Premessa gridata: non ho le idee chiare su quanto sta accadendo intorno alla figura di Gioacchino Genchi. Mi arrovello, questo sì, lo ammetto: è un vicequestore – quindi un uomo dello Stato – al fedele servizio della Giustizia o un furbacchione che si è fatto prendere la mano dal ricco business delle intercettazioni?
E’ un fido consulente della magistratura o, magari con il tempo, è caduto nella tentazione di usare quei tracciati telefonici come arma di ricatto nei confronti dei potenti?
Non so dare risposte ma parto sempre dalla buona fede e poi – nel momento in cui ne scrivo e dunque in attesa di ciò che la Storia racconterà di lui tra qualche tempo – il paffuto e scaltro vicequestore in aspettativa mi sta simpatico. Sarà compito della magistratura – che su Genchi sta indagando – provare a squarciare il velo dei (mille) dubbi.
Le mie idee confuse – e diffidate cari amici di blog da chi sui giornali scrive di averle chiarissime al riguardo – non mi impediscono di mettere in fila fatti o di riflettere con voi su alcune coincidenze.
Partiamo dai fatti. Ebbene, se vi andate a leggere il decreto con il quale la Procura di Salerno ha disposto il sequestro degli atti Why Not della Procura di Catanzaro, non vi sfuggiranno alcune cose.
Certo, bisogna leggere le carte in profondità, come ho fatto per il Sole-24 Ore del quale mi onoro di essere un inviato.
In due inchieste – del 10 dicembre 2008 e del 25 gennaio 2009 – ho tracciato il quadro di quello che, sinteticamente, il quotidiano ha definito “la nuova P2” (le inchieste sono state riprese a man bassa e ne troverete tracce anche navigando su Internet). In questo comitato di interessi (chiamiamolo così), secondo Luigi De Magistris, operavano e operano personaggi e imprese per i quali il controllo delle intercettazioni telefoniche è solo un tassello di una rete molto ma molto più ampia di controllo dello Stato dal suo interno.
Nel business delle intercettazioni ha gettato l’occhio (anzi l’orecchio) da tempo (e in maniera legittima, per carità, fino a prova contraria) Finmeccanica attraverso la sua società Datamat. E chi era l’uomo che da stava seguendo – secondo il Pm Luigi De Magistris – molto da vicino il caso per l’azienda? Luigi Bonferroni, chiacchieratissimo come massone anche se lui – da ultimo in una lettera inviata al Sole – ha smentito tutto. Bonferroni siede nel cda di Finmeccanica.
Ma, per farla breve, di questo “Grande Occhio e Grande Orecchio” del “Grande Fratello” che vive (e vuole vivere) all’interno dello Stato, fanno parte anche alcuni uomini e aziende che, nell’ordine, lavorano o lavoreranno proprio per conto dello Stato nella digitalizzazione degli archivi informatici della Giustizia, della Guardia di Finanza, delle pubbliche amministrazioni, delle Procure e delle Direzioni antimafia. Molti di loro sono in odore di massoneria deviata. Alcune società addirittura infiltrate da uomini – poi allontanati – della ‘ndrangheta che, come sanno i cultori della materia, in Calabria siedono spesso e volentieri nelle logge massoniche coperte. Anzi: copertissime.
Come Luigi De Magistris ha fatto mettere nero su bianco ai colleghi di Salerno, egli stava lavorando su una rete inconfessabile e inquietante di potere parallelo all’interno dello Stato. Insomma: la nuova P2. Se questo fosse vero – e i fatti che ho messo in fila nelle due inchieste sono lì a disposizione di tutti, anche per essere smentiti, ma con altri fatti, non a chiacchiere – si capisce dunque perché proprio sulle intercettazioni, il primo e più importante tassello del “grande fratello”, tantissimi politici e il premier Silvio Berlusconi, che della vecchia P2 aveva la tessera n.1816, abbiano fatto e facciano una battaglia senza precedenti: non solo sull’uso ma anche sul ricorso esterno ai consulenti.
Con Sua Emittenza stanno – si badi bene – parti importanti del Governo e dell’opposizione (opposizione? Bah, non me ne ero mai accorto!). Di qui al nuovo testo sulle intercettazioni telefoniche (che tutte le Procure difendono, attaccando il provvedimento governativo) il passo è stato breve.
Ma perché proprio ora? Non lo sapevano da tempo i politici che Genchi (e non solo lui) lavora come consulente per le Procure (molte, in vero, non lo hanno mai amato troppo e questo va detto e ricordato). Non lo sapevano che l’uso dei file e della loro archiviazione o memoria andava regolamentato? Già, perché proprio ora…
E allora veniamo alle riflessioni, sulla scorta di una storia che – chissà perché – alcuni raccontano solo tra i corridoi delle stanze del potere.
Bene. La storia e questa e parte da una premessa: Genchi avrebbe (sottolineo avrebbe) costituito una copia di tutti i file analizzati ed elaborati negli anni. In Italia o all’estero non si sa. Certo è che non sarebbe tecnicamente impossibile. Ebbene, in questi file – copiati a propria tutela e dunque per autodifesa, secondo i benevoli, copiati per essere sempre pronto a ricattare, secondo i maligni – Genchi avrebbe copia, in particolare, dei tracciati telefonici intercors
i proprio tra il premier Silvio Berlusconi,, l’ex ministro dell’Interno Beppe Pisanu, alcuni magistrati antimafia, il Procuratore Antimafia Piero Grasso e Totò “vasa vasa” Cuffaro. Non necessariamente in questo ordine, anzi.
E perché sarebbero così importanti questi tracciati? Perché – secondo molti – conterrebbero la prova-provata che Cuffaro – sotto inchiesta per i suoi rapporti in odore di mafia – veniva costantemente aggiornato sullo stato dell’arte da Berlusconi. Fantasie? Non lo so, me lo auguro, ma per certo so che il 2 maggio 2008 il Gup di Palermo Fabio Licata ordinò la distruzione di tutte le intercettazioni dei colloqui tra Berlusconi e Cuffaro avvenute tra il 2003 e il 2004. Compresa quella in cui il 10 gennaio 2004 Berlusconi tranquillizzava Cuffaro sulle indagini che si stavano abbattendo su di lui. Ne era certo, avendone parlato con l’allora ministro dell’Interno Beppe Pisanu (che però nega di aver mai parlato con Berlusconi di queste vicende giudiziarie e che nell’attuale legislatura è diventato presidente della Commissione parlamentare antimafia). Nella stessa telefonata Cuffaro avverte Berlsuconi che c’è “qualche magistrato che fa le bizze”.
Un’altra cosa che so per certo è che alla distruzione delle bobine erano favorevoli i Pm Michele Prestipino, Nino Di Matteo, Maurizio De Lucia e Giuseppe Pignatone. Contro la distruzione si schierarono il Pm Antonio Ingroia, il collega Domenico Gozzo e il capo della Repubblica di Palermo Francesco Messineo che aveva preso il posto di…Di chi? Ma di Piero Grasso, nominato l’11 ottobre 2005 a capo della Procura nazionale antimafia, dopo essere stato a Palermo tra il 2000 e il 2004. Di Piero Grasso compaiono (e scompaiono) tracce nei tabulati di Genchi legati alla vicenda Why Not.
Ora, proviamo a farci questa domanda a voce alta: ma se fosse vero che Berlusconi parlava delle inchieste con Cuffaro (e di almeno una telefonata abbiamo certezza), se fosse vero che Berlusconi apprendeva gli aggiornamenti (che girava a Cuffaro) da Beppe Pisanu, chi avvertiva Pisanu del procedere della situazione? La risposta potrebbe essere facile ma di facile in questa storia non c’è nulla e le apparenze sono fatte apposta per ingannare.
Pagherei oro per conoscere il contenuto di quelle telefonate (andate perdute per sempre?) e credo che non sarei l’unico. Il problema è che il mio oro sono pochi euro, mentre altri hanno a disposizione patrimoni inestimabili. Pazienza: mi rassegnerò nel nome della democrazia (sconfitta).
Certo, infine, è che Gioacchino Genchi negli ultimi tempi ha fatto (a caso?) di tutto per tranquillizzare Berlusconi, gridando ai 4 venti che lui del premier non ha mai seguito un solo file sui tracciati telefonici. E di Grasso? E dell’ex ministro Pisanu il cui figlio è stato assunto in una società di Antonio Saladino, principale indagato dell’inchiesta Why Not avocata a De Magistris? E di altri procuratori antimafia? Chi vivrà (forse) vedrà e magari sarebbe bello che lo stesso Genchi rispondesse alle riflessioni che – insieme a voi amici di blog – sto facendo a voce alta.
Certo, ancora, è che giornali e giornalisti in questa vicenda si stanno schierando sempre più, millantando certezze, aizzando gli animi, servendo padroni (non i lettori, però, no) e perdendo di vista le notizie. Anche quelle che arrivano lontano da Roma o da Palermo.
Come quella che arriva da Trieste, splendida città capoluogo delle serena regione Friuli-Venezia Giulia. Serena? Mica tanto, leggete qui.
Il senatore Ferruccio Saro, vecchia volpe politica del Pdl, il 3 e il 6 febbraio ha inviato due interrogazioni parlamentari urgenti al ministro della Giustizia Angelino Alfano per sapere se era a conoscenza del fatto che a Trieste c’è un “Grande Fratello”, ubicato presso una struttura del Corpo forestale, in grado di intercettare e registrare (per i dettagli vi rimando alle interrogazioni che troverete nel sito www.senato.it alla voce “Saro” oppure alla puntata della mia trasmissione “Un abuso al giorno” del 5 febbraio, che potere ascoltare e scaricare su www.radio24.it ).
Di più, anzi. Saro chiede addirittura di sapere se è vero che questo “centro di ascolto” collocato a Pagnacco (in provincia di Udine, che finora conoscevo solo perché il 6 luglio 1942 vi morì il “prefetto di ferro” Cesare Mori), abbia fatto uso di microspie, Gps, telecamere e microcamere e in quali procedimenti siano stati utilizzati.
E’ bene ricordare che essendo il Friuli-Venezia Giulia una Regione a statuto speciale, il Corpo Forestale dipende dalla Regione stessa e non dallo Stato e che, avendo lì il Corpo compiti anche di Polizia giudiziaria, le Procure possono assegnare e delegare intercettazioni (soprattutto in materia ambientale) al Corpo stesso. Questo accade anche in Sicilia dove però – me lo ha confermato l’assessore regionale all