Nella sua relazione di fine dicembre 2011, Carlo Caponcello, sostituto procuratore nazionale antimafia, consegnata al Procuratore capo Piero Grasso, lo scrive chiaro e tondo: “Il comprovato coinvolgimento a livelli imprenditoriali elevati, di rango nazionale, è significativo circa la forza di condizionamento dell’imprenditoria mafiosa, ma nel contempo rivela impietosamente come la distruzione del tessuto imprenditoriale locale, quello sano per intenderci, non lascia spazio a soluzioni diverse da quelle, divenute in qualche modo necessitate, dell’affidamento della maggior parte dei lavori, delle forniture di beni e servizi, a imprese di diretta o indiretta espressione mafiosa”.
Il magistrato parla della provincia di Reggio Calabria e quei passi sulla “distruzione del tessuto imprenditoriale locale” e all’affidamento “diretto o indiretto” alle cosche di gran parte dei lavori (per non poter, forse, dire tutti) dovrebbero scuotere la classe dirigente calabrese.
Caponcello va oltre e nella relazione che poche ore fa è stata consegnata a Governo, Parlamento e Commissione parlamentare antimafia, scrive che ovunque, a Reggio, la presenza mafiosa si accompagna “indefettibilmente all’acquisizione ora violenta, ora truffaldina, ora mediante pratiche corruttive o clientelari, di risorse pubbliche destinate alla realizzazione di opere di pubblica utilità, ovvero alla gestione di attività pubbliche di vario genere, di finanziamenti regionali e comunitari. La presenza della ‘ndrangheta si rivela nella infinita serie di reati di estorsione, di usura, in danno del commercio, di riciclaggio attraverso altrettanto infinite aperture di esercizi commerciali a ciò dedicati, di inserimento negli appalti, subappalti, affidamenti e forniture di servizi e beni, la cui elencazione appare inutile, tanto la pratica di tali reati appare diffusa”.
Amen e così sia verrebbe da dire.
Da dire e tanto ci sarebbe, invece, sulla sceneggiata che nel luglio 2010 accompagnò l’arresto di don Mico Oppedisano, ritenuto sulla scia di veline allungate ai cronisti compiacenti, il capo dei capi della ‘ndrangheta. Chi legge questo blog sa quanti articoli e quante analisi abbia speso per confutare questa lettura amorale che non fa onore né alla magistratura né alla stampa (spesso sdraiata a Reggio come a Milano, ma dietro la quale c’era sempre la stessa regia).
Il tempo è galantuomo e oggi, inevitabilmente la Direzione nazionale antimafia scrive che “appare opportuno evidenziare, avuto riguardo alla figura del capo crimine pro tempore Domenico Oppedisano, che al predetto più che un potere reale sulle dinamiche e strategie complessive della ‘ndrangheta debba essere riconosciuto uno specifico, peculiare e rilevante ruolo di rappresentanza esterna: una sorta di custode delle regole tradizionali”.
Il procuratore Caponcello, al quale va il grande merito di aver steso questa analisi, prosegue scrivendo: “Un’organizzazione unitaria, in cui i riti sacrali e le regole tradizionali costituiscono, da un lato, il segmento iniziale dell’affiliazione e, dall’altro, l’affermazione della autorità mafiosa e della immanenza di essa. Autorità politica e verosimilmente non gestionale ed operativa, ma che rinsalda i rapporti, tonifica gli impegni, regolamenta i contrasti interpersonali: verosimilmente egli non è “il capo dei capi”, bensì il punto di stabilizzazione temporanea in un certo periodo storico; non, quindi, un ruolo di direzione reale e concreta, ma soggetto deputato al controllo delle dinamiche interne delle varie cosche”.
“Le nitide conversazioni acquisite nella indagine Crimine, elidono, invero, in radice ogni dubbio – conclude Caponcello – sull’esistenza di un assetto verticistico della organizzazione in parola: i dialoghi intercettati offrono una inusuale ed illuminante rappresentazione della struttura associativa e del ruolo dispiegato dal capo crimine.
Le ulteriori indagini offriranno, di certo, una chiave di lettura vieppiù aderente alla reale portata del consorzio associativo unitariamente considerato e, in particolare, della sua articolazione di vertice, ma ciò che appare, allo stato, innegabile è la sussistenza di una coesione (rectius: unitarietà strategica), per così dire, esterna dei locali e delle famiglie ‘ndranghetistiche, soprattutto sul versante ionico della provincia, che esclude e comunque tempera l’asserita e preesistente segmentazione, o meglio atomizzazione, fra le delle varie componenti criminali. È opportuno evidenziare, in questa sede, che le acquisizioni investigative dei procedimenti Crimine ed Infinito hanno trovato, allo stato, piena conferma giudiziale ed in particolare la ricostruzione della ‘ndrangheta quale struttura mafiosa unitaria ha trovato pieno accoglimento presso i giudici; nondimeno, sulla operatività del vertice, sulla consistenza dei suoi “poteri” in seno all’organizzazione de qua appare indispensabile indagare ulteriormente. È evidente, tenuto conto delle indagini successive dispiegate, che non è possibile rinvenire ovvero riscontrare una simmetria fattuale e giudiziaria fra “il Crimine e la Provincia” e la “commissione provinciale di Cosa Nostra”.
E anche quest’ultimo paragone tra ‘ndrangheta e Cosa nostra che (gli stessi) giornalisti a comando avevano baldanzosamente portato avanti è venuta a cadere.
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