Debbo dire che rimango sconcertato rispetto alla “doppia velocità” che sul caso di Nino Di Matteo – per il quale è scattata la richiesta di un’azione disciplinare di fronte al Csm per “alto tradimento” – hanno imboccato da una parte la società (parti di essa) e dall’altra la stessa magistratura (si vedano articoli su questo blog del 4 e 9 aprile).
Partiamo dalla prima: la società. Il Movimento delle Agende Rosse, da Palermo ha guidato la carica del sostegno al pm impegnato nel difficile processo sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra a cavallo delle stragi del ‘92/93. Naturale che la città si muovesse intorno al Movimento (anche se sono lontani i ricordi della Palermo dei lenzuoli bianchi) e altrettanto naturale che proprio da Salvatore Borsellino e dalla rivista Antimafia Duemila nascesse la volontà di sottoscrivere una petizione al Csm per far archiviare rapidamente e senza colpo ferire l’atto di accusa nei confronti del pm palermitano.
Meno naturale – e per questo ancor più apprezzabile – che città del Nord, come Milano, abbiano visto sfilare davanti ai Palazzi di Giustizia manifestanti che sul "caso" Di Matteo chiedevano e chiedono Giustizia.
La società (parola che vuol dire tutto e non vuol dire nulla ma che comunque identifica chi, fuori dai giochi di Palazzo, fossero uno o cento persone, capisce bene quando la democrazia è a rischio) ha dunque reagito e sta reagendo ad un caso che è talmente paradossale che più paradossale non si può.
LA VELOCITA’ DIMEZZATA
E sì, perché invece di sostenere, senza distinzione di razza, colore o religione, Nino Di Matteo e chi con lui – da Palermo a Milano, passando per Reggio Calabria – combatte ogni giorno la battaglia non alle mafie ma ai sistemi criminali (cosa abissalmente diversa), per primi politica e magistratura sono sorde e distanti.
La politica – a meno che non mi sia rincoglionito d’un botto – ha e avrebbe il compito di porsi un problema come questo e prendere posizione. A parte i soliti e rispettabili noti in terra di Sicilia, non mi pare che qualcuno – né di piccolo né di medio o grande calibro nazionale – si sia alzato per chiedersi cosa stia accadendo. Chiedo umilmente: ma la politica politicante e parolaia pronta a mettere i piedi su qualunque piatto, su questa fetta di democrazia violata non ha proprio nulla da dire o proporre? E’ vero che quando interviene la politica parolaia fa più danni che un esercito di cavallette in un campo di grano e dunque non a lei mi rivolgo ma a quei quattro gatti che in Parlamento hanno ancora dignità di uomini.
E la classe intellettuale e pensante (me viè da ride) di questo Paese? Non c’è n è uno pronto a mobilitarsi con convinzione e perseveranza su una battaglia che parte o tocca Di Matteo ma, vivaddio, unisce e cuce altre Procure e altri magistrati in giro per l’Italia che sui sistemi criminali marci e deviati vogliono vederci chiaro?
LA VELOCITA’ AZZOPPATA
Quel che colpisce però, sia ben chiaro, è il silenzio rumoroso e fastidioso della magistratura o, peggio ancora, gli sfridi delle beghe (e delle toghe) che rischiano di allontanare dalla sostanza e far galleggiare la superficialità del problema.
La bravissima collega Liana Milella, sul suo blog, sta guidando, seguendo e animando un interessante dibattito sul caso Di Matteo e trovo, francamente, che alcune prese di posizione (per carità di Dio, legittime e reali) di colleghi del pm palermitano siano disarmanti.
Posizioni ammantate da cariche o ex cariche associative che sostanzialmente conducono alcuni membri dell’Anm a dire, come hanno fatto Ezia Maccora e Anna Canepa: «L’associazione Nazionale Magistrati non è infatti la sede in cui il difensore disciplinare di un magistrato può chiedere tutela per il suo assistito». O ancora: «In nessun caso il difensore ha sollecitato l’intervento dell’Associazione, consapevole della “interferenza” che una tale richiesta avrebbe potuto comportare. I colleghi che si trovano ad affrontare un giudizio disciplinare devono infatti essere difesi nella sede propria, perché, come è stato spesso ricordato, ci si difende nel processo e non dal processo e senza bisogno del supporto dell’Anm, che rappresenta tutti i magistrati, compresi i componenti della sezione disciplinare e delle sezioni civili della Cassazione». E infine: «Questo è stato lo spirito che ci ha portato, unitamente alla maggioranza dei componenti dell’Anm, a non aderire alla richiesta di Sebastiano Ardita, che sembra aver confuso i suoi due diversi ruoli di difensore disciplinare di Nino Di Matteo e di rappresentante associativo».
Facile per qualcuno ricordare che nel 1995, all’indomani dell’annuncio di un’azione disciplinare del ministero della Giustizia nei confronti del pool milanese di Mani Pulite, l’Anm così si espresse: «sconcertante che, al termine di un'indagine complessa e articolata da cui non appare essere emerso alcun addebito nei confronti dei componenti del pool in relazione alla loro attività giudiziaria, invece di rasserenare l' opinione pubblica dando atto della correttezza dei comportamenti dei Pm titolari delle indagini, venga attivato lo strumento disciplinare per censurare l' esercizio di una facoltà di difesa». Il segretario dell’Anm, Edmondo Bruti Liberati, aggiunse che «si assiste a un singolare rovesciamento delle parti».
Naturale – ci sta essendo il difensore di Di Matteo – che Sebastiano Ardita, intervenendo sempre nel blog della collega Milella, dica e risponda con semplicità lineare: «…non ho affatto confuso il ruolo di difensore disciplinare con quello di rappresentante associativo. Semplicemente sento il dovere di svolgerli entrambi. L’onere di difendere Nino Di Matteo con argomenti tecnici dinanzi al giudice competente non mi solleva dal dovere di difendere lui, i colleghi di Palermo e quant’altri si troveranno nella sua condizione, sul piano politico-associativo ponendo le questioni che si stagliano grandi quanto una casa a margine di questa vicenda e che solo chi chiude gli occhi riesce a non vedere». E ancora: «…se l’Anm è solo uno strumento che serve a bacchettare, educare, richiamare a parole la “questione morale”; e mai difendere, sostenere, incoraggiare; ed infine neanche discutere di argomenti scomodi, penso che i magistrati italiani possano farne volentieri a meno. La vera questione morale sarebbe condividere un po’ del rischio personale e professionale che corrono ogni giorno Di Matteo ed i colleghi di Palermo – o anche di Caltanissetta di Napoli o di Reggio – direi ai miei interlocutori nell’Anm. Ma sarebbero sufficienti anche poche parole chiare».
LA SFIDA
Ricordo che i capi di “imputazione” a carico di Nino Di Matteo, secondo l’azione disciplinare avviata il 21 marzo (significativamente primo giorno di primavera e giornata della memoria in ricordo d
elle vittime di mafia) dalla Procura generale della Cassazione sono due.
Il capo A recita “illecito disciplinare articoli 1 e 2 primo comma lettera g del decreto 109/06” perché «…quale pm della trattativa Stato-mafia ha mancato ai propri doveri di diligenza e riserbo e in particolare rispondendo alle domande dell’intervistatore ha ammesso, seppur non espressamente ma usando espressioni di non equivoco significato che agli atti non depositati del procedimento esisteva la registrazione di telefonate del senatore Nicola Mancino con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano…».
Il capo B recita “illecito disciplinare articoli 1 e 2 primo comma lettera V del decreto 109/06” perché «…con la condotta di cui al capo B ha leso indebitamente e in maniera concreta il diritto di riservatezza di natura anche pubblicistica del Presidente della Repubblica. Nella specie la violazione del dovere di riserbo appare di particolare gravità poiché come affermato dalla sentenza della Corte Costituzionale 1/2013 le comunicazioni del Presidente della Repubblica sono coessenziali al suo ruolo nell’ordine costituzionale… ».
Piccolo dettaglio: la sentenza 1/2013 del 15 gennaio della Corte costituzionale richiamata nel capo di “imputazione” è intervenuta sei mesi dopo la sollevazione del conflitto di interessi da parte del Capo dello Stato ma soprattutto sette mesi dopo l’intervista.
Un’intervista nella quale – come scrisse alla Suprema Corte il Capo della Procura di Palermo Francesco Messineo – Di Matteo aveva rappresentato che, in risposta ad una domanda «assolutamente generica» dell’intervistatore sulla sorte delle intercettazioni effettuate, egli si era limitato «all’ovvio richiamo alla corretta applicazione della normativa in tema di utilizzo degli esiti delle attività di intercettazione telefonica» e che «nell’ordinamento attuale nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione,quando, nel corso di una intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione». Il Procuratore Messineo aggiunse che «in tali casi, alla successiva distruzione della conversazione legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente, previa valutazione della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la autorizzazione del Giudice per le indagini preliminari, sentite le parti. Ciò è quanto prevedono le più elementari norme dell’ordinamento […]».
Ora il modesto scriba che leggete non ha sicuramente la preparazione e la cultura giuridica e giudiziaria di un magistrato della Cassazione e neppure di un auditore, tantomeno di un avvocato o di un praticante di uno studio legale. Forse nepure di un azzeccagarbugli. Non sono dunque in grado di “giocare” raffinatamente in punta di diritto come sembrano fare alcuni dei protagonisti, a testimonianza forse subliminale e dunque inconscia che il diritto si piega a seconda delle esigenze (proprie o di parte).
Il modesto scriba che qui leggete non ha neppure la profonda conoscenza dei meandri dei palazzi associativi o istituzionali come li ha la bravissima collega Milella e di tutte le regole più o meno scritte che regolano il “traffico” degli associati.
Ma al modestissimo scriba che qui leggete di tutto questo interessa relativamente perché la difesa di Nino Di Matteo e di tutto quello che la sua tutela rappresenta, solo in apparenza (superficie) ha a che fare con il diritto o con la presunta violazione di cardini costituzionali, Sono convinto che tutto questo lo dimostrerà la rapida archiviazione del caso.
Ancora, al modestissimo scriba che qui leggete di tutto questo interessa relativamente perché la difesa di Nino Di Matteo e di tutto quello che la sua tutela rappresenta, non deve avere nulla ha a che fare neppure con la corporazione, l’associazionismo e/o l’involuta chiusura dialettica a riccio di Tizio, Caio o Sempronio.
Al modestissimo scriba che qui leggete interessa solo spostare l’ottica dal dito alla luna e dalla lana caprina alla sostanza: la magistratura tutta – senza distinzione di sesso, colore, politica, religione e chi più ne ha più ne metta – vuole battere la strada che sta percorrendo la società a sostegno del pm Di Matteo o no?
Chi non lo vuole è legittimato a farlo: si alzi e dica il perché. Nulla di male. Anzi: la democrazia vive di alternanze e distanze. Ma non si trinceri – di grazia –dietro silenzi che uccidono più delle voci dal sen fuggite e dietro le pieghe flessibile che si attribuiscono agli organi associativi.
Perché vedete, se fossi io Nino Di Matteo, eviterei l’archiviazione e chiederei di “andare a giudizio” per mettere il sinedrio di fronte a questa frase contenuta nel capo di “imputazione” formulato dalla Procura generale della Corte di Cassazione: «… ha leso indebitamente e in maniera concreta il diritto di riservatezza di natura anche pubblicistica del Presidente della Repubblica…».
Se questo è vero, quell’”indebito e concreto atteggiamento” altro non sarebbe che un atto compiuto con dolo, un atto compiuto con “volontà cattiva”, come insegnava il mio professore di diritto penale alla Sapienza di Roma (non segui mai il suo consiglio, ne tantomeno quello del mio relatore Franco Ferracuti, criminologo di fama mondiale, di rimanere nell’ateneo).
Se questo è vero, se non c’è colpa ma dolo, Nino Di Matteo va cacciato con ignominia dalla magistratura.
Nino, accetta la sfida.
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