Cinque giorni fa, il 9 maggio, ho incontrato il boss pentito di ‘ndrangheta crotonese Luigi Bonaventura nel suo appartamento in località protetta.
Talmente protetta che non solo mezzo mondo sa che risiede in Molise, a Termoli ma è persino “circondato” da collaboratori di giustizia (veri o presunti) calabresi che con un semplice passaparola dopo due nanosecondi sanno gli uni dell’arrivo o della partenza degli altri. “Radio pentito” funziona alla perfezione qui come altrove e “radio carcere” amplifica le frequenze d’onda.
Insomma un sistema di protezione talmente “blindato” per lui e per altri sette familiari che ricorda il film la “Pantera Rosa”, nel quale i travestimenti dell’ispettor Clouseau vengono riconosciuti dal suo assistente cinese Kato un secondo…prima.
Luigi Bonaventura non è un boss pentito “laqualunque”, è un calibro di peso. Che sia attendibile non sta a me giudicarlo: è stato ed è utilizzato in molti procedimenti in corso dopo aver dichiarato, cinque anni fa, di voler collaborare con la Giustizia e varie sentenze ne hanno fissato l’assoluta attendibilità per racconti e fatti finora resi.
Nell’udienza del 14 gennaio 2012 per un processo in corso a Catanzaro, rispondendo a una domanda del pm Pierpaolo Bruni, si (ri)presenta così: “Io diciamo che sono nato ‘ndranghetista, cioè io appartengo e sono nato in una famiglia, la famiglia Vrenna Bonaventura, che è la famiglia che ha portato la ‘ndrangheta a Crotone, che la ha proprio inventata. Quindi, da appartenente di sangue a questa famiglia madre, a questa ‘ndrina madre della provincia di Crotone all’epoca quindi già come … e c’è per legame di sangue, io nasco giovane d’onore. Poi, da là vengo addestrato già dalla più piccola età, ma non solo ad usare le armi ma anche ad usare la testa, fino poi a ricoprire un ruolo importante, quello di stare al fianco di Gianni Bonaventura che all’epoca era quello che comandava Crotone”.
Perché sia chiaro, lui, la sua famiglia a Crotone “è” la ‘ndrangheta, figlia della mamma reggina impersonata dai De Stefano. Lui, Luigi Bonaventura, è un destefaniano e per questo è stato e sarà ancora ascoltato dal pm calabrese Giuseppe Lombardo che sta indagando sul caso Lega/Belsito.
Formalmente viene “battezzato” a Isola Capo Rizzuto, dove era latitante, il 21 dicembre 1992.
All’incontro con Luigi Bonaventura ho deciso di pubblicare alcuni post di cui quello odierno è il primo. Lo faccio – ripeto – non perché stia a me giudicare la sua attendibilità ma perché è l’ennesimo caso di un collaboratore di giustizia che leva alto il grido contro l’indifferenza e l’abbandono dello Stato. Prima di lui si contano a decine quelli che – soprattutto tra Calabria e Sicilia – hanno fatto outing sulle loro condizioni e su quelle dei loro familiari “usa e getta”. Per limitarmi a chi su questo blog ha lanciato un allarme disperato, ricordo Tiziana Giuda, la moglie di Vincenzo Marinom un altro pentito della cosca Vrenna Bonaventura, (si veda il post del 19 marzo 2012).
Ripeto ciò che ho detto tante volte: delle due l’una. O sono singolarmente attendibili e ciò che dichiarano viene meticolosamente riscontrato e serve per dare un contributo fondamentale nello smembramento delle mafie (ed allora debbono essere tenuti in un palmo di mano da parte dello Stato che, senza il loro aiuto, spesso brancola nel buio) oppure sono inattendibili e allora debbono pagare due volte.
Quel che appare certo è ormai una sfibramento irrimediabile sull’utilizzo e il ricorso ai collaboratori. La sensazione è che sia cambiato (in peggio e per sempre) il rapporto tra Stato e collaboratori. E quel che è ancora più incredibile è che è compromesso anche il rapporto tra Stato e testimoni di giustizia. Basti, per tutti, ricordare il caso di Pino Masciari.
I TENTATIVI DI BLOCCARLO
Nell’incontro Luigi Bonaventura non fa mistero delle difficoltà. “E’ tutto organizzato per lasciarci in difficoltà già dal momento in cui sanno dove ti condurranno”, dice seduto al tavolo di un decoroso e dignitoso appartamento alla periferia di Termoli, in provincia di Campobasso, mentre la moglie gli siede accanto silenziosa e il giovanissimo cognato, ancor più silenzioso, ci osserva parlare come se volesse imparare in fretta qualche lezione di vita.
Bonaventura afferma di aver dovuto alzare la voce e farsi sentire – famosa è rimasta una sua intervista alle Jene di Italia 1 – per spezzare l’isolamento “che rischiava di uccidermi e di farmi impazzire. Ci hanno provato a farmi passare per pazzo ma non ci riusciranno”.
La strada – dice – lo Stato e la ‘ndrangheta l’avevano scelta insieme: aspettare che lui morisse e così ha dovuto mettere in campo, dichiara, un sistema di “controspionaggio” per capire se e come volevano farlo fuori. “Allora lei ha ancora contatti con le cosche” gli chiedo a bruciapelo. “Ho dovuto inventare un mio sistema di filtraggio delle informazioni” dichiara, “per sopravvivere”.
Dubbi sulla qualità della sua collaborazione, Bonaventura non ne ha. “Quello che dichiaro”, dice, “è riscontrabile”. Però è stanco. Di più: sa che non ha futuro se resta in Italia, soprattutto ora che ha cominciato, con il pm Lombardo, a parlare di eversione nera, politica e De Stefano. O sparisce o l’ammazzano. Che sia attendibile o meno, ormai per la ‘ndrangheta non conta più.
Per questo ha chiesto di risolvere il “contratto” che lo lega allo Stato: 2,5 milioni chiesti dal suo avvocato e addio per sempre. Fuori, all’estero, dove magari sarà più difficile scovarlo. “Ma anche dall’estero – dice – continuerò a collaborare con lo Stato perché la mia decisione di rompere con la ‘ndrangheta è definitiva”.
E dalla moglie fa raccontare cosa gli ha detto il figlio pochi mesi fa: “Papà, sono contento che ti sia pentito”. Quella parola, “pentito”, che nelle cosche viene considerata una macchia, un disonore, in bocca a suo figlio suonava come una liberazione dal passato.
Bene. Per il momento mi fermo qui. Domani nuova puntata e nuovi particolari.
1 – to be continued
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