La Dda di Palermo riapre l’indagine sulla cattura di Provenzano – Intrecci diabolici tra un “gigante” (Spatuzza) e un “nano” (Lo Giudice)

Il primo ha scandito una data: 2006. Il secondo ha raccontato la sua verità sulla cattura. Al centro dei discorsi sempre lui: Bernardo Provenzano, che terminò la sua latitanza proprio nel 2006. Giorno e mese: 11 aprile.

Protagonisti, poche settimane fa, da una parte del tavolo, due magistrati e dall’altra quattro loro colleghi: Antonino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi, gli stessi che il 27 maggio hanno iniziato a Palermo il processo sulla trattativa tra Stato e mafia.

Questi due interrogatori – i primi di una serie – fanno parte di una costola di quel procedimento. In questo caso si tratta di un fascicolo contro ignoti, nel quale viene dunque già ipotizzato un reato (o più), sulle modalità con le quali Binnu u tratturi venne arrestato. Ad arricchire il fascicolo numerosi articoli (tra i quali quelli di chi scrive) e, a quanto risulta al Sole-24 Ore, un lungo servizio di Sky mai andato in onda con interviste e fuori onda dirompenti di magistrati e investigatori proprio sulla cattura del boss mafioso. Quel servizio sarebbe stato già acquisito dalla Procura di Palermo.

IL FASCICOLO DE FRANCISCI

Esattamente 13 mesi fa, nel maggio 2012, già l’allora procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo Ignazio De Francisci aprì un fascicolo modello 45 sulla cattura di Provenzano vale a dire (tecnicamente) l’iscrizione effettuata nel registro degli atti che non costituiscono reato. Quindi – ab origine – nessun reato fu intravisto nelle condotte descritte da alcune indagini giornalistiche sulla presunta trattativa per la cattura del boss di Cosa nostra.

De Francisci convocò a sé alcuni protagonisti della presunta trattativa, tra i quali i pm Alberto Cisterna, Vincenzo Macrì e un secondo mediatore presentatosi a nome di Provenzano. I mediatori che si presentarono allo Stato erano infatti due: il secondo – adducendo l’impossibilità di sostenere le spese di viaggio per l’interrogatorio a Roma – a maggio dello scorso anno non fu ascoltato e la patata bollente passò al pm Francesca Mazzocca quando De Francisci, il 1° ottobre 2012, volò in Procura generale. Il secondo mediatore in realtà ben poco avrà potuto aggiungere a quanto dichiarato – anche davanti a De Francisci – dal mediatore principale della presunta trattativa. Mediatore che avrebbe ricordato ancora una volta di essere stato mandato da un terzo soggetto (mai comparso sulla scena) di cui mai e poi mai avrebbe fatto e farà il nome. Non lo fece neppure quando l’allora capo della Procura nazionale antimafia Piero Luigi Vigna lo prese da parte in un corridoio della Dna per farselo dire: niente da fare.

DUE MAGISTRATI DAVANTI AI PM

Il nome del primo magistrato ad essere interrogato dai quattro pm di Palermo è top secret e al momento l’unica cosa che il Sole-24 Ore è in grado di dire è che ha indicato il 2006 come data nella quale si concluse la trattativa tra Stato e Cosa nostra. In quell’anno, dunque, secondo il magistrato audito, cessarono gli effetti di quel presunto accordo sul quale sta indagando la Procura di Palermo. Dopo la cattura di quel garante potrebbe esserci stato un nuovo ipotetico accordo che vedrebbe un altro garante dei patti inconfessabili tra parti deviate dello Stato e Cosa nostra: Matteo Messina Denaro che, potrebbe dunque non essere un caso, è ancora latitante e sulla cui mancata cattura è intervenuto pesantemente il maresciallo Saverio Masi.

Masi, che nel processo palermitano sulla trattativa è stato chiamato a riferire in ordine «agli ostacoli incontrati nell’ambito della sua attività investigativa finalizzata alla cattura di Bernardo Provenzano nonché a quanto a sua conoscenza sul ritrovamento, e sul mancato sequestro, del cosiddetto “papello” nel corso di una perquisizione domiciliare nei confronti di Massimo Ciancimino nel febbraio del 2005», caposcorta di Nino Di Matteo, è lo stesso che il 3 maggio ha presentato un lungo esposto alla Procura di Palermo, denunciando, questa volta, le pressioni ricevute dai superiori per non catturare il boss Matteo Messina Denaro, dal quale era giunto ad un soffio.

Oltre a Masi il luogotenente Salvatore Fiducia, ha depositato anch’esso in Procura, secondo la ricostruzione che ne fa l’Ansa il 14 maggio, un esposto circostanziato agli episodi avvenuti tra il 2001 e il 2004 quando, a un passo dalla cattura di Provenzano, avrebbe ricevuto inspiegabili ordini di non proseguire le indagini. Ordini che il luogotenente si sarebbe sentito ripetere nel 2011, quando era impegnato nella ricerca del covo del boss trapanese Messina Denaro, tuttora latitante.

L’avvocato Giorgio Carta, uno dei due legali con Francesco Desideri, ha spiegato in conferenza stampa come «prima Masi poi Fiducia, nelle loro indagini, individuano dei casolari dove sarebbero presenti i latitanti, ma anziché essere incoraggiati e dotati di strumenti tecnici, uomini e mezzi, viene ordinato loro di interrompere tutto, o di coordinarsi con il Ros» rischiando di non avere più la gestione delle indagini e perdendole di vista.
Secondo quanto riferito dagli stessi avvocati in quella conferenza stampa, ci sarebbe un terzo Carabiniere pronto a parlare con i magistrati e un quarto che potrebbe farlo.

Questo al netto della novità di ieri. Il Csm muove infatti al capo della Procura di Palermo, Francesco Messineo, vari rimproveri tra i quali quello di aver fatto sfumare la cattura di Messina Denaro per un suo «difetto di coordinamento all'interno dell'ufficio della procura». Lo scrive il Csm nell'atto di incolpazione, citando l'accusa del pm Leonardo Agueci. Non solo. A Messineo vengono contestati i suoi rapporti privilegiati con l’ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia dal quale sarebbe stato «condizionato nella gestione dell'ufficio» tanto da creare un clima pesante tra i colleghi soprattutto riguardo al processo sulla trattativa e sulla gestione del testimone Massimo Ciancimino.

IL SECONDO SERVITORE DELLO STATO

Del secondo magistrato che si è seduto per circa tre ore di fronte ai 4 pm di Palermo si sa che è lo stesso Alberto Cisterna, ora a Tivoli in attesa di sapere cosa ne sarà dei suoi ricorsi contro l’allontanamento dalla Dna.

Cisterna il 5 giugno, davanti a Di Matteo, Teresi e agli altri due colleghi ha ribadito e spiegato meglio, punto per punto, i fatti del giugno e dell’agosto 2011 ed il loro prologo addirittura dell’aprile del 2011 (ben prima che Lo Giudice consumati i 180 giorni per i fatti indimenticabili ricordasse di accusarlo: l’iscrizione è del 23 maggio 2011,
una data drammaticamente evocativa).

Il 17 giugno 2011 c’è il primo interrogatorio in Dna a Roma nei confronti di Cisterna, indagato per corruzione in atti giudiziari. A condurlo furono Giuseppe Pignatone, allora capo della Procura di Reggio Calabria e il sostituto Beatrice Ronchi, ora a Bologna ma applicata a Reggio fino a fine 2013.

Una parte dell’interrogatorio origina da una lunga e durissima lettera che Cisterna manda ad un sito calabrese in merito alla superficialità, a suo dire, con la quale era stata trattata la notizia della cattura del superboss di ‘ndrangheta Pasquale Condello e vicende successive, legate alla fulminazione sulla via di Damasco del pentito Nino Lo Giudice.

L’INTERROGATORIO

Ronchi fa dunque riferimento – nel corso dell’interrogatorio – alla parte finale di questa lettera di Cisterna.

Ecco quella parte di interrogatorio.

Ronchi: doveri, queste sono le sue parole, “doveri istituzionali che prescindono interamente dalla mia persona e dalla mia disponibilità mi hanno imposto e mi impongono l’assoluto silenzio sul punto per come imposto dalle norme di legge. Ho più volte detto che si tratta di una questione delicata che non può essere trattata in modo spregiudicato e avventuristico poiché coinvolge la vita di colleghi e di altre persone e vede in discussione interessi superiori della Repubblica”. Chiuse le virgolette.

Cisterna: perfetto! Testuale.

Pignatone: oh! Siccome questo sembra adombrare come dire i segreti d’ufficio, di Stato, ovviamente volevo preliminare questo, che volesse chiarire questo discorso …

Cisterna: non c’è dubbio Procuratore. Io il segreto d’ufficio su questa cosa lo oppongo formalmente, nel senso che sono ben conscio delle regole che qui non ci stiamo a ripetere reciprocamente perché so quali sono le 201…

Pignatone: facciamo tutti questo mestiere.

Cisterna: …Facciamo tutti questo mestiere. Io lo ho anche sottolineato in altre occasioni, che rispetto a questa questione, io ritengo, che è una questione che si inserisce in un discorso più complessivo; io ritengo di dover opporre il segreto d’ufficio consapevole del fatto che naturalmente il segreto d’ufficio presente il 201 riguarda il testimone e che non riguarda l’indagato; consapevole di tutta, oggi indagato, consapevole di tutta la giurisprudenza sul punto del conflitto tra segreto di Stato e facoltà di rispondere e così via, e fermo restando che se lei ritiene che la questione debba essere affrontata come dice il 201 io l’affronto direttamente quindi rimetto, come dice il codice, alla sua valutazione comunque la esplorazione della narrazione, io non ho, io devo soltanto come dovere di ufficio opporlo poi se lei ritiene …

Pignatone: non so neanche qual è il punto del problema quindi figuriamoci!

Cisterna: ma il punto mi sembra abbastanza evidente.

Pignatone: la cattura di Condello!

Cisterna: l’attività, non soltanto la cattura di Condello, ma come credo sappia la cattura, le attività inerenti la cattura di Provenzano, e le attività consequenziali, diciamo accessorie, che hanno riguardato la cattura di Pasquale Condello e la possibilità eventualmente, ma solo ipotetica, di catturare Giuseppe Morabito inteso il tiradritto. Quindi che erano i tre episodi in discussione in quel frangente e che hanno comportato una serie di contatti istituzionali a cui ho partecipato in qualità di titolare dell’ufficio di Procura nazionale, sostituto ovviamente.

Pignatone: ammesso che io non so a cosa allude questo riferimento a Provenzano.

Cisterna: vedremo! (il punto esclamativo è nell'originale, immaginate il tono, ndr)

Pignatone: no, non so a che cosa allude.

Cisterna: va bene, io sto, prendo atto Procuratore.

IL RADDOPPIO DAVANTI A DI LANDRO

Dopo questo sfogo Cisterna, la cui carriera lanciata verso la Procura di Reggio o addirittura come erede di Grasso in Dna viene irrimediabilmente stroncata, aveva scritto un lungo esposto i quattro pm di Palermo gli hanno chiesto conto.

Il 13 agosto 2011, infatti, Cisterna, attraverso i suoi legali, scrisse un esposto denuncia di 39 pagine con il quale chiese al pg di Reggio Calabria Salvatore Di Landro l’avocazione dell’indagine sul suo conto. La richiesta non verrà accolta ma resta quella incredibile denuncia contenuta alle pagine 22 e 23: «Attendo ancora per rimettere alla S.V. (e altrove) tutte le innumerevoli, drammatiche vicende che hanno contrassegnato la vicenda processuale che mi vede ingiusto protagonista e vittima preordinata. Ad esempio verrà il tempo di discutere delle vicende che dal 2003 al 2005 hanno riguardato l’intento di Bernardo Provenzano di consegnarsi alla giustizia (questione che chiama in causa la posizione di ben tra dei protagonisti delle vicende giudiziarie reggine: il dr. Pignatone, il dr.Prestipino e il dr.Cortese, tutti epigoni della cattura del detto latitante nel 2006); questione che, non a caso ritengo, ha segnato l’incipit del mio interrogatorio da parte del dr.Pignatone il 17 giugno 2011…o di scandagliare le ragioni per cui lo scrivente ed il dr.Vincenzo Macrì sono stati sollevati, dal 16 settembre 2009 dalle funzioni di collegamento investigativo con il distretto reggino».

Cisterna disse dunque, in più occasioni e non solo in quelle qui ricordate, che sarebbe venuto il momento di parlare della cattura di Provenzano e di altri latitanti eccellenti di mafia. Quel momento è venuto e, tra le prime cose che gli sono state chieste dai quattro pm di Palermo, c’è proprio la sua conoscenza (o meno) del cluster di servizi di Sky nel quale, pure lui, rese un’intervista.

LE PAROLE DI GRASSO

La presunta trattativa sulla cattura di Provenzano fu spontaneamente accennata (e negata) da Piero Grasso, che di Vigna prese il posto, nel corso dell’audizione al Csm dell’11 dicembre 2011, che stava discutendo della situazione di Alberto Cisterna, suo braccio destro in Dna e in quel momento accusato di corruzione in atti giudiziari sulla scorta delle dichiarazioni del pentito calabrese Nino Lo Giudice. Accuse non solo cadute successivamente (archiviazione chiesta dalla stessa Procura di Reggio Calabria) ma che ora assumono una veste ancora più inquietante visto che Lo Giudice con un doppio clamoroso colpo
di scena, la scorsa settimana non solo è evaso dalla località segreta dove stava scontando una condanna ai domiciliari ma ha ritrattato tutto quanto aveva detto ai pm reggini, proprio a partire dalle dichiarazioni rese su Cisterna.

E cosa disse Grasso nell’audizione al Csm? Quanto segue: «… mi si prospettò, da parte della Guardia di Finanza questo signore che diceva addirittura di avere dei contatti con il latitante Provenzano, il quale si doveva trovare in località naturalmente non precisata ma comunque nel Lazio. Ricordo che siccome precedentemente, quando ero procuratore a Palermo, avevamo fatto un'indagine sulla presenza di Provenzano a Marsiglia: eravamo riusciti a ottenere un frammento di un reperto medico/sanitario relativo alla sua operazione a una spalla e alla prostata, che ci aveva consentito di trarne il Dna. Insomma, non potendo catturare tutto il latitante ne avevamo catturato un pezzetto, però era utile per evitare che potessero magari far trovare un corpo spacciandolo per il latitante, perché già si parlava che era morto. Quindi essendo in possesso di quel reperto, a colui che diceva di essere in contatto con il latitante Provenzano, dissi di farci avere qualcosa – un fazzoletto, un bicchiere, un qualcosa – per poter confrontare il Dna prima di procedere a qualsiasi ulteriore passo verso quelle che erano le richieste. Perché veniva quasi come un "messaggero" di Provenzano. Insomma qualcosa che non convinceva. Fra l'altro io conoscevo le indagini, perché avevo appena lasciato il territorio di Palermo e non c'era assolutamente nessuna possibilità di qualche collegamento. Quindi a me sembrava più un truffatore che altro. Infatti feci questo colloquio investigativo ma poi nel tempo scoprii che altri due in precedenza erano stati fatti da Vigna e dai sostituti Cisterna e Macrì».

VINCENZO MACRI’

L’”informatore-messaggero” laziale, per Grasso è un truffatore ma per Enzo Macrì, ora Procuratore generale ad Ancona, era invece affidabile. E sì perché Macrì si chiese e si chiede ancora perché un bel giorno un pazzo bussò alle porte della Dna per cercare di fregare – al tempo stesso – Provenzano e lo Stato, dal quale pretendeva tra i due i quattro milioni e con quali speranze di riuscirci visto che i soldi li avrebbe ricevuti solo a consegna avvenuta.

LA COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA.

Di fronte al clamore suscitato dalle inchieste giornalistiche che fecero seguito alle dichiarazioni di Cisterna e Macrì, l’allora parlamentare del Fli Angela Napoli scrisse all’allora presidente della Commissione parlamentare antimafia Beppe Pisanu. Il 26 aprile 2012 Napoli diffuse il seguente comunicato stampa: «Alla luce delle notizie relative alla cattura di Bernardo Provenzano…ho inviato una richiesta scritta al senatore Giuseppe Pisanu, Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia. La richiesta, che sicuramente verrà esaminata nel prossimo Ufficio di Presidenza della Commissione, tende a far diventare oggetto di indagine il “mistero” celato dietro la cattura del noto boss di Cosa Nostra. Mi sembra, infatti, necessario che le vicende legate alla cattura di Bernardo Provenzano, debbano essere inserite nell’inchiesta relativa alle “stragi del ‘92” , in atto parte integrante del lavoro della Commissione Parlamentare…».

Dopo questa presa di posizione intervennero anche altri membri della Commissione parlamentare antimafia ma non se ne fece nulla e va ricordato, a solo titolo di contestualizzazione storica, che Pisanu era ministro dell’Interno quando venne arrestato Provenzano.Vale la pena sottolineare anche che già a maggio 2010, nel corso di un’udienza del cosiddetto “processo Mori”, quello chiusosi due settimane con le richieste di condanna avanzata dal pm Nino Di Matteo, l’ex legale di Massimo Ciancimino, Roberto Mangano, aveva sollevato dubbi e interrogativi sull’improvvisa partenza (verso Sharm el Sheik) proprio di Ciancimino in occasione di un “fatto eclatante”. Sarà stato proprio la cattura di Provenzano?

LA DIRETTIVA VIGNA

Ma c’è un altro giallo da chiarire e del quale probabilmente è stato chiesto conto a Cisterna, quello della direttiva ai comandi di polizia – scritta da Vigna per sua esplicita ammissione e che, se non fosse morto, avrebbe dovuto essere audito anche su questo punto dal pm De Francisci – sulle Procure da avvisare e coinvolgere in caso di arresto di Provenzano. Questa direttiva è stata per certo chiesta dalla Procura di Palermo ma non è mai arrivata dalla Dna e, a quanto dichiarò lo scorso anno, a chi scrive, De Francisci, Grasso si oppose, sicuramente avendone diritto, alla spedizione. Se davvero così fosse sarebbe in vero uno strano caso di collaborazione tra procure antimafia. Certo sarebbe interessante sapere cosa diceva questa direttiva e sapere l’ordine gerarchico di allerta: quali Procure? Solo Palermo o anche Roma e Viterbo?

C’è da giurare che i quattro pm di Palermo saranno tornati alla carica per avere quella direttiva. Questa volta l’avranno ottenuta? Perché la sensazione è che rappresenterebbe un punto di svolta.

LA MORTE DI ATTILIO MANCA.

Vale infine la pena sottolineare che forse la latitanza di Provenzano si lega anche alla scomparsa dell’urologo Attilio Manca, morto in circostanze misteriose tra l’11 e il 12 febbraio 2004 a Viterbo, presso il cui ospedale lavorava. Originario di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, nel 2003 viaggia nel sud della Francia, per assistere a un intervento chirurgico, come disse lui stesso ai genitori. Nel 2005 nell’inchiesta che porta alla maxi operazione antimafia denominata Grande Mandamento emerge che Bernardo Provenzano è stato a Marsiglia: una prima volta dal 7 al 10 luglio 2003 per sottoporsi a radiografie e ad esami di laboratorio e in un secondo momento proprio nel mese di ottobre dello stesso anno per subire l’operazione alla prostata. Guarda tu che coincidenza: l’urologo Manca e il boss Provenzano sono – nello stesso periodo – in Francia. E, guarda tu che altra coincidenza, il secondo è il malato e il primo è il chirurgo (bravo, esperto, affidabile, siciliano) che può alleviargli le pene.

Manca potrebbe essere stato l’urologo che operò (costretto verrebbe da pensare) Provenzano appunto in Francia una prima volta per essere poi assistito non a Viterbo ma forse in una clinica a Roma, anche alla luce dei contatti medico-massonico di Provenzano nella sanità laziale ai più alti livelli. Altissimi. Irraggiungibili ai comuni mortali.

Il 10 luglio 2012, in un evento pubblico, l’allora procuratore capo della Dna e oggi presidente del Senato, Piero Grasso, aveva ancora una volta tagliato la
testa a due ipotesi in una: non si è mai riscontrata alcuna presenza certa della latitanza di Bernardo Provenzano nel Lazio e mai trattativa tra Stato e Cosa nostra ci fu per la sua cattura: «Non c’è nessuno elemento che ci porta a ritenere che il boss abbia soggiornato nel Lazio. Certi giornalisti si fanno affascinare dalle ipotesi. I magistrati non hanno assolutamente trattato». Il Lazio non è una regione citata a caso, perché in sede di dichiarazioni davanti a De Francisci oltre un anno fa, proprio da alcuni pm, fu ricordato la strano caso dell’omicidio-suicidio di Manca. Fascinazione dei giornalisti, dunque, zero.

IRROMPE NUOVAMENTE PALERMO.

Ce n’è abbastanza evidentemente per la Procura di Palermo che a sorpresa ma fino a un certo punto, riapre il capitolo della cattura o forse della resa di Provenzano sull’onda di quanto iniziato un anno fa e terminato in un vicolo apparentemente cieco.

Teresi, Di Matteo, Tartaglia e Del Bene hanno del resto elementi nuovi ogni giorno che incastrano proprio perché la materia della trattativa tra Stato e mafia si plasma di giorno in giorno. E ultimamente la stessa Procura di Reggio Calabria –anche sulla scia di informative della Dia di Reggio e di Palermo che risalgono a 20 anni fa sul ruolo della ‘ndrangheta nella strategia stragista di Cosa nostra – sta dando una mano a Palermo con un filone apposito che fa seguito all’operazione Breakfast.

Sebbene la ‘ndrangheta non abbia mai appoggiato la strategia stragista di Cosa nostra, era ben disposta ad appoggiare piani che vedessero nella secessione o nel federalismo spinto gli obiettivi da raggiungere. Del resto a corroborare queste ipotesi intervennero anche i due collaboratori di giustizia calabresi Filippo Barreca e Pasquale Nucera, le cui dichiarazioni confluirono nel processo sui “sistemi criminali” della Procura di Palermo, avviato nel 1998 e archiviato, su stessa richiesta della Procura palermitana, nel 2001.

Barreca, il 12 settembre 1996, nel corso di un interrogatorio, affermò che la regia di tale disegno era da ricercarsi a Milano dove era avvenuto un incontro tra i clan calabresi facenti capo ai Papalia ed esponenti di Cosa Nostra siciliana. Il tutto, ovviamente, con la benedizione della massoneria deviata.

Anche il collaboratore calabrese Pasquale Nucera ha riferito di un “piano politico criminale” elaborato dalla criminalità organizzata nel 1991. In particolare, ha dichiarato che il 28 settembre 1991, in occasione della riunione annuale della ‘ndrangheta che si tiene presso il santuario di Polsi, alla quale era presente come rappresentante della famiglia Iamonte, avevano partecipato, oltre ai vari capi della ‘ndrangheta, anche alcuni rappresentanti di famiglie napoletane, esponenti mafiosi calabresi provenienti da varie parti del mondo (Canada, Australia, Francia), tale Rocco Zito, in rappresentanza di “Cosa nostra” americana e un personaggio di Milano, definito come “un colletto bianco” legato alla mafia siciliana e calabrese. Quest’ultimo, in particolare, dopo aver affermato che in Italia ci sarebbero stati degli “sconvolgimenti” (non meglio specificati), aveva rappresentato la necessità di una «pacificazione fra le cosche calabresi, perché i siciliani delle famiglie americane ci tenevano molto per poter meglio realizzare un progetto politico, consistente nella costituzione di un movimento politico di Cosa nostra definito partito degli amici».

Ma v’è di più. La strategia della ‘ndrangheta era esattamente contraria alla condivisione delle ipotesi stragiste: solo così la cosca De Stefano avrebbe potuto spostare per anni e anni i riflettori dello Stato su Cosa nostra e trovarsi autostrade spalancate verso la politica e il nord del Paese (dove il secessionismo/federalismo della Lega Nord era un dogma e dove, guarda caso, 20 anni dopo circa cominciano a profilarsi ipotesi di commistioni tra tesorerie di partiti e strani afflussi di denaro da non meglio specificati investitori).

SPATUZZA E I CARABINIERI UCCISI A SCILLA

A questo punto – non mancando gli intrecci a distanza Palermo chiama e Reggio risponde. Ma se Palermo chiama interrogando Cisterna (di cui è verosimile ipotizzare che è parte lesa negli accadimenti susseguitisi in questi anni), la Calabria (ma non la Procura di Reggio) sembra fatta apposta per mischiare le carte e portare fuori strada. E questo lo sanno tanto i pm di Palermo e di Caltanissetta quanto quelli della Dda di Reggio.

Palermo e Calatanissetta infatti stanno cercando di vederci chiaro in una dichiarazione che il pentito siciliano dal 2008 (per moltissimi versi attendibile e tale ritenuto dalla Procura di Palermo) Gaspare Spatuzza (ri)disse in un’udienza il 5 ottobre 2012 in aula nel corso del cosiddetto processo-Mori, parlando del fallito attentato ai Carabinieri allo stadio Olimpico di Roma e del suo rapporto col boss Giuseppe Graviano. Irruppe così sulla scena facendo riferimento, attenzione, a un incontro tra i due nel gennaio 1994 quando, si badi ancora meglio, le stragi del 92/93 erano drammaticamente alle spalle: «Graviano mi disse che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo grazie alla serietà di certe persone». Sempre in quell'occasione – e non prima, ergo a gennaio 1994 e non prima, nonostante Spatuzza fosse un suo fedelissimo – Graviano disse che nonostante «avessero chiuso il discorso, serviva il colpo di grazia» che doveva essere l'attentato ai Carabinieri allo stadio Olimpico, poi fallito. «I calabresi già si sono mossi» avrebbe detto il capomafia a Spatuzza alludendo all'uccisione di due carabinieri in Calabria.

Già nel giugno 2009 Rosario Spatuzza fu citato a comparire innanzi alla Corte d’appello di Reggio Calabria, presieduta da Bruno Finocchiaro, in qualità di testimone nel processo per gli attentati ai carabinieri avvenuti a Reggio Calabria ed in provincia tra il dicembre 1993 ed il febbraio 1994. Ricordiamo che l’ultimo episodio riconducibili alla strategia stragista di Cosa nostra fu il mancato attentato all’Olimpico contro i Carabinieri del 31 ottobre.

Negli attentati di Reggio persero la vita gli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, massacrati a bordo dell'autovettura di servizio, in autostrada, il 18 gennaio 1994 all'altezza dello svincolo di Scilla. Il collaboratore era stato citato su iniziativa degli avvocati Lorenzo Gatto e Michele Priolo, difensori di Consolato Villani. E cosa disse Spatuzza a Reggio Calabria nel 2009? Le stesse identiche cose che dirà tre anni dopo a Palermo sull’attentato fallito ai danni dei carabinieri di Roma: «Sono intervenuto – disse  – su Giuseppe Graviano per cercare di farlo desistere. Lui aveva replicato che già in Calabria si era iniziato a colpire i Carabinieri».

Spatuzza, dopo, ribadì l’ovvio: l’esistenza di rapporti tra mafia e