che la mafia ha perso e lo Stato ha vinto.
r.galullo@ilsole24ore.com