Credo che il fatto – bene o male – lo conosciate tutti. La Suprema Corte di Cassazione ha assolto due medici (in precedenza condannati per favoreggiamento dal Tribunale di Torre Annunziata prima e dalla Corte d’appello di Napoli poi) che avevano curato un camorrista ferito in un conflitto a fuoco durante un regolamento di conti. I due medici non lo avevano denunciato e non avevano stilato alcun referto, operandolo a domicilio. Quello del camorrista ovviamente. Il diritto alla salute – ha sancito la Cassazione con la sentenza 38281 depositata ieri – prevale sulle esigenze di giustizia. Per la Cassazione, «nell’intersecarsi di esigenze tutte costituzionalmente correlate (il diritto alla salute per un verso, cui si contrappone l’interesse pubblico sotteso ad un puntuale esercizio dell’attività di amministrazione della giustizia ed all’accertamento di fatti penalmente sanzionati), i valori legati alla integrità fisica rendono necessariamente recessivi quelli contrapposti e finiscono per imporre comunque l’intervento sanitario». In tema da favoreggiamento per un medico, inoltre, «la situazione di illegalità in cui versa il soggetto che necessita di cure non può costituire in nessun caso ostacolo alla tutela della salute». Qualche umile considerazione
Se la libertà di stampa, di parola, di espressione e di pensiero, in poche parola la democrazia, sono ancora garantite in questo Paese alla deriva (ma il caso dello scrittore Erri De Luca sotto processo a Torino dimostrano drammaticamente il contrario) mi permetto di criticare questa sentenza.
Entrando nel merito, proprio come hanno fatto i giudici. Il fatto per loro non sussiste. Prosit.
Ebbene i giudici (nei confronti dei quali nutro il massimo rispetto) hanno – in buona sostanza – messo sullo stesso piatto della bilancia il diritto alla salute e quello dell’amministrazione della Giustizia, statuendo che fosse il primo a prevalere.
Giusto, giustissimo, direi sacrosanto. Solo che – a me pare un particolare non da poco ma la mia laurea in Giurisprudenza, come è giusto che sia, è carta straccia di fronte a chi indossa la toga per mestiere – quel diritto alla salute, vale a dire ad essere curato (non doveva essere poi così grave se è stato operato e incerottato in casa) poteva senza alcun dubbio essere garantito in un ospedale. Pubblico, convenzionato o privato: ampia scelta per il camorrista latitante così come per ciascun cittadino italiano.
Ora a me pare che questa sentenza apra la strada alla possibilità che una valanga di impunità scivoli sopra coloro i quali – medici, assistenti sanitari, infermieri – possano trovarsi in situazioni analoghe, rese ora professionalmente meno complicate da un sigillo tombale come quello della Cassazione. Anche perché – nel caso di specie – il primo medico aveva ricevuto la richiesta di aiuto per telefono e dato che l’intervento necessario ma era «estraneo alle sue competenze», aveva girato il caso a un collega chirurgo dopo averlo avvertito che la famiglia della persona interessata «non era buona». Immaginate voi – d’ora in avanti – quante richieste di aiuto saranno legittimate da questa sentenza, in terre dove “essere sparati” è più facile che essere denunciati.
Attenzione però – e veniamo al nocciolo vero della questione perché finora mi sono esercitato in aspetti secondari per quanto importanti – fosse anche un solo (uno solo) altro caso a capitare da qui all’eternità, sarebbe comunque un (ennesimo) colpo mortale per quel che rimane di questo povero Paese.
Il vero confronto
Perché vedete, amati lettori di questo umile e umido blog, il vero confronto (ammesso e non concesso che da solo quello non fosse sufficiente, come a me pare ovvio con le riflessioni di cui sopra) – a mio sommesso e fallace avviso – non doveva essere fatto (solo) tra diritto alla salute (articolo 32 della Costituzione) e diritto all’amministrazione della Giustizia (articolo 102 della Costituzione).
Il vero, reale, duraturo confronto doveva essere fatto tra il diritto alla salute (sempre articolo 32 della Costituzione) e l’articolo 2 della Magna Carta italiana, laddove statuisce che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
Tra i diritti inviolabili dell’uomo, per la nostra costituzione, c’è «la libertà personale. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»: articolo 13 della Costituzione.
Vero. Ma al tempo stesso falso.
In larghe parti della Campania, così come della Sicilia, della Calabria, della Puglia, del Lazio, della Lombardia la «libertà personale» dell’uomo è condizionata, umiliata, repressa, sconfitta, cancellata, spesso uccisa, da camorra, Cosa nostra, ‘ndrangheta e cupole criminali che attentano quotidianamente alla democrazia. Il bene supremo della libertà subisce «forme di detenzione, ispezione o perquisizione personale» per atti, gesti e attività non certo «motivati dell’autorità giudiziaria» ma dalla legge (parallela ma spesso convergente con quella dello Stato marcio e corrotto) di clan e cosche.
Il singolo camorrista, così come il singolo ‘ndranghetista, il singolo mafioso di Cosa nostra o il singolo raffinato cervello schermato che tira le fila del quaquaraqua all’opera sulla strada limitano la mia, la tua, la nostra libertà personale. Sempre e comunque.
Andiamo avanti
Ma se anche questo confronto non convincesse, non bastasse o non funzionasse, ebbene andiamo avanti nella (per me sacra) lettura della Costituzione italiana e dei suoi «principi fondamentali».
Tra questi c’è il diritto al lavoro (articolo 4), che certamente non può essere spesso scelto (come prevede la Costituzione) per concorrere «al progresso materiale o spirituale della società» ma, in parti sempre più ampie d’Italia, è dettato dalle lancette mortali dell’orologio criminale.
E come può, ancora, il diritto alla salute di un camorrista latitante non essere messo a confronto anche con l’articolo 16 della Costituzione secondo il quale «ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza»? Altro che possibilità di circolare liberamente in qualsiasi parte d’Italia…A Napoli, Roma, Caserta, Milano, Reggio Calabria, Catania, Palermo, Bari, Brindisi, Taranto, Torino e via di questo passo ci sono spazi urbani nei quali dopo una certa ora c’è addirittura il coprifuoco.
E come può, ancora, il diritto alla salute di un camorrista latitante non essere messo a confronto anche con l’articolo 21 della Costituzione secondo il quale «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto o ogni altro mezzo di diffusione»? Anche a Scampia, Tor Bella Monaca, Quarto Oggiaro, Zen, Archi, Librino e via di questo passo in centinaia di quartieri del nord, centro e sud dove le mafie imperversano e strazianano quotidianamente la libertà di pensiero?
E come può, ancora, il diritto alla salute di un camorrista latitante (sempre articolo 32) non essere messo a confronto innanzitutto con l’articolo 1 della Costituzione italiana, per il quale «l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»?
A Casal Di Principe, Napoli o Caserta la sovranità appartiene al popolo? Spesso no. Grazie (si fa per dire) ai camorristi. Che siano latitanti o meno non fa differenza. Si possono curare. Se vogliono. Ma per favore, senza violare la Costituzione. O no?
r.galullo@ilsole24ore.com