Ci sono parti del memoriale e del video di Nino Lo Giudice, il “pentito calabrese pentito di essersi pentito e che forse si ripentirà del pentimento”, consegnati a più di un mittente, sulle quali vale la pena di soffermarsi.
Però, come vedete – amati lettori di questo umile e umido blog – nonostante tante siano le sollecitazioni, da quando il “memoriale smemorato” è stato diffuso (da me per primo sul portale del Sole-24 Ore) ne sto alla larga per le parti che toccano le radici calabresi.
La mia sensazione – confidata ad alta voce – è che per il momento è meglio stare ad aspettare. La partita di tennis è iniziata da poco ed è bene fare lo spettatore e non il giudice di linea e tantomeno l’arbitro (cosa quest’ultima che non spetta mai ad un giornalista).
COSTRETTO (?) A PARLARE DELLA SICILIA
La parte che vorrei analizzare con voi è quella nella quale Lo Giudice – chiamando in causa il sostituto procuratore nazionale antimafia Gianfranco Donadio – entra (volontariamente o indotto non sta a me dirlo) in una parte più grande di lui, mischiando nomi e situazioni che a lui (forse) non diranno nulla ma che, ad una lettura più attenta, sembrano fatti apposta per un film sulla Spectre mondiale. A lui – calabrese – seconda l’accusa che egli stesso fa, sarebbe toccato il compito di raccontare di alcune scottanti vicende accadute in Sicilia. E a lui sarebbe toccato addentrarsi nei misteri profondi che chiamano inevitabilmente in causa anche la parte più sporca dei servizi segreti.
Ieri, ci informa la collega Alessia Candito su www.corrieredellacalabria.it. il procuratore capo Federico Cafiero De Raho ha annunciato che la Procura sta «formando due fascicoli, uno andrà a Perugia, uno andrà a Catanzaro. Si tratta di fascicoli perché oltre al memoriale, verranno allegati tutti gli atti e gli accertamenti preliminari che la Procura di Reggio ha ritenuto di fare». Ai magistrati di Catanzaro, competenti sui profili riguardanti i colleghi in servizio a Reggio, spetterà valutare se e quanto ci sia di vero nelle pressioni che il “nano” ha denuncia di aver subìto da quella che lui appella «cricca». Alla Procura di Perugia, invece, spetterà l’analogo compito nei confronti proprio di Donadio* che secondo Lo Giudice, allegando video e decreto di citazione di un colloquio investigativo nel carcere di Rebibbia pochi giorni prima del Natale 2012, lo avrebbe obbligato a riferire particolari di cui non era a conoscenza. Il Sole-24 Ore – attraverso chi scrive – al momento della diffusione del memoriale e del video, altamente diffamatori per un magistrato del calibro di Donadio* oltre che per gli atri magistrati coinvolti nel suo scritto e nel suo video, ha contattato il magistrato della Dna per avere un commento sul memoriale stesso e sul video ma si è sentito opporre un gentile ma fermo diniego. Il magistrato Donadio* ha dichiarato ancora una volta a chi scrive che il silenzio in questo momento è d'oro e che il tempo sarà galantuomo. Principio valido anche per gli altri magistrati chiamati in causa da Lo Giudice e se i segni sono importanti, va notato che Federico Cafiero De Raho sta lavorando come un solo ufficio, a testimoniare l'importanza del gruppo che non viene intaccato dalle chiacchiere, anche con alcuni di quei magistrati chiamati in causa dal "nano", a testimonianza che le chiacchiere sono chiacchiere (quelle di Lo Giudice) e i fatti sono fatti (quelli della Procura). Inutile far notare a Donadio che in un momento come questo sarebbe stato forse il caso di dire la sua.
IL MEMORIALE
E allora trascriviamola quella parte sulla quale già ieri ho svolto alcune riflessioni (rimando al post in archivio). Secondo il “nano spentito”, lo scopo del colloquio investigativo di Gianfranco Donadio era quello di «impiantare una tragedia a persone a me sconosciute (tale G.A. e una certa A. che non sapevo che esistevano e che malgrado la mia opposizione a tale richiesta, ascolta registrazione integrale) ho subito forti pressioni e minacciato che se non rispondevo quella sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo visti, accettai quanto mi veniva suggerito dal dottor Donadio e, facendomi firmare quanto a lui conveniva, altresì, in tale circostanza mi veniva richiesto se ero a conoscenza se Villani era il vero killer che uccisero i Carabinieri a Reggio Calabria, in’oltre se a presentarmi tale A. fosse stato mio fratello Luciano e, io gli risposi di no, che era stato il capitano S.S. e lui quando gli dissi così approvò con soddisfazione tale risposta, dopo volle sapere se io ero i possesso di fotografie di tale A. e risposi di sì, e come li avessi avuti, gli risposi che a farli era stato Antonio Cortese e lui accettò, poi mi disse se questo tizio mi aveva confidato qualcosa durante la nostra frequentazione e, di molto serio (degli attentati Borsellino e di omicidi avvenuti in Sicilia ai danni di due poliziotti in borghesi) e di altro omicidio consumato ai danni di un bambino avvenuto sempre in Sicilia.
Alla fine di questi discorsi chiesi io a lui di suggerirmi i nomi di queste persone di cui parlava e così mi disse che si trattava di un certo A. e una certa A. tutti e due facevano parte a servizi deviati dello Stato e che la donna era stata ad Alghero in una base militare dove la fecero addestrare per commettere attentati e omicidi e che era solito recarsi a Catanzaro in una località balneare per trascorrere il periodo estivo».
Ora anche ad un orbo salterebbe all’occhio che il “nano spentito” prima dice che «tale G. A.» era persona a lui sconosciuta poi, qualche riga dopo dirà che a presentarglielo non era stato il fratello Luciano ma «il capitano S. S.». Ma non è di questa stranezza che voglio parlarvi – se cominciassi con le follie contenute nel “memoriale smemorato” non finirei più e mi periterò in questo esercizio solo quando sarà il momento – ma della miscellanea o, se preferite vista la stagione, della macedonia che Lo Giudice serve sul tavolo del depistaggio. Non so se consapevole, inconsapevole o parzialmente consapevole. Parimenti non so se in combutta con Tizio, Caio o Sempronio.
Tutto sembra ruotare intorno alle confidenze che durante la «frequentazione» (che a questo punto suppongo che sia inventata; o no?), quel tal G. A. e quella tal A. gli avrebbero fatto di «molto serio»: dall’attentato a Borsellino all’omicidio di due poliziotti in borghese, per finire con un altro omicidio consumato ai danni di un bambino. I due baldi – A. e A. – dovevano essere al centro della “tragediata”.
L’OMICIDIO DEL BAMBINO
Non è compito mio (ma credo che mai si saprà la verità) giudicare chi e se abbia messo sul tavolo del “nano spentito” questo zibaldone di uova marce.
Abbiamo già detto e scritto che Lo Giudice imputa questi nomi e queste situazioni a Donadio ma – se mai così fosse – proporrei che Donadio* lasci la Dna per unirsi nella scrittura a Dan Brown. Sarebbe altresì pronto a ereditare la fantasiosa penna di Karl Stig-Erland Larsson, ahinoi prematuramente scomparso.
Di bambini scomparsi in Sicilia io ne ricordo uno e ho avuto la drammatica possibilità di vedere la sua camera di tortura e su quella pregare. Era il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, mafioso pentitosi. Fu rapito, strangolato e sciolto nell’acido l'11 gennaio del 1996, dopo 779 giorni di martirio.
Che c’azzecchi, direbbe Antonio Di Pietro, con gli altri riferimenti che il “nano spentito” fa (o che gli fanno fare) lo sa solo il buon Dio.
I POLIZIOTTI IN BORGHESE
Dando per scontato che l’unica cosa certa per la quale gli si potrebbe eventualmente chiedere conto è l’attentato a Paolo Borsellino (del quale credo che Lo Giudice sappia quel che so io del platipo, più volgarmente conosciuto come ornitorinco), per quanto mi sforzi di capire, proprio non comprendo come si possa mischiare tutto nel frullatore e soprattutto a chi giovi (state certi che a qualcuno giova).
I due poliziotti che vennero uccisi dopo il fallito attentato dell’Addaura ai danni di Giovanni Falcone, furono Antonio Agostino ucciso a Villagrazia di Carini (Palermo) il 5 agosto 1989 con la giovane compagna incinta e un collaboratore del Sisde, come del resto era Agostino, ex poliziotto, Emanuele Piazza, scomparso a Sferracavallo (Palermo) il 16 marzo 1990. La loro morte/scomparsa fu collegata alla presenza di un gommone e di due sub all’Addaura, dove avevano attentato alla vita di Giovanni Falcone. Sarebbero stati loro a evitare il peggio fingendosi sommozzatori. Solo ipotesi. Di certo c’è che il papà di Emanuele, Giustino Piazza, inviò una memoria alla Procura di Palermo nella quale scrisse: «…i funzionari della Polizia di Stato si sono limitati ad acquisire relazioni di servizio e non hanno svolto neanche le investigazioni di routine: di fatto hanno chiuso l’indagine senza alcuna acquisizione, come se, anziché scoprire volessero coprire chissà quali responsabilità… Il procedimento relativo alla scomparsa di mio figlio è stato successivamente archiviato… Sin dall’inizio delle indagini il Sisde ha negato l’appartenenza di Emanuele ai servizi…».
VOGLIO ANDARE AD ALGHERO
L’ultima fantasmagorica storia che viene accennata è quella del luogo di addestramento nel quale si sarebbero esercitati per «commettere attentati e omicidi» lo stesso A. e la fida segretaria A. E dove si addestravano? Risposta: ad Alghero. In una base militare.
E qui, inconsapevolmente o meno chi lo sa, il “nano spentito” tocca un nervo delicatissimo e fa galoppare la fantasia nella prateria del Centro addeestramento guastatori (Cag) di Punta Poglina a Capo Marrargiu, pochi chilometri a sud di Alghero. E chi si addestrava lì? Secondo la storia e la leggenda, i “gladiatori” della Stay Behind de noantri.
In Italia, quando non si sa che collante trovare per i misfatti più folli, o si guarda alla P2 o a Gladio (e le connessioni tra loro non mancano).
L’ex capo dell’ufficio amministrazione del Sifar (l'ex Servizio di informazione delle forze armate) Luigi Tagliamonte, poi capo dell’ufficio programmazione e bilancio del comando generale dell’Arma dei Carabinieri, durante una delle varie inchieste che ruotarono intorno alla base di addestramento di Gladio dichiarò: «Sapevo che presso il Cag si effettuavano dei corsi di addestramento alla guerriglia, al sabotaggio, all'uso degli esplosivi al fine di impiegare le persone addestrate in caso di sovvertimenti di piazza,in caso che il Pci avesse preso il potere…»
Insomma anche i due baldi G. e A. si addestravano alla pugna come i gladiatori. Ne facevano parte? Visto che la fantasia corre, la faccio correre anche io richiamando un pezzo del mio collega al Sole-24 Ore Beppe Oddo, che il 3 maggio 2012 scrisse: «Falcone non doveva occuparsi d'altro che di mafia militare e lasciar perdere le indagini sui colletti bianchi: questo era il messaggio che veniva dall'alto. E quando cercò di capire le eventuali connessioni tra gli omicidi eccellenti e la Gladio (la struttura paramilitare segreta, creata per contrastare l'avanzata della sinistra) gli fu impedito di farlo. Nella sua agenda elettronica c'è un appunto su una richiesta di incontro ai magistrati romani che seguivano quella pista. Prosegue Scarpinato (l’attuale capo della Procura generale di Palermo, ndr): “Falcone aveva preso degli appuntamenti in seguito a un esposto della parte civile del processo La Torre (il segretario regionale del Pci assassinato da Cosa nostra, ndr) da cui emergevano possibili collegamenti tra Gladio e questo omicidio. Ma l'allora procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco, li disdisse”».
Il “nano spentito”: se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. E con lui i coautori, se ci sono, della trama, degna di 007. Mi chiamo Lo Giudice…Nino Lo Giudice…
P.S * Oggi, 21 giugno 2013 ho incontrato Donadio ad un convegno a Rimini e gli ho chiesto, ancora una volta, di smentire le frasi calunniose e diffamatorie nei suoi confronti, contenute nel memoriale e nel video di Lo Giudice. Gli ho chiesto persino la possibilità di un'intervista in cui potesse fornire la rappresentazione delle cose. Niente da fare. Ancora una volta richiesta fermamente ma dolcemente respinta. Il tempo, ha ribadito, sarà galantuomo.
r.galullo@ilsole24ore.com