Carcere (come nell’Italia a un passo dall’unità dentro ci vanno solo i poveracci), corruzione (pervasiva ma “fantasma”), uguaglianza difronte alla Giustizia (sulla carta…anche se costituzionale), sistema sanzionatorio (senza equilibrio), legislazione di emergenza (fine a se stessa), fine della pena (che non educa e non reinserisce), misure alternative e controlli (quasi nulli tanto che lo spaccio “a domicilio” è tornato ad essere fronte di ricchezza per Cosa nostra), riforma della Giustizia, disagio sociale, e poi ovviamente mafia, tanta mafia e…poca antimafia (la situazione, nonostante i copi assestati è stazionaria, la gente affamata implora picciotti e boss e la ribellione sociale fa passi indietro): non si può certo dire che il Procuratore generale della Repubblica di Palermo, Roberto Scarpinato, tradisca le attese.
Ogni suo intervento è un distillato di analisi e legalità, un concentrato di critica e proposta, un esempio di lealtà allo Stato e un grido di disperazione per un’Italia onesta che sparisce e lascia il campo alla corruzione, vale a dire una faccia dei sistemi criminali (cosa che va oltre, molto oltre, Cosa nostra o la ‘ndrangheta).
Ancora una volta, dunque, propongo un suo intervento: quello tenuto il 24 gennaio 2015 in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario.
Leggetelo. Si fa tutto d’un fiato, come ho fatto io. Non vi sarà difficile.
r.galullo@ilsole24ore.com
L’INTERVENTO DEL PROCURATORE GENERALE DI PALERMO ROBERTO SCARPINATO
Nel contesto della sua articolata relazione, il Presidente della Corte di appello ha dedicato una attenta disamina alle complesse problematiche che riguardano il mondo carcerario.
Si tratta in effetti di un tema nevralgico, giacché il carcere e più in generale le modalità con le quali vengono eseguite le pene irrogate a seguito dei processi, costituiscono una importante cartina di tornasole per comprendere come funzioni in concreto il sistema penale di un Paese ed un banco di prova della sua efficienza.
A questo riguardo, utili elementi di riflessione possono trarsi da un recente e documentato studio statistico condotto dal Dipartimento Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, pubblicato nella rivista Rassegna penitenziaria e criminologica, dal quale risulta che l’attuale composizione sociale della popolazione carceraria è per molti versi analoga a quella dell’Italia del 1860.
Oggi come ieri in carcere ad espiare la pena finiscono soprattutto esponenti dei ceti popolari e coloro che occupano i gradini più bassi della piramide sociale, oltre che gli esponenti della criminalità organizzata.
La quota di colletti bianchi in espiazione di pena è statisticamente irrilevante.
Negli allegati grafici dello studio citato, che indicano la composizione della popolazione detenuta distinta per tipologia di reati, manca la voce “Reati contro la pubblica amministrazione” a causa dell’irrilevanza numerica del dato statistico.
Quanto ai detenuti in regime di custodia cautelare, nell’audizione del ministro della giustizia alla Camera dei deputati del 13 ottobre 2013 si segnalava che su un numero complessivo di 24.744 unità, il numero delle persone in stato di custodia cautelare per reati di corruzione alla data del mese di ottobre 2013 era di 31 unità.
Tali dati statistici appaiono in stridente contrasto con la realtà sociale che, come risulta non solo in questo distretto giudiziario, ma in tutto il Paese, evidenzia invece il carattere interclassista della criminalità ed, anzi, il crescente protagonismo criminale di significativi segmenti delle classi dirigenti.
Alla luce di tali dati si pongono quindi una serie di interrogativi che travalicano il tradizionale approccio ai temi dell’amministrazione della giustizia imperniato sui dati statistici e quantitativi, sul numero dei processi sopravvenuti, di quelli definiti, sui tempi di durata dei processi, sugli indici di smaltimento e di ricambio, e, quindi, sulle misure deflazionistiche e di efficientamento del sistema da approntare.
La realtà del mondo carcerario costringe ad interrogarci non solo su “quanta giustizia” è stata amministrata, ma anche su “quale giustizia” viene amministrata.
Si tratta, a mio parere, di un interrogativo ineludibile perché i dati evidenziati denunciano l’incoerenza del prodotto finale del sistema penale con il principio costituzionale di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge senza distinzione di condizioni sociali e personali (secondo il dettato dell’articolo 3 della Costituzione).
Si tratta di un tema ineludibile perché interroga ogni singolo magistrato ed ogni singolo operatore di giustizia sul senso e sul risultato finale del proprio lavoro.
Ed ancora, si tratta di un tema ineludibile anche sotto il profilo pragmatico e funzionalistico, perché pone in luce un grave deficit del sistema sanzionatorio penale come sistema di regolazione delle relazioni sociali.
Le moderna scienza criminologica sottolinea infatti che un sistema giuridico può ritenersi funzionante solo se e nella misura in cui riesce a produrre una effettiva regolazione sociale, garantendo che il criterio di relazione dei rapporti interpersonali e collettivi si fondi sul rispetto delle regole di convivenza legislativamente stabilite e non sulla violenza e la frode.
Un sistema sanzionatorio non equilibrato e quasi binario, che dinanzi ad una realtà criminale interclassista produce una risposta repressiva e carceraria monoclasse, è all’evidenza incapace di produrre regolazione sociale.
La constatata e perdurante impotenza del sistema penale a sanzionare penalmente le molteplici e dilaganti declinazioni della criminalità dei colletti bianchi, alimenta infatti un clima collettivo di crescente sfiducia sistemica nel rispetto delle regole, con una caduta verticale della credibilità delle istituzioni e con effetti negativi a cascata su tutto il corpo sociale, operando come occulto moltiplicatore del dilagare dell’illegalità.
Ciò premesso, e tenuto conto che la magistratura italiana applica la legge penale in modo equanime a tutti i cittadini in piena aderenza al dettato costituzionale, resta da chiedersi quali siano le cause che, quasi per una sorta di eterogenesi dei fini, fanno poi si che il carcere sia riservato solo a determinate categorie sociali.
A questo riguardo, la più avvertita scienza penalistica ha da tempo messo in luce come il doppio binario del regime carcerario – concretantesi, come appena accennato, in un eccesso di pena detentiva carceraria per taluni reati e in un pressoché totale deficit di sanzione effettiva per altri reati – sia in larga misura il riflesso di una politica criminale del doppio binario da lungo tempo attuata sul piano del diritto sostanziale e processuale.
Un doppio binario che si è mosso per un verso nella direzione di decriminalizzare i reati dei colletti bianchi depotenziando sistematicamente la risposta repressiva con varie tecnicalità giuridiche – dalla previsione di pene edittali minime, alla loro perseguibilità a querela, alla previsione di soglie di punibilità, all’abbreviazione dei termini di prescrizione etc – e, per altro verso, nella ipercriminalizzazione dei reati tipici di soggetti appartenenti alla fasce popolari disagiate, nonché di comportamenti, come ad esempio quelli concernenti il fenomeno dell’immigrazione e delle tossicodipendenze, che affondano le radici in complesse problematiche non gestibili, all’evidenza, con lo strumento penale, ma con un ventaglio di interventi multilivello sul piano delle politiche sociali.
Tra i perniciosi risultati finali di tale improduttiva politica criminale vi sono appunto stati il sovraffollamento delle carceri e il gravissimo degrado delle condizioni di vita carceraria al quale, nella perdurante inerzia di un legislatore incapace di prendere atto del fallimento delle proprie scelte, hanno dovuto porre rimedio la Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia UE, prima smantellando nel tempo ampie parti dei sistemi sanzionatori vigenti perché in contrasto con i principi della Costituzione e del diritto comunitario, e poi imponendo con la nota sentenza Torreggiani della Corte Edu di porre fine, sotto la minaccia di sanzioni europee, alla situazione di degrado delle carceri per la sua palese violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea.
Sotto la spada di Damocle delle sanzioni e in assenza di un progetto organico di revisione del sistema penale e carcerario, si è così ritenuto di risolvere il problema ponendo mano ad una legislazione di emergenza denominata dai media come sfolla-carceri in quanto finalizzata a ridurre in modo significativo la popolazione carceraria ampliando il numero dei casi nei quali sostituire la pena carceraria inframuraria con pene alternative.
Al di là di tale contingente ed indilazionabile esigenza pratica, secondo l’intenzione del legislatore lo scopo della implementazione delle pene alternative al carcere è quello di favorire il reinserimento sociale dei condannati.
Senonché la finalità legislativa così enunciata, astrattamente condivisibile sul piano della politica criminale, alla prova dei fatti rischia di rivelarsi in buona misura una mera declamazione di intenti priva di reali contenuti.
Un escamotage legislativo che per un verso consegue il risultato immediato di sfollare le carceri, evitando sanzioni europee, ma, per altro verso, elude poi l’impegno di risocializzare il condannato.
La realizzazione di programmi individualizzati di reinclusione sociale dei condannati comporta infatti un ingente investimento di risorse in termini economici, di personale specializzato, di creazione di strutture di risocializzazione, di progetti formativi.
Come puntualmente posto in evidenza nella relazione del Presidente della Corte di appello, si registrano invece, in palese contraddizione con le finalità enunciate nella legislazione, tagli ingenti alle spese dedicate a tali finalità che rischiano così di venire sostanzialmente vanificate.
Mancano gli educatori e gli assistenti sociali, mancano le offerte di lavoro, scarseggiano i fondi per le proposte formative, soprattutto quelle relative ai corsi scolastici e ai corsi professionali.
Nei fatti il recupero sociale del condannato in alternativa al carcere rischia così di rivelarsi una mera chimera, sancendo un ulteriore fallimento della funzione di regolazione sociale di un sistema penale che investe ingentissime risorse per irrogare sanzioni puramente simboliche, improduttive non solo sul piano repressivo, ma anche su quello general preventivo e della risocializzazione.
Vi sono poi motivi per ritenere che le pene alternative al carcere attualmente previste in funzione del recupero sociale del condannato, non possano costituire una risposta congrua ed efficace per tutti i condannati.
La risocializzazione o socializzazione di recupero, ha infatti come implicito presupposto che i condannati siano soggetti nei cui confronti il processo di socializzazione primaria sia fallito a causa di deficit formativi tipici nelle fasce popolari che versano in condizioni di degrado sociale e culturale, oppure che si tratti di soggetti i quali, pur provenendo da ambienti sociali non degradati, abbiano delle particolari carenze formative a livello individuale.
Ma la realtà sociale e criminologica offre un panorama sociale ben più complesso, dimostrando la diffusione sistemica di comportamenti criminali in ambienti ove operano soggetti dotati di elevati livelli di scolarizzazione, pienamente socializzati e che rivestono a vario titolo ruoli di responsabilità, spesso occupando posizione di vertice.
Pare evidente che l’applicazione di pene alternative al carcere a tali soggetti non possa assolvere ad alcuna reale funzione di risocializzazione, ma si risolva invece in un definitivo azzeramento del costo penale dei reati dei colletti bianchi per i quali si riesca a pervenire a condanna definitiva, prima che intervenga la prescrizione.
Si realizza così nei fatti uno statuto impunitario che vanifica la funzione general preventiva del sistema penale.
Un sistema penale può svolgere infatti una funzione general preventiva solo se il rischio e il costo penale per il reato superano i benefici che ne derivano al suo autore.
Nell’ordinamento italiano invece il rapporto costi – benefici per i reati dei colletti bianchi è stato completamente invertito, perché dinanzi alla certezza di conseguire ingentissimi guadagni mediante reati, il rischio penale di una condanna definitiva è molto ridotto, e, in ogni caso, la pena eventuale, consistente ad esempio nel frequentare per qualche pomeriggio la settimana un centro sociale, ha una valenza pressoché simbolica.
Altri fattori evidenziano ancora i limiti di una politica criminale che nel tentativo di tamponare in modo emergenziale e disorganico i guasti del passato, rischia non solo di non apprestare validi rimedi, ma di produrre altri problemi.
Si consideri, ad esempio, che a causa del sommarsi dei recenti interventi legislativi per sfollare le carceri operati sul piano dei diritto sostanziale, nonché su quello processuale e dell’esecuzione della pena, attualmente nei confronti di gran parte della numerosa manovalanza utilizzata dalle organizzazione criminali come pushers di droghe pesanti (e ai quali viene contestato il reato di cui all’articolo 73 comma V del Dpr 309/1990 la cui pena massima è stata ridotta a quattro anni di reclusione), è applicabile solo la misura cautelare degli arresti domiciliari
Poiché mancano i braccialetti elettronici e manca il personale di polizia per effettuare adeguati controlli nei domicili, tanti spacciatori continuano a spacciare nelle loro abitazioni e nei quartieri con un rischio penale molto contenuto.
Anche quando viene accertato e contestato il reato di evasione, il costo penale è poi assolutamente esiguo, tenuto conto della riduzione di pena conseguente all’applicazione dell’istituto della continuazione della pena.
Non è forse casuale dunque che si registri in tutto il distretto una prorompente crescita dei reati di spaccio, tanto più grave in una fase storica come l’attuale nella quale i vertici di Cosa Nostra, come risulta da vari procedimenti penali condotti dalla Procura di Palermo, sono tornati a dirigere e gestire il traffico di stupefacenti stabilendo collegamenti internazionali ed un ferreo controllo del territorio per compensare in tal modo la decurtazione, conseguente alla crisi economica, degli introiti dell’organizzazione derivanti dalle estorsioni e da altre pratiche di intermediazione parassitaria nel settore degli appalti.
A proposito della criminalità mafiosa, nonostante lo straordinario impegno profuso dalla magistratura e dalla forze di polizia, concretatosi anche nel decorso anno giudiziario in centinaia di arresti e di condanne, la situazione resta stazionaria.
L’incessante turn over tra i mafiosi arrestati che entrano in carcere e quelli che ne escono per espiazione pena, continua a garantire la tenuta dell’organizzazione sul territorio.
I capi arrestati vengono sostituiti da reggenti in attesa di riprendere il loro posto. Agli estorsori condannati ne subentrano di nuovi, che talora richiedono le rate arretrate non riscosse a causa degli arresti eseguiti.
Al protrarsi di tale situazione di stallo contribuiscono alcuni deficit normativi da tempo già evidenziati alla Commissione parlamentare antimafia e in altre qualificate sedi istituzionali, che hanno determinato una forte accelerazione del turn over tra carcere e stato di libertà ed hanno depotenziato l’efficacia deterrente della risposta repressiva nei confronti della criminalità mafiosa.
Lo sconto di pena derivante dall’accesso quasi generalizzato al giudizio abbreviato degli esponenti della criminalità mafiosa, nel sommarsi all’ulteriore sconto di pena derivante dall’applicazione dell’istituto della continuazione della pena in sede di condanna, riduce l’entità delle pene in concreto inflitte in maniera così significativa da perdere in molti casi la loro efficacia deterrente.
Dalla relazione trasmessami dalla Procura di Palermo, emerge una articolata casistica di capi e di gregari di Cosa Nostra che grazie a tali sconti di pena subiscono condanne minimali non solo per il reato di cui all’articolo 416 bis del codice penale, ma anche per altri gravi reati fine, tra i quali quelli di estorsione aggravata.
Per citare un solo esempio tra i tanti, basti considerare che in esito ad un processo concernente una serie di estorsioni perpetrate dal 2007 al 2013 in danno del Presidente di Confindustria di Trapani, uno storico esponente di vertice della famiglia mafiosa di Castellammare del Golfo, grazie al duplice sconto di pena conseguito con il giudizio abbreviato e con l’applicazione della continuazione con altri reati per i quali era stato già condannato, ha subito una condanna di appena anni tre anni e mesi otto di reclusione.
Come se bastasse, occorre poi considerare che le pene cosi ridotte subiscono una ulteriore decurtazione grazie all’applicazione in sede esecutiva della liberazione anticipata che prevede, anche per gli esponenti della criminalità mafiosa, lo sconto di pena di 45 giorno ogni semestre.
Così, per tornare all’esempio prima citato, in concreto i tre anni e otto mesi di reclusione si riducono ulteriormente a poco meno di due anni, sette mesi e 15 giorni di reclusione.
Ma a parte tali fattori di debolezza giuridica nella risposta repressiva alla criminalità mafiosa, ai quali potrebbe porsi rimedio con una celere e mirata riformulazione delle norme vigenti in materia di reato continuato e di liberazione anticipata, a destare preoccupazione è il mutato clima sociale.
La sfiducia sistemica alla quale prima accennavo, comincia a serpeggiare sottotraccia anche sul terreno della cultura antimafia.
Negli anni successivi al 1992 si era creata una mobilitazione collettiva senza precedenti determinata non solo dall’onda emotiva dello sdegno popolare per le stragi, ma anche dalla fiduciosa aspettativa che cultura e ripristino della legalità si traducessero nella creazione di nuovi posti di lavoro e nel rilancio dell’economia grazie a mirati interventi infrastrutturali finanziati con il denaro pubblico.
Il sopravvenire della recessione economica ed i tagli drastici alla spesa pubblica nel mettere in ginocchio l’economia dell’isola falcidiando posti di lavoro, stanno radicando nell’immaginario collettivo di molti la convinzione che la promessa di coniugare legalità e sviluppo sia stata ancora una volta tradita o sia una mera chimera.
Questa disillusione determina a sua volta, soprattutto nelle fasce popolari più disagiate e che più sentono i morsi della crisi, il ripiegamento nella rassegnazione fatalistica ad un esistente che si ritiene irredimibile, o, peggio, il consegnarsi di molti ad una economia criminale di sussistenza.
Nell’assenza di risposte ai bisogni primari di sussistenza da parte del welfare state legale, molti tornano a bussare alle porte del welfare mafioso.
Le intercettazioni ambientali effettuate in taluni procedimenti ritraggono file di questuanti che pregano i boss mafiosi dei quartieri di far loro ottenere una qualsiasi occupazione per sfamare la famiglia.
A questo riguardo, è necessario prendere coscienza che tale disillusione delle attese collettive è imputabile solo in parte alle ricadute locali di fattori macroeconomici globali.
In buona misura invece è imputabile ad un grave tradimento della fiducia collettiva e delle speranze di un intero popolo perpetrato da quei settori delle classi dirigenti che hanno continuato a depredare sistematicamente le risorse pubbliche destinate a creare lavoro e sviluppo.
Le relazioni delle Procure delle Repubbliche del distretto sui procedimenti per reati di corruzione, di concussione, di abuso del potere pubblico, ricompongono un quadro globale di devastante gravità per il numero dei soggetti coinvolti, per i loro ruoli apicali, per la serialità delle condotte, per la vastità ed il radicamento delle reti corruttive, per l‘omertà blindata che continua a coprire la pratiche corruttive, quasi superiore a quella mafiosa, per la straordinaria ed ingentissima entità dei fondi pubblici depredati e distolti dalle loro finalità istituzionali.
Basti considerare che in uno dei procedimenti in corso, i fondi pubblici depredati ammontano a cento milioni di euro, e che in tanti altri processi le cifre sono di poco inferiori e, nel loro insieme, assommano a miliardi di euro.
Si tratta di una corruzione le cui ricadute macroeconomiche negative sono molto più gravi rispetto a quelle della prima Repubblica, quando la spesa pubblica costituiva una risorsa potenzialmente illimitata grazie alla mancanza di tassativi vincoli europei di bilancio.
Se in passato la corruzione poteva essere infatti finanziata con l’innalzamento della spesa pubblica, oggi, a causa dei vincoli accennati, viene finanziata con i tagli lineari alla spesa sociale.
Cento milioni di euro in più alla corruzione equivalgono a cento milioni di euro in meno per i servizi dello stato sociale.
E a proposito di responsabilità collettive, nell’avviarmi alla conclusione non posso che ritornare all’incipit del mio intervento, laddove ho fatto riferimento ai limiti e ai guasti prodotti da un politica criminale che nell’ultimo ventennio ha sistematicamente ridotto e quasi azzerato i rischi e i costi penali per tutta la costellazione dei reati legati ai fenomeni corruttivi, creando così di fatto una sorta di statuto impunitario.
Non può essere taciuto che ciò è avvenuto e continua ad avvenire in contrasto con le direttive europee in materia.
L’inderogabile esigenza di adeguarsi alle direttive europee, riassunta nella frase “C’è lo chiede l’Europa”, ripetuta continuamente quasi come un mantra quando si tratta di giustificare i tagli lineari alla spesa sociale e il depotenziamento dei diritti del lavoro, viene invece ignorata quando l’Europa ci chiede di emanare una efficace legislazione contro la corruzione.
Ben tredici anni è durata l’inerzia del parlamento nazionale prima che venisse finalmente ratificata con la legge del 28 giugno 2012 n.110 la Convenzione di Strasburgo contro la corruzione del 1999.
Ed è stata necessaria la minaccia di sanzioni europee perché venisse finalmente emanata con la legge del 6 novembre 2012 n. 190 una riforma dei reati contro la pubblica amministrazione che non solo ha lasciato in buona misura irrisolti molti dei problemi preesistenti, ma anzi ha contribuito ad indebolire ulteriormente la risposta repressiva sul fronte cruciale del reato di concussione per induzione prevedendo una riduzione delle pene edittali e la criminalizzazione con la pena della reclusione sino a tre anni del concusso che denuncia il concussore.
Così mentre sul fronte della normativa antimafia si prevedono provvidenze e sostegni economici per gli imprenditori che denunciano gli estorsori mafiosi rompendo il vincolo di omertà, all’opposto sul fronte della corruzione si minacciano sanzioni penali a chi denuncia gli estorsori in guanti gialli, rafforzando così il vincolo di omertà.
Neanche l’incessante susseguirsi di scandali nazionali attestante il dilagare irrefrenabile della corruzione, sembra a tutt’oggi sufficiente per una riforma legislativa di svolta che incida sui nodi cruciali per restituire efficacia dissuasiva all’azione repressiva.
A tutt’oggi nell’elenco dei processi che ai sensi dell’articolo 132 bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale devono essere trattati in via prioritaria, sono previsti i processi per i reati in materia di circolazione stradale e di immigrazione, ma, significativamente, non sono contemplati i processi per i reati contro la pubblica amministrazione.
I progetti di riforma in cantiere continuano ad eludere i punti cruciali.
In particolare per quanto riguarda quello concernente la riforma della prescrizione, va ricordato che la Commissione europea nella relazione del 2013 sulla corruzione in Italia, ha individuato nell’attuale disciplina normativa italiana della prescrizione una delle principali cause dell’inefficacia del contrasto alla corruzione ed ha sollecitato lo stato italiano ad allineare tale anomala e fallimentare normativa a quella di tutti gli altri paesi europei.
Non pare coerente con tale sollecitazione il progetto governativo di riforma in cantiere che invece prevede solo il temporaneo congelamento biennale della prescrizione dopo la sentenza di primo grado e annuale dopo quella di secondo grado.
Si tratta di una soluzione palesemente inadeguata ove solo si consideri che, come dimostrano i dati statistici di questo distretto e quelli nazionali, una percentuale elevatissima di prescrizioni si verifica nel segmento processuale antecedente la sentenza di primo grado a causa del decorrere dei termini di prescrizione non dalla data di accertamento del reato ma da quello della sua consumazione.
In particolare nel distretto di Palermo, sono stati n° 1.918 i procedimenti eliminati dai Gip/Gup con pronunzie di prescrizione (pari al 6,1 % del totale dei processi definiti) contro i 1.406 del periodo precedente; n° 775 quelli eliminati dai Tribunali (pari al 5,6% del totale dei processi definiti) contro i 655 dell’anno scorso; 310 quelli eliminati dalla Corte di Appello (pari al 5,24% del totale dei definiti) al pari del numero rilevato nel periodo precedente. In Italia i procedimenti penali estinti per decorso dei termini di prescrizione sono stati circa l’11,4% nel 2007 ed il 10,16% nel 2008 (contro una media Ue nello stesso periodo che va dallo 0,1 al 2%).
Eppure una soluzione rapida ed efficace sarebbe a portata di mano.
Tenuto conto che oggi la corruzione per unanime riconoscimento costituisce una emergenza nazionale che provoca danni macroeconomici pari se non superiori a quelli della criminalità mafiosa, basterebbe estendere anche ai più gravi reati di corruzione lo speciale regime di prescrizione previsto dal sesto comma dell’articolo 157 del codice penale che contempla termini di prescrizione raddoppiati rispetto a quelli ordinari per i reati di cui all’articolo 51, commi 3 bis e 3 quater, del codice di procedura penale e per altri reati ritenuti lesivi di beni giuridici di particolare rilevanza.
Non posso concludere il mio intervento, senza fare cenno alla ulteriore riforma in cantiere sulla responsabilità civile dei magistrati.
Si tratta di una legge ordinaria ma di sostanza e portata costituzionale, per la sua idoneità ad incidere sul delicatissimo sistema di bilanciamento dei poteri previsto dalla Costituzione, compromettendo le garanzie di indipendenza e autonomia dell’ordine giudiziario.
A questo riguardo non può che destare viva inquietudine in chiunque abbia a cuore l’ordine democratico, che nella relazione di accompagnamento ad un progetto di legge che dovrebbe limitarsi a disciplinare le forme risarcitorie previste per i cittadini che hanno subito un danno da provvedimenti giudiziari, sia invece esplicitamente enunciato che il tema della responsabilità civile dei magistrati merita di essere riesaminato in ragione “della esigenza di un riequilibrio delle posizioni politico-istituzionali coinvolte e del superamento definitivo del conflitto ancora in corso”.
Spiace dovere constatare che trovi legittimazione culturale in una sede istituzionale così autorevole quale quella di una relazione ad un disegno di legge governativo, la falsificazione storico-concettuale secondo cui le condanne penali definitive per reati di corruzione e per accertati rapporti collusivi tra mafia ed esponenti del mondo politico, siano state non doverosa applicazione della legge, ma capitoli di un asserito conflitto tra ordine giudiziario e politica.
E tenuto conto che nella relazione di accompagnamento si fa riferimento ad un “conflitto ancora in corso”, viene da chiedersi dove e tra chi si starebbe svolgendo tale asserito conflitto.
A noi risulta che in questo momento in tutto il Paese non vi sia alcun conflitto in corso, ma siano invece in corso solo doverose inchieste penali su scandali corruttivi come la vicenda Expo di Milano, il Mose di Venezia, Mafia Capitale a Roma, e ancora processi da Milano a Palermo sulle collusioni tra colletti bianchi e mafia; inchieste e processi concernenti anche personaggi che, sebbene già condannati in passato per fatti analoghi, hanno avuto la possibilità di continuare a delinquere come e più di prima perché rimasti pienamente inseriti in un mondo politico che non ha mai ritenuto di doverli emarginare.
Se questo è l’animus del legislatore o quantomeno di larghe componenti del mondo politico, resta forte il pericolo che, come ha evidenziato il Csm nella suo parere al disegno di legge, tale riforma possa divenire un occulto cavallo di Troia per ridisegnare gli equilibri costituzionali mediante la costruzione di una trama normativa che nelle pieghe di sofisticate tecnicalità giuridiche, incomprensibili alla pubblica opinione, metta nelle mani dei poteri forti, tra i quali anche quelli criminali, obliqui strumenti di condizionamento della indipendenza ed autonomia dei magistrati.
Non resta che fare appello ed affidamento al senso di responsabilità collettivo e istituzionale.
Compromettere oggi l’indipendenza e l’autonomia dell’ordine giudiziario rivelatosi alla luce della lezione della storia come il più efficace, se non l’unico anticorpo, contro il dilagare pervasivo dell’illegalità, dell’uso distorto del potere pubblico, come ultima spiaggia per la difesa dei diritti, non sarebbe solo un vulnus inferto allo Stato democratico di diritto, ma una ferita forse mortale inferta nel corpo vivo della nazione.