Cari lettori, da giovedi scorso sto scrivendo e descrivendo l’operazione El Dorado con la quale il 6 maggio il Comando provinciale di Reggio Calabria dell’Arma dei Carabinieri ha eseguito un’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal Gip del Tribunale di Reggio Calabria su richiesta della Direzione distrettuale antimafia, nei confronti di 22 soggetti appartenenti e contigui alla ‘ndrangheta nella sua articolazione territoriale denominata “locale di Gallicianò”, operante a Condofuri e territori limitrofi, oltre che nella provincia di Viterbo.
I 22 sono responsabili a vario titolo di: associazione di tipo mafioso, detenzione illegale di armi comuni, concorso in riciclaggio, concorso in impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (tutte con l’aggravante di aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni dell’associazione mafiosa e allo scopo di agevolare l’organizzazione stesa). A guidare l’indagine della Dda il Pm Nicola Gratteri con il sostituto Antonio De Bernardo.
Nelle due precedenti puntate (e per questo rimando all’archivio) ho affrontato i temi della pervasività dell’affiliazione ‘ndranghetista a Condofuri (16 maggio) e delle influenze sui giovani e sul voto, oltre che al “dramma” delle soffiate alle cosche sulle indagini in corso (17 maggio)
Oggi affronto l’ultimo tema: quello delle proiezioni degli affari degli indagati/arrestati a Viterbo.
Le investigazioni hanno inquadrato le attività della famiglia a capo della “locale” di Gallicianò ed hanno consentito individuare un rodato sistema di riciclaggio di denaro che, partendo dalla Calabria, era ripulito attraverso le nel Viterbese per tornare successivamente nel capoluogo reggino. Insomma, come si legge in un passo dell’ordinanza, c’è «un rapporto solidale instaurato da Alberto Corso con la consorteria criminale di Gallicianò che nella zona di Viterbo ha predisposto una propria testa di ponte per poter svolgere attività di riciclaggio dei propri e degli altrui capitali illeciti raccolti in aree criminali alleate, allo scopo di poterli investire e, al contempo, consentirne il rientro in Calabria in apparenza di legalità».
Alberto Corso (chiamato anche “Roberto”) è laziale, estraneo ai vincoli in gran parte di sangue che legano i componenti della cosca di Gallicianò, noto anche a Domenico Foti, affiliato al “locale” di Condofuri, ma viene scelto – si legge testualmente nell’ordinanza – per le qualità personali per la affiliazione formale alla ‘ndrangheta, ancorché non calabrese.
IL REFERENTE IN LOCO
Le investigazioni hanno consentito appurare come sin dall’inizio, Alberto Corso, socio in affari dei fratelli Nucera e loro referente nella provincia di Viterbo, è indicato da Domenico Foti e Antonio Nucera come “contrasto onorato”, vale a dire un “iniziato” che è prossimo al rito del “battesimo”, attraverso il quale entrerà ufficialmente nella cosiddetta “onorata società” ed è lui stesso a ricevere un illuminante lezione sulla ‘ndrangheta da parte di Domenico Nucera, che gli spiega l’organizzazione, l’assegnazione delle cariche in occasione della festa della Madonna di Polsi, la suddivisione dei locali, lo sviluppo della carriera ‘ndranghetistica dal basso, gli fa vedere la propria incisione e la carica di Santa che detiene.
Alberto Corso viene rassicurato da Domenico Nucera, che gli promette direttamente la carica di sgarrista, senza passare per quella intermedia di camorrista e che, se poi vorrà andare oltre, non deve preoccuparsi poiché comunque lo aiuterà lui.
Domenico Nucera continua raccontandogli il rito del “battesimo”, la lettura di una formula, la ferita da procurarsi con un coltello sul dito e la goccia di sangue che deve fare cadere su un limone ed infine il santino che deve essere completamente bruciato.
L’indagine ha consentito, però, di appurare soprattutto un sistema di riciclaggio di denaro sporco che partendo dalla Calabria, passava per il Lazio attraverso alcune ditte e ritornava in provincia di Reggio Calabria.
Già ad aprile 2009, Alberto Corso e Francesco Nucera, titolari di alcune piccole aziende nella provincia di Viterbo, secondo la ricostruzione di investigatori e inquirenti, si presentano a Reggio Calabria e tramite Antonio Nucera chiedono del denaro poiché la ditta ortofrutticola Cimina dei fratelli Corso era in forti difficoltà economiche.
Nel maggio 2009 Antonio Nucera, fermato ad un posto di controllo nella provincia di Viterbo, viene trovato in possesso di circa 50.000 euro in contanti dalla Guardia di finanza e lo stesso dichiara che erano soldi provenienti dalla Svizzera e che servivano ai nipoti Nucera per pagare gli operai. Invece gli investigatori ritengono che i soldi fossero per i fratelli Corso e provenissero dalla Calabria.
I pm Gratteri e De Bernardo stimano che i fratelli Nucera e Corso abbiano preso circa 600.000 euro dalla Calabria per poi reinvestirli nelle ditte “Nucera Trasporti”, “Vitercalabra” ed “Ortofrutta Ciminà”.
La restituzione del denaro avveniva mediante l’invio mensile di 7.500 euro e di 50.000 euro una tantum, allo zio Antonio Nucera, che tramite un terzo li restituiva a chi aveva dato il credito, fra cui Rocco Musolino. Per questo l’operazione è stata denominata El Dorado: prende il nome proprio da questa attività di riciclaggio, che ha consentito di costruire un intero impero e paradiso economico nella provincia di Viterbo. Ed infatti sono state poi sottoposte a sequestro probatorio sei aziende, tutte riconducibili ai fratelli Corso e Nucera.
L’ORIGINE DEI SOLDI
La Procura è riuscita a ricostruire le tappe attraverso le quali i fratelli Corso, Raffaele Nucera (classe ’63), Antonio Nucera (classe ’55), Domenico Foti, Concetto Manti e Domenico Vitale, in concorso tra loro ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso, in più occasioni ricevevano da Rocco Musolino e da altre persone originarie della zona Aspromontana, attraverso Domenico Vitale, ingenti somme di denaro contante (600mila euro), di provenienza delittuosa, in relazione alle quali venivano compiute operazioni volte ad occultarne l’origine e che venivano dai fratelli Corso e Nucera impiegate nelle ditte “Nucera Trasporti Srl.”, “Vitercalabra Srl.” e “Ortofrutticola Cimina” per poi essere restituite con la complicità di Domenico Foti, Concetto Manti e Pietro Rodà.
In particolare l’accusa ha ricostruito che:
1
) Domenico Vitale svolgeva il ruolo di intermediario tra lo stesso Musolino e Antonio Nucera, sia per veicolare le cosiddette “ambasciate”, sia per la consegna materiale del denaro da impiegare nelle ditte viterbesi e che poi veniva spedito da Viterbo per essere restituito a Musolino;
2) Antonio Nucera manteneva i rapporti con Vitale e Musolino, si occupava della consegna materiale e del trasporto del denaro contante, impartiva disposizioni a Raffaele Nucera e Domenico Nucera sulle modalità ed i tempi delle restituzioni.
3) Raffaele Nucera, Domenico Nucera e i fratelli Corso investivano il denaro nelle ditte “Nucera Trasporti Srl.”, “Vitercalabra Srl.” e “Ortofrutticola Cimina” per poi restituirlo a più riprese, con cadenza mensile e una tantum, ad opera di Domenico Nucera, unitamente ad Alberto Corso, per il tramite dello zio Antonio Nucera (classe 55), a Domenico Vitale (classe ’59), avendo adottato gli opportuni accorgimenti contabili (versamento su conto corrente, emissione di assegni intestati a soggetti compiacenti, fatturazioni per operazioni inesistenti) volti a giustificare le movimentazioni e così occultare la provenienza del denaro e la restituzione dello stesso.
4) Domenico Foti, Concetto Manti e Pietro Rodà collaboravano con i Nucera nelle operazioni descritte, anche rendendosi disponibili ad anticipare somme di denaro, a farsi intestare assegni dai Nucera, ad emettere fatture per operazioni inesistenti per giustificare la movimentazione delle somme di denaro da restituire a Musolino tramite Vitale.
«Il tutto con la piena consapevolezza della provenienza delittuosa del denaro – si legge testualmente nell’ordinanza – in considerazione delle modalità di conservazione e trasferimento dello stesso, sempre in contanti anche per somme notevoli, della contiguità del Musolino Rocco e delle altre persone non meglio identificate. originarie della zona Aspromontana a contesti criminali nonché della circostanza che il medesimo Musolino fosse dedito all’esercizio abusivo del credito.
Con l’aggravante di aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni di cui all’articolo 416bis c.p. ed allo scopo di agevolare l’organizzazione mafiosa».
Mi fermo qui con il solito pro memoria che talvolta taluni dimenticano o fanno finta di non vedere: come sempre faccio, quel che è stato descritto anche in queste tre puntate dedicate all’operazione El Dorado è l’atto di accusa nei confronti di persone e cose della Procura contenute in un provvedimento avallato da un gip; l’augurio, per il bene dei singoli e del Paese, è un solo: che trionfi la Giustizia e chi ha sbagliato paghi e che a chi non ha sbagliato sia restituita dignità.
3 – the end (le precedenti puntate sono state pubblicate il 16 e il 17 maggio)